Il populismo s’impossessa de confronto: parliamo di scorie
di Claudio Desirò
Che il populismo sia dilagante nel nostro Paese lo sappiamo da tempo, in fondo siamo l’unico paese al mondo con forze populiste sia al Governo che all’opposizione, ma che l’atteggiamento populista si impossessi trasversalmente dell’intera società lo scopriamo proprio in questi giorni in cui, le polemiche riguardo il progetto preliminare del Deposito Nazionale per la Gestione dei Rifiuti Radioattivi, vengono sostenute da slogan, spesso privi di contenuti.
Infatti, nella stragrande maggioranza dei casi, tra coloro che si dichiarano contrari all’identificazione nel loro territorio di un sito adatto allo scopo, nessuno si è preso la briga di analizzare quale sia la tipologia di rifiuti considerati e di informarsi riguardo il progetto stesso, per poterlo poi criticare nel merito.
Spesso, vengono prese per oro colato le fonti più improbabili e sempre, o quasi, si muovono critiche prive di contenuti e razionalità.
Partiamo dai rifiuti tanto odiati, della composizione dei quali nessuno sembra occuparsi: 78 mila metri cubi di rifiuti di derivazione ospedaliera a fronte di 17 mila di altra origine. Già, perché ogni qualvolta ci sottoponiamo ad un RX, una tac, una Risonanza o, purtroppo, ad una terapia nucleare antitumorale, produciamo rifiuti.
Fa sorridere che in una società che pretende esami diagnostici ad ogni piccolo disturbo, nessuno si preoccupi poi di dove mettere i materiali da smaltire dopo l’utilizzo. Anzi, l’atteggiamento tipico lo si può riassumere con un: “l’esame lo faccio io, la scoria te la tieni tu”.
Ma anche riguardo il piano, i novelli macinatori di slogan ambientalisti, non hanno ritenuto di doversi informare a dovere, perdendo l’opportunità di muovere critiche eventualmente circostanziate ad un piano, comunque, in parte criticabile.
Partiamo dalle assurde critiche mosse verso questo esecutivo, irrealistiche essendo l’Italia uno dei pochi paesi che hanno procrastinato nel tempo un progetto idoneo in questo campo. Infatti, tutti gli altri paesi hanno depositi funzionanti e funzionali, mentre nel nostro paese, l’atteggiamento politico che porta sempre al rimando delle soluzioni impopolari ai problemi, ha portato a tenere nel cassetto per 10 anni almeno, il relativo piano.
Un altro presupposto da far presente ai nuovi no-scorie, risiede nell’effettiva esigenza di gestione di questi materiali: o continuiamo a girarci dall’altra parte interrandoli in Somalia o nella Terra dei Fuochi, salvo fare i finti indignati quando le Procure aprono le relative inchieste, oppure una sistemazione va trovata. L’alternativa al deposito nazionale potrebbe essere l’istituzione di 20 depositi in 20 regioni, in cui ogni territorio gestisca i propri. Fattibile? Non credo, anche perché poi si ricadrebbe nelle divisioni delle gestioni su piano provinciale, comunale, condominiale.
“Il rifiuto deriva da una tua TAC, te lo interri nel tuo giardino”. Il piano in sè, tra l’altro, potrebbe essere criticato in modo circostanziato nel suo razionale, ma i politici da slogan non hanno probabilmente voglia di informarsi a dovere. Infatti, il piano prevede di gestire nello stesso luogo rifiuti a bassa, media ed alta intensità, unico paese al mondo a farlo. Un piano, infine, che non prevede scenari e varianti differenti e che non è stato nemmeno preceduto da una valutazione riguardo la possibilità di poter gestire le nostre scorie in un piano Europeo di più ampio respiro, utilizzando depositi esistenti in nazioni che producono un quantitativo di scorie abbondantemente superiore a quelle prodotte in Italia, data la presenza nei loro territori delle centrali nucleari.
Depositi europei, ad esempio che potrebbero essere utilizzati per i rifiuti ad alta intensità radioattiva, permettendo di utilizzare un impianto nazionale per il rischio medio-basso, più gestibile e sicuro.
Insomma, il problema della gestione delle scorie nel nostro paese mette in luce, una volta di più, la totale impreparazione di una classe politica più attenta all’inseguire un like su un social, piuttosto che fornire soluzioni e prospettive per il bene del paese. Una corsa al consenso a cui partecipano tutti i politici e politicanti odierni, privi della capacità di razionalizzare una questione tramite un approccio moderno e risolutivo, perché più attenti ai sondaggi ed ai follower che alla realtà con cui dobbiamo confrontarci.
Angela Merkel, madre d’europa e leader normale
di Kishore Bombaci
Si può essere la figura politica più longeva e al contempo una persona estremamente semplice nella vita privata? La figura di Angela Merkel dimostra che non solo è possibile ma addirittura doveroso e salutare.
Negli ultimi decenni nessuno come lei ha dovuto affrontare tutte le sfide recenti in prima persona prendendosi responsabilità di scelte impopolari sia sul piano interno che internazionale. La Cancelliera tedesca ha dimostrato una notevole dose di duttilità e flessibilità che lungi dall’essere opportunistica, si è rivelata la chiave di volta per uscirne vittoriosa.
Ecco, duttilità e flessibilità, unite a una chiara visione prospettica del futuro, sono risorse che dovrebbero caratterizzare un leader politico in un mondo quale quello attuale in cui il cambiamento corre veloce e travolge la rigida compartimentazione delle convinzioni populistiche e ideologiche. Fermi alcuni principi non negoziabili – la lotta all’estremismo – il leader vincente riesce a cavalcare l’onda (anche elettorale) guidandola senza esserne travolto.
La bussola è una vision strategica di lungo periodo coniugata con un corposo pensiero pragmatico. Gli studi scientifici e lo stretto ancoraggio al razionalismo illuministico sono stati d’aiuto alla Merkel. Sarà la formazione scientifica o l’influsso luterano della sua educazione ma non c’è dubbio che negli ultimi decenni la Cancelliera abbia coniugato rigidità e flessibilità in un efficace ossimoro politico (efficace almeno per la Germania).
Di contro non si può non notare l’assenza di tutto ciò nella nostra attuale leadership politica. Forse gli studi giuridici o quelli svolti alacremente presso l’ex stadio San Paolo non assicurano le stesse doti, necessarie per la difesa dell’interesse nazionale. Né tantomeno questo può essere difeso dal fumo propagandistico dell’attuale centrodestra dove la mancanza di vision è palese e la duttilità si risolve in squallido opportunismo elettorale o sondaggistico. Se la Merkel appare come leader politica complessa e persona assai semplice, i nostri leader risultano assai semplici(stici) in politica e molto sovraesposti mediaticamente. Si ricorderanno le vacanze di Di Maio, il cellulare al figlio di Conte acquistato quasi in diretta TV, per non parlare dell’onnipresenza di Salvini (enumerarne le apparizioni sarebbe quanto mai fastidioso e prolisso).
Quel che marca la differenza con i tedeschi è che nel nostro caso mancano progetti e vision di lungo periodo (sarà contento Keynes) e imperversano caos e improvvisazione di chi fino a ieri stava nelle retrovie della storia e per uno strano capriccio del destino si trova oggi in prima linea nella battaglia campale che deciderà il futuro per le prossime generazioni.
E se non si può ancora chiamare Mamma Angela, almeno ci sia consentito di fare gli auguri a noi umili soldati semplici.
Davide, Golia e i mancati fenomeni della politica italiana (manifesto agli sbandati)
di Annalisa Bortone
Chi è il fenomeno? Il fenomeno è’ colui che appare, dal greco fenomèno, apparire.
Un’intera generazione è colpevole di essere stata un mancato fenomeno, per aver scelto di non apparire, di eclissarsi dal panorama politico. Colpevole di aver lasciato volontariamente ad altri la gestione della vita pubblica, delle decisioni, della guida della Cosa Pubblica
Una generazione che conosco bene, perché è la mia. Quella che è cresciuta ascoltando le tribune politiche e gli Oggi in Parlamento popolati dai vari Craxi, Andreotti, Cossiga, Berlinguer, Jotti, Pannella. Personaggi discutibili forse dal punto di vista morale, ma indiscutibili dal punto di vista della caratura culturale e politica.
Una generazione, la mia, che pensava che la politica fosse una cosa seria, da affrontare con preparazione e fatica, seguendo un percorso indicato non dalla Dea Fortuna, ma dalle scuole di partito, guardando agli esempi di Almirante, Rauti, Romualdi, Sponziello, e poi di Fini, Tatarella, Poli Bortone. Una generazione abituata a fare i conti con la partenza dal basso, la presenza nei Fronti della Gioventu’ e nei Fuan, senza cariche e incarichi, ma con la Voglia di Fare e senza la paura di studiare, ammettendo di non sapere, con la consapevolezza della non conoscenza che non mortifica, ma fa tendere al meglio verso l’alto, condannando l’appiattimento verso il basso.
Allora, perché quella generazione cosi’ promettente si è eclissata dalla politica, diventando un mancato fenomeno? Perché, con la sua colpevole assenza, ha lasciato spazio a coloro i quali il senso di inadeguatezza non hanno mai saputo in cosa consistesse, sentendosi sempre pronti e all’altezza, chiusi nel recinto delle proprie piccole conoscenze, dell’autoreferenza, dell’apparenza senza essenza?
Chi ha più colpa: chi ha lasciato che i peggiori facessero, o i peggiori che – in assenza dei migliori – hanno fatto?
Se ci trovassimo nell’aula di un tribunale, si potrebbe parlare di concorso di colpa, in cui la vittima ha fatto la sua parte affinchè il peggio accadesse. Rimane da capire il perché.
Una motivazione si potrebbe individuare proprio in quel senso di inadeguatezza, quel complesso di Davide rispetto a Golia, che derivava dal fatto di essere cresciuti a confronto con una generazione di politici dorata e dotata, arroccata nei castelli parlamentari ma in grado di scendere in piazza ed infuocare le masse. Politici con tanti limiti, ma preparati, colti, conoscitori delle buone maniere e del savoir faire – caratteristiche che hanno consentito loro anche di stare in Europa con la schiena dritta, a tavola con i grandi, senza il timore di essere derisi per aver frequentato “le scuole basse” o per non sapere dove va collocato il tovagliolo quando ci si siede a tavola.
Tutte cose perfettamente inutili, se uno decide di rimanere in casa propria e di non dover avere a che fare con il mondo. Ma che assumono invece una rilevanza, quando diventano strumento per dialogare alla pari e prendere decisioni rilevanti per se’ e per gli altri nella vita pubblica, essendo apprezzati e non derisi.
Ma il cafone, si sa, di questi problemi non ne conosce. Dovrebbe sapere di non saper stare a tavola, o di non sapere argomentare, o disquisire, per poter essere a disagio. Non sapendolo, è invece a suo agio, e – anzi – più che sentirsi alla pari, si sente anche superiore, moderno, e si prende gioco di regole e modi di fare che ritiene antichi, superati, inutili. Non avendo problemi, e non conoscendo i (propri) limiti, si fa avanti, osa, tenta, prova.
Gratta, e vince. Cosa? Una posizione, nella vita pubblica locale e nazionale. E’ la vittoria del mediocre, del self made man inteso nel peggiore dei modi, ovvero dell’uomo che si è formato “all’università della vita” (come se qualcun altro si potesse formare all’università della morte), o alla scuola della strada (come se chi frequenta la scuola normale potesse poi fare a meno della strada).
L’uomo che per crescere ha guardato solo a sè stesso, oltre che alle maestre Barbara d’Urso e Maria De Filippi, studiando all’accademia del grande Fratello. L’Uomo Mediocre, che ha vinto.
E che fine ha fatto quella generazione di secchioni, che – pavida e richiusa su sè stessa – non ha saputo farsi avanti, lasciando campo libero al peggio del peggio? Non sentendosi al livello, tra una elucubrazione mentale e l’altra, si è fatta da parte, dedicandosi alla quotidianità, alla famiglia, al lavoro. Nella ferrea convinzione che persone migliori avrebbero vinto e avrebbero ricoperto cariche pubbliche. Ignorando la lezione di Darwin, che – precursore del qualunquismo vincente – aveva già chiarito che non sono i migliori a vincere e sopravvivere, ma solo quelli che si sanno adattare camaleonticamente al cambiamento. Quelli che navigano a vista, sopravvivendo a braccio, senza programmazione, senza un obiettivo, senza un ideale, spesso senza nemmeno un’idea.
Oggi è chiaro che l’imprevedibile è accaduto, e il DISUMANESIMO ha vinto. Qualunquismo, dilettantismo, approssimazione e avvenenza fisica hanno avuto la meglio su competenza, capacità analitica, approfondimento, conoscenza. Altro che raccomandazione da Prima Repubblica. Un ritorno al medioevo alto, in cui i fanatici si chiamano followers e la santa Inquisizione opera solo sui contenuti non graditi a Facebook.
Poveri di fatto e di pensiero combattono in arene pubbliche per accaparrarsi un trono digitale, senza saper mettere in fila due parole di italiano. E il trono in palio non è solo quello dei programmi spazzatura, ma anche quello delle maggiori cariche istituzionali, amministrative, politiche in genere. Il trono occupato da chi, non avendo trovato collocazione nella società civile, non avendo né arte, né parte né istruzione né qualità, ha provato a scommettere sulla politica. E con un’inversione rispetto a quanto accade in qualunque settore economico e produttivo della società, ha vinto.
In una società sana, non può accadere che chi non ha mai lavorato un solo giorno della propria vita possa diventare rappresentativo di una collettività, proponendosi di guidarla, a qualsivoglia livello. In una società sana, se ho bisogno di un medico per me o i miei parenti, cerco il migliore. Se ho bisogno di un maestro per mio figlio, cerco il migliore. Se cerco un’impresa che mi costruisca casa, cerco la migliore. E se devo scegliere chi deve amministrare la mia vita non ne posso scegliere chi ha frequentato la scuola della vita e l’università della strada, confondendo la verginità culturale, l’assenza totale di preparazione e l’improvvisazione tout court con il lasciacondotto per la credibilità.
I ladri, gli approfittatori, sono da condannare. E quelli della Prima Repubblica li abbiamo condannati. Tutti, all’unisono. Ora, i tempi sono maturi per condannare anche tutti questi ignoranti, arroganti e parassiti che stanno distruggendo il futuro dei nostri figli, presentadosi loro come modello da seguire.
Noi incitiamo i ragazzi a studiare per diventare migliori, e poi i modelli che gli offriamo sono questi. Modelli che dimostrano che basta la terza media per diventare ministro, o una partecipazione al grande Fratello per diventare assistente del Presidente del Consiglio.
La colpa è anche (o forse soprattutto) nostra.
Ora, è il momento di manifestarsi, riportando gli sbandati sui banchi della strada e diventando artefici del nostro destino e di quello della generazione che a noi è affidata.
Quisque faber fortunae suae.
Riflessioni a tutela del turismo
di Bruna Lamonica
I viaggi domestici hanno rappresentato per il settore turistico, la speranza a cui aggrapparsi, stante l’impossibilità di viaggi internazionali, miscelando competenza ad un pizzico di fortuna che non guasta mai.
A differenza, però, della splendida Torino, che può contare sul turismo domestico, città come Firenze, Venezia, Roma, Milano ospitano solo una percentuale ridotta (intorno al 29%) di tale ramo.
Queste città sono risultate essere le più colpite dalla recessione, nonostante la capacità di resilienza e l’abitudine all’imprevisto degli operatori della filiera.
La ripresa non sarà affatto rapida, e comunque non avverrà prima che l’incidenza del covid 19 abbia raggiunto livelli molto bassi, affinché la salute degli ospiti e dei lavoratori sia garantita in modo definitivo o quantomeno decisivo.
In virtù di ciò, comunque, e per il futuro prossimo:- bisognerà porre in essere investimenti UE per promuovere e diversificare il turismo sostenibile, onde essere preparati ad eventi traumatici, resistendovi e superandoli col minimo delle conseguenze negative;
– attuare campagne di marketing a promozione di soluzioni attraenti e vantaggiose, col particolare favoreggiamento del turismo culturale. Promozioni ordinarie e straordinarie che dovranno essere continue e non solo applicate durante le emergenze particolari e – per fortuna – rare;
– occorrerà sconvolgere il sistema alle basi, divenute ormai molli e inefficaci a garantire la fermezza della struttura;
– necessiterà diversificare il turismo in più aree tematiche, che possono essere scelte dai clienti sia in forma separata che cumulativa.
Più precisamente:
AREA BENESSERE E BELLEZZA Si occupa dello sviluppo e della produzione dei servizi a tutela della salute, cercando di prevenire e limitare fattori degenerativi. Valorizza le aziende direttamente connesse allo scopo della cura e della conservazione del buono stato di salute della bellezza della persona.
AREA SPORT E AVVENTURA Ha lo scopo di regalare scariche di adrenalina, permettendo il contatto diretto con la natura. Le soprannominate città sono, in tal senso agevolate, perché, già tutte dispongono di zone verdi o parchi avventura facilmente raggiungibili ed ideali per adulti e bambini.
AREA ATTIVITÀ CREATIVE ARTISTICHE Realizza progetti intersettoriali di valorizzazione del territorio, creando sinergie tra il settore artistico, artigianale, e manifatturiero di cui, non peraltro, Firenze ne è l’indiscussa capitale italiana.
AREA LETTERATURA E ARTE Articola spazi in cui le due tematiche si fondono mettendo in relazione i riferimenti pittorici alla poetica di un determinato scrittore, predisponendo sale apposite alla lettura dei testi.
La Buona Destra, particolarmente vulnerabile al tema della Bellezza e della Cultura, scende in campo con idee precise, alla tutela del turismo. L’importanza che l’Italia ha assunto nel mondo, grazie al settore, dovrà continuare ad espandersi, perché tutti, Italiani in prima fila, possano sentirsi fieri del marchio della Bellezza che da sempre distingue il nostro Paese.
Terrorismo, l’Italia non segua Austria e Francia: la loro strada più dannosa che utile
di Arianne Ghersi
In seguito ai recenti attentati, i paesi coinvolti hanno “sfoderato” idee decisamente poco realizzabili.
Il cancelliere austriaco Kurz, nei giorni seguenti all’attacco, ha dichiarato l’intenzione di promulgare una legge che contrasti efficacemente quello che lui stesso ha definito “Islam politico”. La notizia, purtroppo, non è stata corredata da una bozza della proposta di legge, ma ciò che è trapelato è chiaro: si vuole impedire il finanziamento a cellule presenti sul territorio, sarebbe possibile imporre il braccialetto elettronico a soggetti considerati “a rischio”, si ipotizza il prolungamento di pene detentive ove necessario, si contempla la chiusura di associazioni/luoghi di culto sospetti, si vorrebbe istituire una sorta di albo degli imam, si richiede la creazioni di reparti specializzati nella lotta al terrorismo.
Macron, invece, ha dato disposizioni per cui la polizia ha e avrà la possibilità di far irruzione in settantasei moschee presenti sul territorio francese su ordine diretto del ministro dell’interno. Si stima che una dozzina di esse potrebbero essere chiuse.
Letto ciò, potremmo forse tirare un sospiro di sollievo in quanto l’Italia, avendo purtroppo molta esperienza con il terrorismo eversivo, ha già comparti specializzati delle forze dell’ordine e militari che garantiscono a noi cittadini di svolgere le nostre vite con regolarità. Quello che dovrebbe invece preoccuparci sarebbe l’eventualità di vietare la politicizzazione della religione (dato che alcune forze di destra hanno manifestato una condivisione ideologica con quanto stabilito da Francia e Austria) e se ciò fosse “giusto” come attuare le politiche stabilite all’interno del territorio italiano.
Per comprendere meglio il fenomeno è fondamentale portare ad esempio il caso del buddismo (Soka Gakkai): in Italia è considerata una delle tante religioni presenti e professate sul territorio, in Francia e in altri Paesi europei sino a qualche anno fa era considerata una setta sospetta. Il problema dirimente, quindi, è già stabilire tra i paesi dell’area Schengen i criteri secondo i quali le religioni siano “consentite”.
Per quanto concerne i finanziamenti illeciti, non trovo logica giuridica nella creazione di una fattispecie di reato ad hoc nei confronti del terrorismo islamico: la Guardia di Finanza è già in possesso degli strumenti per contrastare gli scambi fraudolenti di denaro, la lotta ai capitali delle cosche mafiose è realtà nota e quotidiana e tali procedure sono probabilmente estendibili ad altre situazioni di reato.
I braccialetti elettronici sono già una chimera dato che le autorità giudiziarie ne denunciano già da anni la carenza e, se a ciò sommiamo una maggiorazione delle pene, le valutazioni delle condotte ostative nei tribunali potrebbero portare ad ulteriori rallentamenti della nostra giustizia, già per questo tristemente nota.
Per quanto concerne la creazione di un “albo” degli imam, l’attuazione si rende complessa. Semplicemente consultando l’Enciclopedia Treccani troviamo questa definizione: “Colui che dirige la preghiera rituale in comune, ufficio che può essere tenuto da qualsiasi musulmano conoscitore del rituale e non implica alcun concetto di ordini sacri.” Forse chi è delegato ad occuparsi dei rapporti con le autorità religiose dimentica che l’islam è peculiare proprio perché non è caratterizzato da una gerarchizzazione simile a quella cattolica e, se ogni credente che ne è in grado può dirigere la preghiera, vuol dire che chiunque lo faccia legittimato dal proprio credo potrebbe ritrovarsi ad infrangere la legge dello stato in cui si trova.
Un ulteriore dato da non sottovalutare è la “nebulosa” distinzione che si potrebbe provare a fare tra luogo di culto/associazione/sala di preghiera. Al contrario di quanto avviene nel cattolicesimo, l’islam ha meno “bisogno” di un luogo fisico e ciò è confermato dal precetto secondo cui è necessario compiere le abluzioni prima della preghiera: pensando a luoghi desertici, probabilmente già all’epoca del profeta Mohammad si era posto il problema di avere sufficienti scorte d’acqua e, in ragione di ciò, il dogma consente di sostituirla con la sabbia. Una religione che consente ai propri fedeli di pregare quasi in qualsiasi luogo, con la richiesta di farlo rivolti verso La Mecca, è davvero “controllabile” da una realtà statale e burocratica? Il sospetto legittimo risiede nella convinzione che, chi ha intenti illeciti, si limiterebbe semplicemente a smettere di radunarsi in un luogo stabilmente deputato.
La creazione di una legge che vieti la politicizzazione della religione si rende evidentemente impossibile anche ragionando su due luoghi molto conosciuti: il Vaticano ha codici normativi propri, non ha aderito ai patti riguardanti la libera circolazione e ha accordi stringenti con lo stato italiano per la tutela delle numerosissime chiese disseminate in tutta la nazione; la Grande Moschea di Roma (o meglio Centro islamico culturale d’Italia) è legalmente un’associazione, è stata costituita a partire dalle rappresentanze diplomatiche in Italia di diversi stati e, fino al 2016, Rayed Khalid A. Krimly (ambasciatore dell’Arabia Saudita in Italia) vi presiedeva le riunioni del board.
Nel caso le poco lungimiranti idee francesi e austriache fossero adottate in Italia, come si pensa di applicarle? La nostra nazione, seppur laica, ha una storia legata profondamente alla fede e, in ragione di possibili atti terroristici, dovremmo a tal punto snaturarci?
L’Italia nella morsa del terrorismo europeo
di Arianne Ghersi
Il 24 novembre viene compiuto un attentato terroristico a Lugano (Canton Ticino, Svizzera) all’interno di un centro commerciale, il “Manor” di Piazza Dante, nel corso del quale una cittadina svizzera di 28 anni aggredisce con un coltello due donne.
L’aspetto che dovrebbe sconvolgere noi italiani è il fatto che nessun telegiornale nazionale abbia riportato la notizia. Il Canton Ticino è indubbiamente legato all’Italia essendo il cantone italiano per eccellenza, nel quale molti giovani cercano nuove possibilità e con un’importante presenza di frontalieri che ogni giorni escono dal nostro paese per lavoro e far ritorno in patria alla sera. L’informazione a livello nazionale ci ha precluso la possibilità di approfondire questa notizia.
Quanto è successo in Svizzera, fortunatamente, non avrà le conseguenze umane tragiche a cui ormai siamo tristemente abituati: le ferite riportate dalle vittime sembrano di lieve entità, altri clienti del grande magazzino hanno saputo interrompere l’azione della donna in pochi istanti e l’hanno trattenuta fino all’arrivo delle autorità cantonali.
Quanto vorrei qui sottolineare sono le incongruenze: il Corriere del Ticino ha riportato la notizia secondo cui la donna sembra fosse già “attenzionata” dalle autorità dal 2017 per via di sospette affiliazioni al terrorismo jihadista e che, in virtù di ciò, fosse già stata segnalata alla Fedpol (Ufficio federale di polizia svizzero).
Sono sorte delle polemiche riguardo la gestione delle notizie anche all’interno del paese elvetico. L’attentato si è consumato intorno alle ore 14 e la relativa conferenza stampa delle ore 19 a Bellinzona avrebbe dovuto dissipare i primi dubbi su quanto accaduto: ciò non avviene, la donna viene descritta come conosciuta dalle autorità, ma nessuno in quel momento conferma la matrice jihadista dell’azione. ATG (Associazione di categoria dei giornalisti del Canton Ticino), sempre grazie al Corriere del Ticino, diffonde questa nota: «Perché non dire alle 19 quello che è stato poi comunicato con un messaggio twitter tre ore dopo?» chiede l’ATG. «Perché si organizza una conferenza stampa su un fatto di questa gravità per poi affidare la notizia più importante ai social media? Dando per di più l’impressione di aver dovuto reagire con un messaggio di quel genere ad una presa di posizione del cancelliere austriaco Sebastian Kurz, che poco prima – alle 20 e 27 – aveva condannato l’attacco islamista di Lugano». «Inoltre, a cosa è servita quella conferenza stampa se poi, al Quotidiano della RSI, quindi subito dopo, il presidente del governo ha associato la donna arrestata ai lupi solitari islamisti. Perché dire questo in diretta televisiva e non dire la stessa cosa, pochi minuti prima, in conferenza stampa?», prosegue il comunicato stampa.
La vicenda, però, assume contorni più oscuri se si decide di guardare i fatti in maniera completa. Il 7 ottobre il sito ticino.com ribatte la notizia per cui a breve sarebbe stato indetto un referendum per l’approvazione di una “legge contro il terrorismo islamico”. Il lancio del referendum è stato annunciato in una conferenza stampa a Berna da alcune sezioni giovanili dei partiti, tra cui Giovani Verdi Liberali, Giovani Verdi, Gioventù Socialista (GISO), nonché il Partito Pirata e l’associazione di hacker Chaos Computer Club Switzerland (CCC-CH). Secondo quanto riportato la legge violerebbe i diritti fondamentali e le libertà individuali. Tobias Vögeli, co-presidente dei Giovani Verdi Liberali, ha affermato che, per essere considerato un terrorista, non sarebbe più necessario pianificare o compiere un atto di terrorismo: solo sulla base di un sospetto sarebbe possibile obbligare un ipotetico reo a presentarsi a un posto di polizia a determinati orari, vietargli di lasciare il Paese confiscandogli il passaporto, confinarlo in una zona circoscritta o proibirgli l’accesso a un luogo o il contatto con determinate persone. Viene sottolineato che l’attuale formulazione della legge non offrirebbe sufficienti garanzie giuridiche. Numerose critiche da parte dei contrari alla nuova legge riguarderebbero anche le azioni preventive poste nei confronti degli adolescenti: a partire dai quindici anni i sospetti potrebbero infatti essere posti agli arresti domiciliari e si potrebbero inoltre imporre misure nei confronti di bambini a partire dai 12 anni.
Il relatore speciale dell’Onu contro la tortura – l’elvetico Nils Melzer – e altri quattro esperti indipendenti delle Nazioni Unite in materia di diritti umani avevano stabilito che la nuova legge contro il terrorismo violava i diritti umani. Si tratterebbe di un pericoloso precedente per la repressione dell’opposizione politica in tutto il mondo.
A conclusione di questo mio intervento vorrei porre l’attenzione su alcuni aspetti. È giusto non riportare nei media nazionali italiani notizie riguardanti atti, seppur di lieve entità, che coinvolgono i paesi confinanti? Non credo proprio, anzi, ritengo sia fondamentale poter conoscere gli eventi e non valutarne l’importanza solo in base alla crudezza degli atti o al numero delle vittime. È corretto che uno stato decida di privare di alcune libertà i propri cittadini in nome della sicurezza pubblica? Credo sia la domanda più controversa, ma sono convinta che un popolo non debba cambiare le proprie abitudini ed usanze in nome di un possibile pericolo: ritengo sia più corretto incentivare il controllo delle persone “a rischio”; sia per quanto concerne l’attentato di Vienna sia a Lugano si sono sottovalutati i precedenti delle persone coinvolte e le autorità non hanno evidentemente saputo lavorare in chiave preventiva.
Vorrei, inoltre, ricordare ai nostri politici nazionali che i proclami social, dividere il mondo in un noi/loro non è propedeutico all’ottenimento della pace sociale. Come Ulisse rischiò di essere coinvolto dal canto delle sirene, noi dovremmo ragionare su come prevenire che le odi di una realtà terroristica affascinino le persone e non colpire solo le sirene perché, purtroppo, il loro canto verrà perpetrato da altri.
Quando le donne sono costrette a colludere con l’universo maschile violento
di Noemi Sanna
La violenza sulle donne, sempre di grande attualità, è certamnte il risultato di una mentalità aggressiva e bellicosa, tipica del predatore che insegue la preda, basata sulla convinzione che la differenza tra i sessi sia una questione di potere. Anche quando non assume connotazioni drammatiche il rapporto tra uomo e donna sembra pemanere un rapporto di forza basato sulla relazione gerarchica tra il dominio maschile e la sudditanza femminile. Pregiudizio tuttora presente in molte società in cui la cultura maschile dominante esercita forti pressioni psicologiche e sociali per trattenere le donne in stato di subalternità che non raramente implica anche situazioni francamente vittimologiche. Conosciamo le tante storie di donne costrette da assurde imposizioni sociali a nascondersi dietro una umiliante copertura che occulta il loro volto e costringe la loro stessa identità a non essere. Sappiamo di donne tenute lontane dai luoghi sacri perché indegne in quanto ritenute sprovviste di anima e quindi impure. O, ancora, le tante donne costrette a lavori umili e usuranti che glistessi uomini rifiutano, come succede in certe tribù africane che considerano il genere femminile inferiore di rango agli stessi animali domestici, ritenuti più utili perché fornitori di cibo alla comunità. Per non dimenticare altre forme di violenza come lo sfruttamento della prostituzione, la violenza sessuale, gli stupri etnici, la tratta in schiavitù, l’aborto selettivo, fino al drammatico fenomeno del femminicidio che rendono la violenza sulle donne un evento universalmente diffuso.
Molte forme di violenza tuttavia, soprattutto in alcune società nemmeno tanto distanti dalle nostre, avvengono anche in ragione di una sorta di passiva accettazione da parte delle stesse donne. Ne sono esempio le crudeli pratiche di mutilazione genitale, contrabbandate come consuetudini igieniche o di iniziazione, come la clitoridectomia o l’infibulazione. Sulla base dei pochi dati disponibili si stima che, a livello mondiale, tra i 100 e i 132 milioni di ragazze abbiano subito mutilazioni genitali. Ogni anno si calcola che circa altri 2 milioni di ragazze subiranno una qualche forma di mutilazione. In base a quanto è dato sapere vengono praticate in una trentina di paesi africani, in alcuni paesi dell’Asia occidentale e in alcune comunità minoritarie di altri paesi asiatici. Sono presenti anche nel contesto di alcune comunità di immigrati in Europa, nord America, Australia e Nuova Zelanda. Secondo l’OMS sono da attribuire a queste pratiche circa la metà dei 500.000 decessi di donne che si verificano nel terzo mondo durante la gravidanza e il parto, e circa 4 milioni dei decessi di neonati. Nella cultura occidentale questo tipo di pratica è assimilata al concetto giuridico di lesione grave/gravissima ad alto impatto sul piano del danno sia immediato che a lungo termine, nonché penalmente perseguibili. Non è così nelle culture in cui è praticata, ove, al contrario, assume un’alta pregnanza simbolica e di controllo sociale.
Per quanto possa sembrare incredibile sono proprio le donne adulte, e non gli uomini, che recidono il clitoride (clitoridectomia) alle bambine o cuciono le piccole labbra della vagina (infibulazione) privando queste creature dei piaceri di una sessualità creativa e impedendo loro di esercitare la scelta del partner nella più grande libertà e creatività affettiva e sessuale. Saranno poi queste stesse bambine che, una volta diventate adulte, deturperanno, e non solo nel corpo, altre giovani donne che, a loro volta, renderanno vittime altre donne. In tal modo viene perpetratanel tempo una pratica misogina, atroce e disumana imposta dalla cieca osservanza di una cultura che impiega la violenza per esercitare il totale controllo sull’altro sesso. Una cultura maschilista che ha costruito un Corpus di censure sociali e di controllo che non solo impedisce alle donne di ribellarsi, ma le rende conniventi e responsabili in prima persona delle ingiurie, violente e atroci, portate alla loro stessa natura di donna attraverso pratiche trasmesse di generazione in generazione dalle donne sulle donne.
L’adesione apparentemente incondizionata da parte di un gruppo (le donne) ai precetti propri del gruppo dominante (gli uomini) sino a divenire il tramite degli abusi che quei precetti prescrivono contro loro stesse, sembra paradossale, ma si basa su meccanismi psicologici funzionali alla loro sopravvivenza in un mondo ostile. Si possono riconoscere il meccanismo della identificazione all’aggressore (se divento come il mio nemico ne ho meno paura) o il mimetismo sociale (se mostro di somigliare al mio nemicosono protetta dalla sua aggressione). Ma esiste un’altra categoria psicopatologica che questi esempi possono evocare: la così detta personalità del come se tipica di chi costruisce la propria identità sulla pressoché esclusiva identificazione a modelli esterni ad elevata suggestionabilità e rispetto ai quali si pone in un atteggiamento di totale passività. Sono personalità che convalidano la loro stessa esistenza su questo tipo di identificazione passiva e imitativa, totalmente priva di autonomia e di auto determinazione. Suggestionabilità, passività, inautenticità, anaffettività sono le loro caratteristiche. Si comportano come fossero robot ubidienti ma senza anima e trasformano la loro vita nella parodia di una vita altrui. Questo meccanismo, tipico degli adepti delle sette, diventa, ahimè, costume in alcune sottoculture violente.
Le dinamiche descritte si riferiscono a situazioni estreme, distanti dalla nostra cultura, proprie di contesti violenti in cui vigono relazioni intragruppali basate su rapporti di forza e potere molto asimmetrici e sperequativi che definiscono vincoli di forte dominanza. Ma anche in contesti sociali più equilibrati, come nella nostra società mediterranea, non è difficile riscontrare nelle donne atteggiamenti di accettazione e tolleranza nei confronti di consuetudini che sono, in realtà, espressione di aspetti deteriori della cultura patriarcale. Ne consegue che le donne, pur senza arrivare a forme di connivenze evidenti come quelle precedentemente descritte, tuttavia continuano ad accreditare gli uomini come “gruppo dominante” e si privano da sole della necessaria forza contrattuale indispensabile a impedire gli abusi che possono derivare loro da quel gruppo reso dominante dalla loro stessa accondiscendenza.
Marocco e fronte Polisario: una guerra pronta ad esplodere alle porte dell’Italia
di Arianne Ghersi
Il Fronte Polisario di Brahim Ghali, un movimento politico nato nel 1973 di ispirazione socialista, è stato costituito per perseguire l’indipendenza del Sahara Occidentale (i cui abitanti sono il popolo saharawi) dal Marocco, che lo occupa militarmente.
Lo stato marocchino è molto interessato a mantenere il silenzio su questa vicenda in quanto ne sfrutta, senza averne titolo, le risorse: petrolio, fosfati e pesca. Liberopensiero.eu ipotizza che l’80% del PIL marocchino derivi da queste appropriazioni indebite.
Il popolo saharawi nasce dalla fusione tra le genti locali di lingua berbera e le tribù arabe Ma’qil, che all’inizio dell’XI secolo invasero la parte settentrionale dell’Africa per raggiungere, verso il XIII secolo, il Sahara occidentale e la Mauritania. L’unione fra tribù arabe e berbere diede vita a un popolo musulmano, di lingua araba, con una tipica cultura tribale beduina, dedito alla pastorizia-nomade. I saharawi sono storicamente legittimati a ritenere che quella porzione di territorio gli appartenga e richiedono la formazione di uno stato indipendente dal 1966, ma ciò non è mai stato soddisfatto: prima dovettero fronteggiare l’occupazione spagnola e ad oggi si ritrovano con il 70% del loro territorio sotto il controllo militare del Marocco. Nel 1976 fu creata la Repubblica Araba Saharawi Democratica (RASD) e da allora si parla di un referendum che dia la possibilità al popolo di esprimere la propria volontà autonomistica: siamo nel 2020 e nessuna data è stata ancora stabilita per questa consultazione popolare; ciò è dovuto anche alla posizione assunta dalla Francia che, essendo un solido partner di Rabat, ha sempre osteggiato il percorso democratico.
Nel 1975 la Corte dell’Aia, su richiesta dell’Assemblea generale delle Nazioni unite, negò che il Marocco o la Mauritania avessero diritti territoriali sul Sahara Occidentale e confermò il diritto all’autodeterminazione di questo popolo. Il 5 agosto 1979 il Fronte Polisario firmò un trattato di pace con la Mauritania, che ritirò le truppe dal territorio occupato.
Il Marocco è sicuramente consapevole del possibile pericolo costituito dal Fronte Polisario e, proprio per contenerlo, ha fatto erigere un muro (il Berm): si estende per circa 2000 Km ed è stato disseminato di mine antiuomo. I frequenti incidenti dovuti ad esplosioni, con relative vittime, ha fatto sì che il territorio fosse bonificato, ma ciò non è avvenuto nella sua interezza. Interessante sottolineare che un gruppo di volontari ha verificato e testimoniato come molte mine disinnescate riportassero il marchio “Made in Italy”.
I conflitti legati a quanto appena descritto hanno trovato nuova linfa in questo mese di novembre. Dinamopress riporta la notizia secondo cui «l’8 novembre 2010, le forze dell’ordine marocchine smantellavano in maniera violenta l’accampamento di Gdeim Izik, composto da circa 6.500 tende allestite dalla popolazione saharawi un mese prima per protestare contro la marginalizzazione e le difficili condizioni socio-economiche nel Sahara occidentale controllato dal Marocco. Durante i violenti scontri avvenuti nelle operazioni di sgombero del campo e nel clima incandescente innescatosi anche nei giorni successivi nella limitrofa città di El Aaioun, hanno perso la vita 2 manifestanti e 11 membri delle forze dell’ordine marocchine».
Il 25 novembre, la Corte di cassazione del Marocco emetterà un giudizio che potrebbe porre fine, da un punto di vista legale, alla vicenda ma l’esito, come è facile evincere, rischia di essere sbilanciato a vantaggio dello stato chiamato a giudicare il suo stesso operato.
Il clamoroso fallimento dell’intervento militare in Afghanistan
di Arianne Ghersi
In un recente passato ho già avuto modo di trattare questa tematica, ma ogni dichiarazione in merito rende sempre più attuale l’argomento.
Molto importante al fine della comprensione di questo paese credo che sia una minima conoscenza storica. L’Afghanistan ha subito l’invasione russa dal 1979 al 1989. Una volta ritiratosi l’esercito sovietico, ha preso campo una sanguinosissima guerra interna tra mujaheddin. Nel 1996 fanno una prima comparsa nello scacchiere politico i talebani, che saranno tristemente noti, dopo il 2001, per l’appoggio logistico sul territorio afghano fornito all’ideatore (Osama Bin Laden) dell’attacco terroristico che sconvolse il mondo intero nel 2001: le Torri Gemelle.
Da allora sappiamo che gli Usa sono intervenuti, ma il governo da loro spalleggiato è principalmente composto da signori della guerra, una scelta davvero infelice per il popolo. Probabilmente si era pensato che, una volta cacciati i talebani – che mai sono stati sradicati, ma hanno solo cambiato modo di agire –, si sarebbe potuta ristabilire la pace. Agli occhi del mondo occidentale il fatto che le donne abbiano potuto votare (sono stati comunque segnalati numerosi casi di brogli) sembra una conquista, ma in realtà si tratta di uno specchietto per le allodole perché ancora oggi la condizione femminile è incerta.
In Afghanistan la vita di ogni persona è quasi sempre costellata da sofferenze e violenza. Gran parte del popolo vive con meno di due dollari al giorno. Si ipotizza che più dell’80% delle donne e almeno il 50% degli uomini siano analfabeti. Le strade e i sentieri sono disseminati da resti di carro armati, mine e bombe (spesso inesplose); questo aspetto rende pericolosa ogni azione quotidiana. Non bisogna neanche dimenticare la questione riguardante l’oppio: l’economia interna del paese infatti collasserebbe senza la produzione di questa droga. Tantissimi agricoltori si ritrovano a coltivare papaveri per sostenere le loro famiglie, ma non è certo raro che loro stessi ne facciano uso e si generi una dipendenza.
La storia recente del paese è caratterizzata dall’essere diventata il campo di gioco delle super potenze. L’Afghanistan ha ingenti risorse minerarie e petrolifere non ancora “messe a profitto” tanto che, ultimamente, si è profilata l’ipotesi concreta che il progetto riguardante la “Nuova Via della Seta” cinese intendesse intervenire nello scacchiere dei partner commerciali coinvolti, così da garantirsi lo sfruttamento di tali ricchezze.
Il 9 novembre 2018, nel corso di una conferenza tenutasi a Mosca, alla quale sono intervenuti influenti personalità talebane, del governo afghano e gli addetti diplomatici degli stati maggiormente interessati agli accordi (Cina, Iran, Pakistan, India, Uzbekistan, Kazakistan, Tagikistan, Kirghizistan e Usa in veste di osservatore), il rappresentante dell’ala politica talebana ha richiesto come condizione per intavolare trattative con il governo centrale la liberazione dei prigionieri politici, il ritiro delle truppe straniere e il riconoscimento ufficiale di partito politico autonomo. È palese che già solo la partecipazione a questo incontro è stata una vittoria politica considerevole per il gruppo talebano in quanto ha ottenuto forte visibilità e considerazione come forza politica.
Nel gennaio 2019 si sono profilate le condizioni affinché venisse posto in essere un accordo di pace tra i talebani e il governo statunitense. I punti essenziali su cui si basa tale negoziato prevedono il ritiro delle truppe internazionali dal territorio afghano e la garanzia che i talebani si impegnino concretamente a contrastare l’influenza di Al-Qaeda. Proprio questo ultimo aspetto mi lascia titubante in quanto i talebani non presentano più la stessa identità mostrata al momento della loro ascesa e, negli anni, i loro contrasti con Al-Qaeda oserei dire si siano stemperati, in quanto le forze straniere hanno combattuto queste due entità come se fossero interscambiabili e rendendole di fatto un fronte comune alleato per contrapporsi alle ingerenze occidentali.
Inoltre i talebani stessi non sono più identificabili come una realtà unicamente afghana ma, ad oggi, si pensa possano aspirare al controllo dell’intera regione interessata; questo aspetto porta gli Stati Uniti ad avere minor incisività riguardo a eventuali concessioni politiche. Non è da dimenticare anche che, se posti in essere, questi negoziati getterebbero le basi per una reale perdita di potere da parte del governo centrale di Kabul.
Il 29 febbraio 2020 a Doha (Qatar) è stato firmato il trattato di pace per smilitarizzare il paese e porre fine alla guerra; l’accordo è stato siglato dal capo negoziatore di Washington, Zalmay Khalilzad, e dal capo politico dei talebani, Abdul Ghani Baradar. Quest’ultimo è stato recluso in un carcere del Pakistan (la detenzione è durata 8 anni) fino alla sua nomina al vertice dell’organizzazione terroristica decisa dal suo predecessore, il mawlawì Hibatullah Akhundzada, il 25 gennaio 2020. Questo dettaglio rende chiaro come il Pakistan abbia un ruolo di regolatore e mediatore all’interno del processo negoziale.
Il trattato prevede il ritiro delle truppe statunitensi nei successivi 135 giorni ed è atteso che siano rilasciati circa 5000 ribelli; questo aspetto si profila difficilmente realizzabile tenendo conto che uno stato regolare (Usa) ha preso tali accordi con una forza politica che non fa parte dell’establishment del presidente Ashraf Ghani e che, con tale configurazione, si ritrova così impegnato a rispettare un accordo senza averlo firmato.
Gli aspetti interessanti da notare sono relativi all’implicita delegittimazione del gabinetto del presidente Ashraf Ghani e il fatto che all’interno della delegazione talebana ci fosse una ristretta componente femminile. Era stato prontamente affermato che le donne non avrebbero partecipato direttamente alle trattative, ma comunque ciò dimostra una piccola apertura.
Repubblica, il 17 novembre 2020, riporta le dichiarazioni di Cristopher Miller (il segretario delle Difesa) in cui annuncia ufficialmente il ritiro di migliaia di soldati americani entro il prossimo 15 gennaio 2021. McConnell (capogruppo della maggioranza repubblicana al Senato) ha affermato: “Lo spettacolo di militari statunitensi che abbandonano infrastrutture ed equipaggiamenti, lasciando il campo in Afghanistan ai talebani e all’Isis, sarebbe trasmesso in tutto il mondo come un simbolo di sconfitta e umiliazione e una vittoria dell’estremismo islamico”.
Vorrei concludere con una riflessione che dovrebbe essere facile da comprendere a chiunque abbia una buona memoria. Il Presidente George W. Bush, il 20 novembre 2001, durante una sessione congiunta del Congresso, dichiarò: “Our enemy is a radical network of terrorists and every government that supports them. Our war on terror begins with al Qaeda, but it does not end there. It will not end until every terrorist group of global reach has been found, stopped and defeated”. “Il nostro nemico è una rete radicale di terroristi e ogni governo che li sostiene. La nostra guerra al terrore inizia con al-Qāʿida, ma non finisce lì. Non finirà fino a quando ogni gruppo terroristico di portata globale sarà trovato, fermato e sconfitto” (citazione e traduzione Wikipedia).
Trascorsi diciannove anni, dobbiamo pensare che la guerra intrapresa sia stata sbagliata e quindi sia giusto sedersi allo stesso tavolo dei Talebani perché è un modo per ridare loro dignità politica in quanto ingiustamente accusati? Oppure gli Usa hanno deciso di abbandonare l’intenzione di diffondere i principi di libertà e democrazia, consegnando l’Afghanistan (e in futuro altri paesi: l’Iraq ne è già stato un esempio) in mano a dei pericolosissimi criminali perché di fatto sconfitti?
Purtroppo solo il tempo saprà rispondere, ma ritengo che l’epilogo sia già ovvio.
Le minacce di Erdogan e la formazione statale degli imam in Francia
di Arianne Ghersi
“Informazionecorretta.com – Come i media italiani presentano Israele, mondo islamico, terrorismo” ha diffuso in rete un video di un comizio di Erdogan tenutosi nei giorni seguenti all’attentato terroristico di Vienna. Il contenuto del discorso in lingua turca è il seguente:
“In Medio Oriente, nel Nord Africa, dall’Asia del Sud all’Europa, assistiamo all’aumento degli attacchi contro i Musulmani giorno dopo giorno. La decisione dell’Austria di chiudere le moschee e i centri di preghiera musulmani, dimostra l’aggressività contro i musulmani in Europa. Mi rivolgo all’Europa e al primo Ministro austriaco: ascolti bene, lei è un ragazzino e deve acquisire ancora molta esperienza. Faccia attenzione, non dimentichi questo: il suo atteggiamento e le sue azioni le creeranno grosse preoccupazioni. Aggiungo inoltre, che la chiusura delle moschee e l’espulsione di musulmani dall’Austria possono aprire la porta a una guerra tra la falce di luna e la croce. E lei sarà ritenuto responsabile quando questo avverrà. Non mi rivolgo solo all’Austria, ma anche all’Europa e in particolare alla Germania. Fermate quest’uomo dal farlo. Lui può ignorarlo, ma questa situazione può avere delle gravi ripercussioni. Anche noi abbiamo una linea e degli strumenti per far seguito. Poiché abbiamo duecentocinquanta mila nostri fratelli in Austria e non li lasceremo sotto l’oppressione.”
Quanto dichiarato da Erdogan è da considerarsi una minaccia oppure un accorato appello a non attuare una discriminazione religiosa? Il sostegno offerto alle comunità islamiche europee è un tendere la mano verso i propri fratelli di credo o è una chiamata alle armi? Vorrei saper rispondere a queste domande, ma purtroppo non sono in grado di farlo perché potrei peccare di superficialità o cadere nella trappola del complottismo.
“Challenges.fr” riporta la notizia secondo la quale, nella giornata di martedì, Charles Michel (presidente del Consiglio europeo) prenderà parte al summit inerente la “risposta europea al terrorismo” a cui parteciperanno Francia, Austria, Germania, Olanda e Ursula von der Leyen (presidente della Commissione europea). Inoltre, viene virgolettata la dichiarazione di Michel: “Per combattere l’ideologia dell’odio, dobbiamo creare quanto prima un istituto europeo per formare gli imam”.
Ricapitolando: le nostre azioni non dovrebbero essere atte a svolgere un attento monitoraggio e pensare a campagne di informazione; la prevenzione non è neanche un’ipotesi a quanto pare.
“Politico.eu” descrive come lo stesso Chems-Eddine Hafiz, rettore della Grande moschea di Parigi, ritenga che questa idea non sia realizzabile, sottolineando anche l’esiguità delle richieste di formazione per diventare imam. Spiega come i finanziamenti statali alle moschee siano insufficienti e ciò fa sì che ci si affidi a fondi provenienti dall’estero; l’assenza di uno status formale di imam complica ulteriormente questi aspetti.
A mio avviso dovremmo porci altri tipi di domande: in una democrazia è corretto che lo stato intervenga sulle autorità religiose? Come reagiremmo se venisse proposto che ogni singolo prete/pastore/pope o rabbino debba essere approvato statalmente?
Le due notizie che ho riportato in questo articolo sono il preludio di uno scontro di civiltà?