Perché il manifesto per la Buona Destra è una novità politica assoluta
Come ha scritto Filippo Rossi nel suo intervento introduttivo, il manifesto costituisce lo strumento identitario fondamentale della Buona Destra, non solo perché nei 20 punti in cui è articolato vengono indicati i valori ed i principi che ispirano e sostengono la costituzione di questa essenziale e fino ad ora assente proposta politica. Ma perché evidenzia la nostra diversità e alternatività rispetto all’intero quadro partitico oggi presente in Italia.
Inoltre, in un contesto del tutto deideologizzato, dove operano formazioni politiche autoreferenziali che tendono a tacere sui loro veri valori e principi preferendo identificarsi attraverso le leadership, dando vita a partiti-personali, dove i concetti di Destra e Sinistra sono del tutto arbitrari e confusi, e che costituiscono un vero insulto alla democrazia, poiché basano la loro comunicazione unicamente su slogan improvvisati e condizionati dagli algoritmi, che misurano le tendenze nei social degli umori collettivi, presentarsi con un Manifesto come quello che ci onoriamo di avere presentato costituisce una novità assoluta e una scelta di trasparenza che, a tutti gli effetti, è un unicum sul piano del metodo e della serietà con cui vogliamo porci nei confronti dell’intera opinione pubblica nazionale ed europea.
Ovviamente useremo anche noi gli slogan, ma solo dopo avere dichiarato chi siamo, qual è la nostra visione di stato e società, in che rapporto ci poniamo con l’Europa e quindi su quali contenuti intendiamo fondare la nostra azione politica.
I contenuti dell’azione politica sono gli elementi fondamentali della Buona Destra, che si pone in alternativa di tutti i partiti che hanno scelto gli slogan senza contenuti per avvelenare la società, istillando odio e disprezzo senza offrire alcuna proposta degna di essere realizzata e capace di affrontare e risolvere i problemi del Paese.
In questo senso appare quindi fondamentale che non solo il Manifesto sia il nostro principale punto di riferimento, ma anche che costituisca il nostro più importante strumento non di propaganda ma di convincimento, circa la necessità di sostenere la nostra visione della società in funzione di contrasto al declino e a tutti i soggetti politici che lo hanno determinato.
Iniziamo oggi quindi questo approfondimento dei contenuti del Manifesto, per cercare di evidenziare tutti gli aspetti di ricaduta politica di ogni singolo punto e dare a ciascuno gli strumenti di convincimento che sono essenziali non per la propaganda, ma per la costruzione della coscienza di cittadini italiani desiderosi di dare un contributo costruttivo alla creazione di un futuro condiviso per il nostro Paese e per l’intero continente Europeo.
Iniziamo quindi dall’incipit del Manifesto, che costituisce uno dei molti elementi di novità del documento e successivamente del punto uno, che nella sua semplicità ha una carica rivoluzionaria indiscutibile, almeno rispetto alla politica così come fino ad oggi l’abbiamo conosciuta.
Perché il Manifesto inizia con un forte richiamo alla democrazia, che non può prescindere da creatività e fantasia? Perché la politica democratica ha un enorme bisogno di creatività e fantasia per sfuggire alle logiche perverse dell’odio e del conflitto perenne, che portano alla depressione sociale di massa. L’Italia ha una grande bisogno di rilanciare la sua identità di culla della cultura mondiale, ed anche per affrontare i problemi del nostro tempo, che si presentano sempre in una maniera nuova e comportano soluzioni spesso innovative e creative. In altre parole democrazia, fantasia, creatività e decisione sono tutti strumenti della Buona Destra, per riuscire a cambiare prospettiva e pensare positivo. Inoltre questo incipit è strettamente collegato a molti altri punti del manifesto perché, come vedremo, la politica è decisione, scelta, indirizzo e senza creatività e fantasia, oltre che ovviamente competenza, non c’è possibilità di conseguire nessun risultato, come è purtroppo ampiamente dimostrato dall’immobilismo dell’attuale governo e dal vuoto pneumatico di idee dell’attuale opposizione.
Quindi l’incipit è la prima prova del ruolo di alternativa della Buona Destra ad un sistema politico e partitico privo di idee e capacità di governo del Paese.
La successiva frase di introduzione ai punti del Manifesto è invece una dedica ad un principio del tutto dimenticato perfino nella dialettica politica e cioè che il fine della Buona Destra (e in generale della Buona Politica) non può non essere la difesa del Bene Comune.
Ma a parte la novità assoluta di inserire in un documento politico il principio del Bene Comune, qual è l’elemento di novità che il Manifesto della Buona Destra introduce?
Il fatto di spiegare nei punti successivi il senso effettivo del Bene Comune che, come vedremo, viene definito, misurato ed elevato a concreta esigenza di garanzia del buon governo che la Buona Destra vuole garantire.
Non a caso appunto i 20 punti del Manifesto sono tutti in funzione della sua realizzazione.
Serve ridurre il numero dei parlamentari senza aumentare il federalismo?
La situazione del numero dei parlamentari nei vari paesi europei e delle democrazie occidentali non può essere letta in modo semplicistico e matematico. La democrazia parlamentare va letta seguendo il dato della rappresentatività non solo in rapporto al numero degli abitanti per singolo rappresentante eletto al parlamento, che in Italia è di circa 1 ogni 63mila abitanti, ma secondo le funzioni, la struttura e il modello organizzativo/costituzionale di ogni Stato. In questi termini e secondo i 2 parametri citati, l’Italia ha un quoziente tra i più bassi d’europa, se consideriamo pure la centralità delle funzioni legislative primarie. Ad esempio, Cipro che ha quasi 1 milione e duecentomila abitanti, pur avendo solo 56 parlamentari ha un rapporto di un rappresentante ogni 21000 abitanti; la Grecia con i suoi 10.000.000 circa di abitanti e i suoi 300 parlamentari, ha un rapporto di 1 parlamentare ogni 33mila abitanti; la Romania con i suoi 20 milioni di abitanti: 1 parlamentare ogni 43 mila abitanti: l’Estonia ad es. 1 parlamentare ogni 13000 abitanti. Regno Unito 1 parlamentare ogni 43mila abitanti. Belgio 1 parlamentare ogni 54.000 abitanti.
Il quoziente aumenta rispetto all’Italia se si considera Francia, Polonia e Germania. Tuttavia, quest’ultima ha una organizzazione differente, secondo un modello federale, che vede un più incisivo potere dei regionalismi e delle autonomie locali, rispetto allo stato centrale secondo un modello legislativo che delega alle strutture periferiche buona parte delle funzioni centrali. Ad es. l’art. 50 della Legge fondamentale, indica il Bundesrat (Consiglio federale) come l’organo attraverso il quale i Lander ( stati federati: Sassonia, Baviera ecc.) partecipano al potere legislativo e all’amministrazione dello Stato federale e si occupano di questioni relative persino all’Unione europea, limitando coadiuvando e semplificando il ruolo e i compiti dell’attività del legislatore centrale, seguendo le istanze dei bisogni territoriali.
In Italia, invece, in Parlamento si litiga su come distribuire i fondi europei a livello territoriale e scoppiano le solite, ataviche diatribe Nord contro Sud, foraggiate dai soliti istinti separatisti. In Germania il federalismo unisce è collante di unità e motore di sviluppo. In Italia il centralismo distrugge lo sviluppo armonico nazionale. Nessuno ha mai pensato ad un federalismo serio, non solo fiscale, ma legislativo, amministrativo secondo un modello federale alla tedesca.
A ben vedere, quindi, in termini di rappresentanza siamo già attualmente messi peggio di Estonia, Grecia, Cipro e Romania. Siamo uno dei paesi con un indice di rappresentatività molto basso in base ai 62 milioni di abitanti, con un accentramento del potere legislativo quasi totalmente statale, salvo alcune rare eccezioni per le regioni a statuto speciale nelle materie di loro stretta autonomia ( poche materie peraltro) o a statuto ordinario ove la legislazione regionale delegata e i poteri regolamentari attribuiti secondo le leggi cornice, mortificano i territori e la democrazia. Il lavoro parlamentare di studio e preparazione dei testi di legge viene devoluto in Italia alle Commissioni parlamentari. Le regioni hanno un limitato potere propositivo.
Se riduciamo i parlamentari a 600 avremo 1 parlamentare ogni 103 mila abitanti e con l’assetto centralista attuale verrà paralizzato il corretto funzionamento delle Commissioni parlamentari, che per colmare il deficit numerico dovrebbero avvalersi delle consulenze di burocrati, nominati dagli stessi politici e con costi raddoppiati rispetto agli attuali costi del parlamento, salvo che non si voglia ingessare l’attività parlamentare.
Gladiatori o squadristi? Il silenzio e le responsabilità della destra
In questi giorni fa notizia che i fratelli Bianchi, due degli assassini di Willy, il ragazzo di Colleferro ucciso apparentemente solo per aver aiutato un amico in difficoltà, sono praticanti e appassionati di MMA (arti marziali miste). Come era prevedibile, ne è nata un’aspra polemica giornalistica che ha riproposto lo stereotipo della correlazione tra arti marziali e violenza, accusando indistintamente tutte le discipline e gli sport da combattimento di contribuire a creare individui violenti proni a brutalità e razzismo.
Va premesso che una tale generalizzazione è del tutto infondata, non essendo basata su studi scientificamente validi. Non esiste infatti nessuna evidenza, se non sporadici casi aneddotici, che le arti marziali promuovano la violenza. Al contrario, gran parte degli studi di settore dimostrano come la maggioranza dei praticanti, statisticamente parlando, non siano più inclini alla violenza della popolazione generale e, in molti casi, acquisiscano un maggior controllo di pulsioni violente. Tuttavia, se ci focalizziamo solo sulle MMA, una correlazione tra pratica e violenza razziale, seppur minoritaria, esiste ed è oggi spesso sottovalutata, in modo particolare da chi pratica questa disciplina. Ciò che è accaduto non sorprende gli studiosi che da anni si interessano ai Martial Arts Studies e dovrebbe fare riflettere tutti su un aspetto da troppo tempo ignorato: quello della commistione tra MMA ed estrema destra.
Da anni infatti in America le scienze sociali hanno evidenziato un legame preoccupante tra gli ambienti di estrema destra, sovranisti, antisemiti e suprematisti bianchi, e il mondo delle arti marziali miste. Secondo la letteratura specialistica questa relazione è dovuta a diversi fattori psicologici, tra i quali spiccano il culto del corpo, la fascinazione per le stereotipate e immaginarie figure guerriere e l’amore per la violenza ritualizzata, ma anche il senso iniziatico e di esclusività tipico delle arti da combattimento più estreme. Esistono poi fattori socio-antropologici, come ad esempio la sempre più evidente diffusione del militarismo e l’esasperazione dell’individualismo. Le ragioni storiche di questo rapporto sono anche da ricercarsi nella forse deliberata strategia di mercato promossa da una delle più vecchie organizzazioni promotrici di incontri, la UFC (Ultimate Fighting Championship), nei primi anni di diffusione del fenomeno MMA, per ritagliarsi un publico di fedeli in un segmento demografico non legato ad altri sport da combattimento.
A questo poi si aggiunse la volontà dei movimenti di estrema destra americana, come ad esempio Hammerskins o il Patriot Front, di dotarsi di uno strumento di protezione personale che fosse anche in grado di promuovere legami di solidarietà tra gli affiliati. Circa un decennio fa, dopo lunghe discussioni online sulla nota piattaforma di estrema destra Stormfront, e l’ovvia esclusione di altre discipine come la boxe (che fu scartata per la sua importanza nel mondo afro-americano), il Krav Maga (che non fu presa in considerazione in quanto arte marziale dello Stato di Israele e associata al popolo ebraico) e le arti asiatiche tradizionali, la scelta ricadde sulle MMA. Tra le ragioni addotte, oltre ovviamente alla fascinazione prodotta da un mondo dominato quasi esclusivamente da atleti bianchi caucasici, troviamo anche la fondamentale retorica della superiorità dell’occidente, espressa tramite l’assunto che le MMA siano la metafora dell’occidente che prende il meglio di ciò che culture inferiori producono e lo migliora scientificamente.
A questo va aggiunto che le palestre di MMA si sono rivelate, per il mondo suprematista americano, un fertile terreno di reclutamento e radicalizzazione. Infine, diversi studi di neuroimmagine funzionale hanno evidenziato preoccupanti somiglianze tra le lesioni riscontrate nei praticanti avanzati di MMA e quelle comunemente trovate nei soggetti che hanno partecipato attivamente in gruppi suprematisti bianchi. L’ipotesi è che queste lesioni siano correlate con l’assuefazione alla violenza e l’incontrollabile ostilità verso chi è fisicamente diverso creando un ponte naturale tra MMA e gruppi di estrema destra.
Oggi la UFC e le altre organizzazioni promotici, ad esempio Bellator, hanno fatto numerosi passi avanti, cercando rendere il mondo degli incontri più vario sotto il profilo razziale, ma ormai purtroppo il danno è fatto e le infiltrazioni sono difficili da eliminare. Basti pensare che sono ancora molti gli appassionati americani che interpretano gli incontri tra lottatori bianchi e afro-americani, come nel caso emblematico delle polemiche seguite all’incontro tra il campione di MMA Conor McGregor e il pugile di colore Floyd Mayweather, come una metafora della guerra razziale a loro dire in atto nel paese. Nei casi più estremi le tensioni si traducono in violenza, come nel caso gli scontri di piazza tra dagestani e di irlandesi seguiti all’incontro tra McGregor e Khabib Nurmagomedov.
Anche in Italia il problema è presente in modo sempre più preoccupante. La mancanza di regolamentazioni in un mondo in continua crescita ha fatto sì che la stessa relazione tra le MMA i gruppi estremisti di destra che si è descritta per l’America si stia saldando anche nel nostro paese. Così come accade in America e nel resto d’Europa, le MMA fanno leva sul panico morale e la percezione di rischio tipici di questo momento storico e raccolgono, statisticamente parlando, individui provenienti dallo stesso segmento demografico cui i gruppi di estrema destra guardano con estremo interesse: giovani di periferia di classe medio bassa, ovvero elementi della classe medio alta insicuri, spaventati, e annoiati alla ricerca di un’attività fisica inconsueta. Inoltre, mancando ancora una chiara struttura di riferimento nazionale, in particolare relativa alla certificazione degli istruttori, e necessitando di minimi investimenti iniziali, è molto facile per movimenti di estrema destra attivare veri e propri corsi di MMA nelle loro sedi.
Nella storia del nostro paese il mondo delle arti marziali e degli sport da combattimento è da sempre gravitato attorno ai partiti di centro-destra, ma senza che ciò abbia mai comportato derive violente o antisociali. Anzi, in tantissimi casi, la destra italiana ha saputo guidare, promuovendo e supportando, il panorama marziale nazionale che ha raggiunto negli ultimi anni diversi importanti traguardi internazionali. Tuttavia, il mondo delle MMA è oggettivamente diverso e spesso i praticanti non sembrano capaci di operare da soli la fondamentale distinzione tra il combattimento nella gabbia, il ring, e quello da strada, risultando alla perenne ricerca di un avversario con cui confrontarsi. Un nemico che spesso viene loro indicato nella figura dell’immigrato dalla retorica elettorale dell’attuale destra. Le responsabilità della destra parlamentare non sono certo dirette, ma i partiti non sono esenti da colpe se ignorano il problema e vengono meno alla loro funzione educativa. Il continuo ricorso alla violenza verbale, l’alzare la barra del livore socialmente accettabile, il continuo corteggiare a fini elettorali certe organizzazioni estremiste e l’assordante silenzio dei leader della destra in casi che vedono coinvolti iscritti o simpatizzanti costituiscono una precisa responsabilità politica.
Concludendo, è ovviamente ingiusto attribuire queste tendenze a tutti i praticanti di MMA italiani, disciplina che oggi coinvolge diverse migliaia di persone che mai si renderebbero complici di azioni così efferate. La stragrande maggioranza dei praticanti di MMA non è sicuramente coinvolta in movimenti xenofobi e violenti, come dimostrano gli appelli di numerosi lottatori ed istruttori a distinguere tra loro e i fratelli Bianchi, ma è comunque una realtà da non sottovalutare. Per questo riteniamo fondamentale che la destra italiana assuma finalmente una posizione univoca che la distanzi dal mondo degli estremisti, rivendicando anche il suo ruolo guida nel mondo delle discipline marziali e sport da combattimento. È dunque necessario procedere speditamente verso la regolamentazione, così come avviene per molte discipline da combattimento, in accordo con i maggiori esponenti del mondo MMA italiano. A questo va poi aggiunto un maggior controllo di un fenomeno che ha aspetti davvero preoccupanti valutando anche l’opportunità di escludere dalla pratica individui con precedenti penali, o prevedere serie aggravanti per quei praticanti esperti che commettono aggressioni gravi, soprattutto se a sfondo razziale.
Gestire l’immigrazione con rigore e umanità è il compito della Buona Destra
Comprendere le paure della gente di fronte alla crescente pressione causata dall’immigrazione non significa assecondarle gettando continuamente benzina sul fuoco. La Destra, con la D maiuscola, non deve lasciarsi tentare dall’uso demagogico che molti ne hanno fatto fino ad ora, trasformando la naturale diffidenza per il diverso e il disorientamento prodotto dai grandi cambiamenti socio-economici globali in bieca propaganda elettorale.
La realtà è che i flussi migratori aumenteranno nei prossimi anni e non si fermeranno né con i blocchi navali né con l’esercito, ma si possono governare già oggi con la buona politica e il rigore. È un compito gravoso a cui la destra ha il dovere morale di dare risposta. La sinistra italiana, con limitate eccezioni, non ha infatti mai saputo conciliare la difesa dell’interesse nazionale ed Europeo con il lodevole carattere umanitario che da sempre la caratterizza. Nei suoi anni al governo, perseguitata da questa storica contrapposizione ideologica, ha prodotto invece una retorica paternalistica che non ha saputo dare risposte concrete né a chi con l’immigrazione doveva convivere sul territorio né agli stessi immigrati, troppo spesso abbandonati a loro stessi. Ciò ha creato una pericolosa polarizzazione tra chi vorrebbe accogliere tutti senza controlli e chi invece vorrebbe semplicemente chiudere le frontiere e non far entrare più nessuno. Ma la tutela dell’interesse nazionale e dei diritti dei migranti non sono contrapposti in un gioco a somma zero.
La ricetta non è semplice e richiede una complessa alchimia, un delicato equilibrio di rigore e umanità che è possibile solo a destra. Prima di tutto è necessario fare un salto di qualità, aumentando gli sforzi in politica estera, oggi al minimo storico. Bisogna lavorare molto per ricostruire i rapporti di fiducia e rispetto reciproco con le altre nazioni europee, potenziare l’attività congiunta della UE, aumentare i rapporti bilaterali con i paesi africani e, cosa molto importante, investire ingenti risorse nella naturale vocazione dell’Italia ad essere un power player nel mare nostrum, contrastando fattori di pull-out migratorio come la penetrazione economica Cinese nel Mediterraneo, oltre che i sempre più frequenti slanci egemonici turchi.
Per raggiungere lo scopo serve cambiare postura internazionale, adottando posizioni anche aggressive, e abbandonare una volta per tutte la paura di essere e apparire internazionalmente forti e risoluti. Bisogna iniziare a proiettare forza e deterrenza, pur privilegiando soluzioni negoziali diplomatiche nel rispetto della nostra Costituzione, impiegando quando serve e in modo deciso del nostro strumento militare al fine tutelare i nostri interessi e quelli europei.
Sul fronte della politica interna, è necessario invertire drasticamente la rotta fin qui tracciata nella gestione dell’arrivo e dell’accoglienza dei migranti. Lo Stato deve riconquistare il suo ruolo guida, razionalizzare il sistema dei centri di accoglienza e lasciare al volontariato compiti di supporto, come ad esempio il salvataggio in mare o i necessari servizi di alla persona. L’integrazione va infatti perseguita con il rigore che solo lo Stato può avere e non lasciata alla libera iniziativa individuale. Istituire percorsi chiari ed accessibili per l’immigrazione regolare e l’acquisto della cittadinanza è un passo che va nella giusta direzione, ma solo se accompagnato da un controllo stretto e da pene severe per chi viola le regole.
Ad esempio, l’acquisizione di competenze linguistiche e culturali va resa obbligatoria, pena la mancata concessione del permesso di soggiorno, ed economicamente accessibile. Va scoraggiato il formarsi di enclaves e il fenomeno dell’autosegregazione, che è tipico di un’immigrazione abbandonata a se stessa e che culmina con la costituzione di ghetti nei quali prolifera il degrado. Va infine contrastata la criminalità che trae vantaggio proprio dal degrado e dall’attuale situazione di disorganizzazione. Solo così sarà possibile dare risposte concrete alle paure della gente e gestire i fenomeni migratori in modo ottimale, senza venire meno alla vocazione dell’Italia di faro umanitario.
–> Leggi il manifesto politico della Buona Destra
Discussioni tra Oriente e Occidente: manca un centro di gravità permanente, un punto di equilibrio razionale
Che la società islamica sia una società maschilista di stampo patriarcale in cui la violenza morale (e anche fisica) specie sulle donne predomina ed è pure, in alcuni casi, legalizzata, non è una bestialità, ma una realtà percepibile. Percepibile in un mondo ove un principio religioso diviene principio di diritto che, pur sacralizzato nel Corano, fonda la società islamica nella completa sottomissione della donna all’uomo in nome di un credo religioso elevato a regola di diritto, che per quella tipologia culturale diviene giustizia assoluta.
Esistono casi di poligamia e di totale asservimento delle donne agli uomini, ove la sottomissione viene oggettivizzata, quasi un diritto di proprietà dell’uomo sulla donna e sulla famiglia da parte del paterfamilias, attraverso accentuazioni più o meno profonde da Stato a Stato in relazione al livello di fondamentalismo religioso. Dall’altro lato, la società occidentale è fondata sulla parità assoluta, nel rispetto della libertà della donna.
La nostra analisi occidentale è ovvia, non si sta ad analizzare cosa sua più o meno giusto, quale modello. Non è lo scopo di questo lavoro, sarebbe troppo ovvio. Tuttavia, non bisogna tanto sforzarsi di trovare un giusto equilibrio, che non si potrebbe mai ricercare, né trovare se non utopisticamente, poiché sarebbe impossibile oltre che inammissibile solo pensare di trovare una soluzione di compromesso dei due mondi non solo diversi, ma totalmente opposti. Si tratta di due posizioni diametralmente antistanti, impossibili da assimilare in un solo punto di incontro. Due culture che si scontrano.
Ciò premesso, posto che la libertà è un bene insopprimibile per tutti, sarebbe necessario per chi ha in mente una idea non vaga di libertà, dare la giusta importanza ai veri valori fondanti della società, in particolare alla famiglia, valorizzando il giusto ruolo sia dell’uomo che della donna, che non è limitato solamente all’ essere uomini, donne oppure omosessuali o eterosessuali, ma l’essere genitori anche in una famiglia di fatto.
Meno di una settimana fa un giovane, in provincia di Messina, ha ucciso il padre con 23 coltellate. Si trattava, a quanto pare, di un giovane con problemi mentali e turbe della psiche, un fenomeno sempre più frequente in questa era moderna, quasi a segnare il termometro del disagio giovanile. Tuttavia le violenze domestiche appaiono sempre più frequenti anche in situazioni pisichiche apparentemente normali, e nei contesti sociali più svariati. Infanticidi in famiglia o femminicidi, sono sempre più frequenti nel mondo occidentale, nonostante l’apparente libertà di facciata. È venuto a crollare l’elemento del rispetto dell’altro.
Un fatto del genere difficilmente accadrebbe in altri contesti. Non si tratta di valutare, quindi, solo le libertà individuali della persona, sia essa uomo o donna, ma l’essenza del gruppo donna o uomo, a prescindere, che uomini e donne lavorino per risolvere i problemi della famiglia, le cui soluzioni non sono legate solo al danaro, almeno non dovrebbero essere legate al corrispettivo del lavoro come strumento sinallagmatico del benessere, ma anche con l’essenza , la qualità del dialogo educativo nel rapporto con i figli. Invero, soventemente, le moderne società occidentali dimenticano che vi è un lavoro molto più importante che viene retribuito dall’ essenza dell’amore vicendevole e che spesso si trascura al fine di produrre il Dio danaro: si tratta del ruolo di genitore. I figli, non sono un momento di relax, non rappresentano il tempo libero ove, fare le mamme o i papà, sia un gioco, poiché assillati dalla voglia di produrre danaro e si riduca nel ruolo puramente consumistico di produttori e consumatori ( si lavora dedicando il tempo per produrre danaro che serve ad apparire anche per i figli).
Non bisogna zittire i lamenti dei figli con il danaro, un motorino o uno smartphone. Bisogna creare con i figli la giusta empatia. Quanti dialoghi a tavola tra genitori e figli ha riaperto lo smart working? Bisogna essere padri spirituali e confessori dei propri figli. È un ruolo difficile, ma indispensabile per regalare loro l’essenza dell’esistere. Che se ne farebbero del danaro se fossero scapestrati o peggio, delinquenti e inumani? Fare le mamme o i papà è una responsabilità sociale, oltre che familiare. I nostri figli saranno la società del domani, rappresenteranno ciò che hanno appreso in età evolutiva e non bisogna lasciarli soli in balia di loro stessi, dello smartphone o del branco. Non bisogna sperare nella buona sorte, ma parlare con loro, ascoltarli, seguirli, capirli, assolverli in un dialogo costruttivo. I figli in età adolescenziale hanno bisogno di veri punti di riferimento, come i nostri genitori con noi e i nostri nonni con loro, in quella società meno consumistica, di qualche quarantennio fa, che era basata sulla semplicità dei rapporti umani, in cui non esisteva lo smartphone, ma il telefono a gettoni e al massimo la TV serale che riuniva le famiglie davanti allo schermo. Il vero decadentismo della società è nato dalla crisi dei valori contestualizzati in un modello di consumismo sfrenato, cui ha fatto seguito la crisi della istituzione di base, fondata sul dialogo, di ogni società: la famiglia!
Annientata proprio dalla bramosia lussuriosa, di questo modello distruttivo. In verità, non è la condizione della donna occidentale o orientale l’aspetto più problematico della società moderna, non i rapporti uomo/donna secondo una scala di valori gerarchica o paritaria, tipici di una società maschilista o femminista, ma la disgregazione dei valori sociali che ha lasciato spazio alla società dei consumi a discapito della genitorialità e del ruolo di procreatori. L’essenza genitoriale è stata sostituita dal consumismo sfrenato per creare un modello diseducativo , basato su una vera e propria assenza di ruoli che fa comodo ( spesso, quando si torna dal lavoro, stanchi e stressati, meglio dare uno smartphone in mano ai bambini, anziché sforzare ancora la mente e stare a chiaccherare con loro).
Dall’altro lato del globo, nelle società musulmane, l’eccessivo rigore della condizione di vita cui è sottoposta la donna, perno del rapporto con i figli, crea una società rigida, una famiglia creata non dalla libertà di amore (o di amare) ma dalle limitazioni di essa e dalla presenza educatrice del ruolo preponderante della madre. I matrimoni voluti dal padre, che decide anche chi deve essere il marito della propria figlia, costretta ad amare l’uomo prescelto dal padre (o a fingere di amarlo), in cui il rispetto del ruolo dell’uomo è prevaricazione e sottomissione della donna ed in cui la famiglia esiste solo se vi è il deus per eccellenza, quel pater familias che può persino decidere la vita e la morte dei suoi familiari, condannarli a morte o autorizzarne l’esecuzione in determinate circostanze, emblematiche, come il caso di Sakineh (pensate ad un padre che può autorizzare l’uccisione della propria figlia perchè adultera, una vera mostruosità in occidente).
Bene, ecco il divario di due mondi, un muro insormontabile, indistruttibile, irremovibile. Oriente e occidente due mondi che si tollerano ma che difficilmente potranno convivere se non si abbatte il muro dell’intolleranza, se non venga accettato un confine di “contaminazione ” in cui bene e male sono punti di vista da riequilibrare per il bene dell’umanità e non sono demarcati da una linea netta. È necessario ripensare affinché non accada mai più un caso come quello dell’infanticidio di Rosolini o il parricidio di Messina, né che accada un nuovo Sakineh. Nessun sovranista penserà mai che in un mondo glibale niente è più giusto della libertà. Un mondo ove non importi essere musulmani, cristiani, buddisti o scintoisti, ma in cui si possa essere imprenditori, professionisti, operai o artigiani, pur essendo musulmani, cristiani o altro, senza paura, ma secondo il rispetto della libertà, secondo quel valore assoluto del “lasseiz faire”, che non è semplicemente tollerare, ma rispettare il diverso.
La vuota propaganda dei populisti alla Giorgia Meloni
L’ennesimo esempio di vuota propaganda populista: “perché l’esercito consegna i banchi con tanti percettori reddito di cittadinanza?” si domanda Giorgia Meloni, aggiungendo che i nostri militari potrebbero, e dovrebbero, essere invece impiegati per il contrasto all’immigrazione e per garantire la sicurezza delle nostre città. A prima vista può anche sembrare un’idea sensata e ragionevole, ma a una più attenta disamina si tratta, ancora una volta, di una proposta demagogica e dalla scarsa fattibilità.
La ragione principale, vale la pena ricordarlo, consiste nel fatto che nessuno Stato democratico può disporre arbitrariamente dei suoi cittadini. Ciò è vero anche per coloro che percepiscono una forma di assistenza sociale, a meno che non sia una delle clausole previste per l’erogazione del beneficio. I percettori del reddito di cittadinanza, indipendentemente dal giudizio che dal nostro punto di vista è negativo su una misura così fortemente assistenzialista e clientelare, non sono né impiegati dello Stato né carcerati ai lavori forzati. Non si può semplicemente chiamarli al telefono e ordinare loro di consegnare i banchi alle scuole! Anche qualora fosse chiesto loro di effettuare le consegne, e a patto che accettino, essi pretenderebbero, giustamente, un corrispettivo in denaro che comporterebbe un aggravio sul bilancio dello Stato.
Anche ammettendo che ciò sia fattibile, e nei tempi necessari, è necessario considerare almeno altri due fattori che risulterebbero in costi non certo trascurabili. Il primo fattore è la necessaria selezione degli individui idonei per trasportare e distribuire i banchi scolastici, attività che implica un certo impegno fisico. Non tutti i percettori di reddito di cittadinanza sono infatti perfettamente abili e in smagliante forma fisica come sembra sottintendere Giorgia Meloni, né tanto meno abbondano in tutte le province italiane. Secondo poi, tralasciando la non triviale questione della formazione che come minimo dovrebbe includere le procedure di sicurezza sanitaria, andrebbero valutati tutti i fattori di rischio connessi alla consegna dei banchi cui queste persone verrebbero ad essere esposte. Ad esempio: Di chi è la responsabilità se un banco si rompe? Di chi è la responsabilità se un soggetto subisce un infortunio? O se si ammala di COVID-19? Sarebbe necessario, come minimo, garantire una copertura assicurativa per gli eventuali infortuni, che comunque non escluderebbe completamente la possibilità di costose cause civili.
Insomma, al di là della spavalderia che si vende bene su Internet, soprattutto se la si lega ancora una volta e senza alcuna logica se non quella elettorale al tema dei confini e della sicurezza, la soluzione realistica è quella oggi adottata e cioè quando è necessario, usare i militari. Il loro impiego non necessita infatti di alcuna selezione e non comporta un radicale aumento dei costi. Infine, siamo sicuri che i nostri soldati siano ben contenti di servire la comunità aiutando le scuole a riaprire in sicurezza.
Tra casalinghe da copertina e disagi reali: una fotografia dell’America di Trump
Un’estate atipica, durante un anno che si sta svolgendo in maniera altrettanto atipica, ha stravolto in ogni angolo del mondo ritmi e riti talmente consolidati da sembrare immutabili: a questo proposito non fanno eccezione gli Stati Uniti d’America nella calda stagione che precede le elezioni Presidenziali di Novembre, dedicata tradizionalmente alle roboanti convention dei due grandi partiti destinati a contendersi la Casa Bianca.
Le adunate a base di folle oceaniche e festanti, palloncini colorati, sventolanti bandiere a stelle e strisce, inni patriottici e fragorose acclamazioni per i candidati alla Presidenza da parte dei rispettivi sostenitori hanno inevitabilmente lasciato spazio a più sobrie manifestazioni caratterizzate dai collegamenti da casa, come nel caso di Biden, o dalla Casa (Bianca) per Trump, con l’attenzione mediatica che si sarebbe dunque potuta e dovuta concentrare maggiormente sui temi concreti e meno sul contorno coreografico dei due concomitanti eventi, ma ciò non è avvenuto. In particolare per quanto riguarda Donald Trump – oggetto di un quotidiano, incessante bombardamento ad opera della stampa mondiale sin dal giorno in cui, quattro anni fa, diventò ufficialmente il candidato alla Presidenza del Partito Repubblicano – ancora una volta ci si è focalizzati sui gossip personali, veri o presunti che siano, sul suo ciuffo e sul look rivedibile, sui toni accesi, sulle gaffes e sui modi poco diplomatici che contraddistinguono il vulcanico tycoon.
Quasi nessuno ha per esempio rilevato il fatto che Trump abbia dato voce durante la sua presentazione ad un’autentica casalinga americana e non ad una famosa attrice come Eva Longoria, protagonista della convention di Biden, che il ruolo della donna di casa l’ha interpretato solo per una serie televisiva di enorme successo. Questo particolare apparentemente secondario fotografa in uno scatto l’America attuale: Trump, pur essendo un magnate, parla alla pancia del suo Paese come nessun altro negli ultimi anni era stato capace di fare ed è l’emblema di un malessere profondo serpeggiante nella comunità statunitense che non può essere liquidato come un banale esempio di ignoranza e populismo.
È interessante rilevare che, con la sua forte personalità totalmente fuori dagli schemi, l’attuale inquilino della Casa Bianca abbia decisamente spostato l’orizzonte del Partito Repubblicano verso gli strati più umili della società, mentre i Democratici sono diventati ormai il vero punto di riferimento per le élites culturali ed economiche, il che è certificato dall’inesorabile isolamento del radicale Bernie Sanders.
Solo a gennaio, secondo i principali osservatori il presidente uscente sarebbe stato rieletto con certezza, soprattutto in virtù di due punti cardine: il rispetto di tutte le più importanti promesse fatte durante la campagna elettorale, con un protezionismo assoluto nei confronti delle aziende nazionali e una politica internazionale caratterizzata dal non aver aperto nessun nuovo conflitto, al netto dei pittoreschi scontri verbali con la Corea, la Cina e la Russia, ma soprattutto l’avvio di una decisa ripresa dell’economia americana dopo anni di difficoltà e recessione.
Ovviamente l’arrivo inaspettato del Covid ha scombussolato lo scenario globale, facendo vacillare certezze che parevano granitiche ben oltre i pur ampi confini degli Stati Uniti. Il malvezzo di reiterare una campagna di diffamazione mediatica nei confronti dell’attuale amministrazione americana, che anche in Italia trova numerosi ed autorevoli esempi, non conosce invece tregua e assume gradualmente i contorni di una pretestuosa caccia alle streghe, come quando si abbinano le immagini drammatiche dei recenti episodi con protagonista la polizia nel Wisconsin e a Minneapolis a quelle della Casa Bianca: le forze dell’ordine statunitensi usano da tempo il pugno di ferro indistintamente nei confronti di tutti, bianchi e neri, e la colpa in tal senso non è oggi di Trump come non lo era prima di Obama, ma semmai va ricercata nel grave disagio di un Paese in cui la violenza è diventata un tratto distintivo della sua stessa società.
Sempre a questo proposito, va tenuto a mente che una fetta di responsabilità per la repentina diffusione del Corona virus in alcune parti dell’America nei mesi scorsi è da ricercarsi in quegli Stati a maggioranza Democratica che autorizzarono le numerose manifestazioni di piazza a seguito della tragica scomparsa di George Floyd, totalmente comprensibili e condivisibili nel merito ma altrettanto inopportune per il conseguente rischio di assembramenti.
C’è da chiedersi a cosa possa portare stigmatizzare i comportamenti e ingigantire le stravaganze di Trump da parte di una così corposa maggioranza di mezzi di comunicazione internazionali piuttosto che concentrarsi, anche con atteggiamento critico, su aspetti più consistenti. Essendo maliziosi, si potrebbe forse pensare che alla base di questa strategia vi sia una malcelata forma di invidia sociale nei confronti di figure non appartenenti all’establishment capaci di raggiungere vette altissime potendo contare soprattutto sulle proprie forze, carismatiche o economiche che siano.
Trump è un personaggio molto diverso, ma va ricordato che negli anni ’80 due totali outsider furono i protagonisti di un radicale cambiamento che investì gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il corso della storia globale dopo essere stati accolti dai soloni di turno con sarcasmo e diffidenza, nel vano tentativo di ridicolizzare l’ex attore di Hollywood e la brava donna di casa proveniente dalla campagna inglese: sappiamo bene come andò a finire per il mondo occidentale grazie alla guida illuminata di Ronald Reagan e Margaret Thatcher.
Politica estera, la sconcertante superficialità di governo e opposizione
Governo ed opposizione condividono una preoccupante indifferenza verso il ruolo internazionale dell’Italia abbinata ad una sconcertante superficialità in materia di politica estera e relazioni internazionali.
L’opposizione, oggi guidata da Meloni e Salvini, è palesemente fuori dal tempo. Essa è infatti succube di una banale retorica ottocentesca fatta di sfiducia a priori per la comunità internazionale e arroganza diplomatica da operetta, infarcita di complottismo, improbabili blocchi navali, dazi e chiusura dei confini. Per questo motivo l’attuale destra non riesce nè riuscirà in tempi brevi a dotarsi di un’agenda di politica estera che sia credibile e non si limiti all’isolazionismo, all’infantilismo delle piccole patrie, o peggio ancora all’improbabile idea di un’allenza internazionale tra sovranisti (cosa che è un vero e proprio ossimoro).
Il Governo d’altra parte, e in particolare il ministro Di Maio che e’ titolare della Farnesina, sembra invece preda di un inscusabile dilettantismo. Un misto di improvvisazione e indolenza che si concretizza, ad esempio, nella completa rinuncia alle aspirazioni di centralita’ dell’Italia nel Mediterraneo. Un vuoto che viene ovviamente occupato da altri paesi. A ben vedere, la stessa nomina di Di Maio era di per sè indicativa di un completo disinteresse per la politica estera e le relazioni internazionali, e si poteva solo sperare che l’esponente 5 stelle smentisse le piu’ meste aspettative che sembra invece oggi confermare. Gradita eccezione all’attuale politica estera, o assenza della stessa, va detto essere la costante attivita’ di supporto alla cooperazione internazionale promossa dall’ottimo Vice Ministro Emanuela Del Re. Una goccia nel mare che pero’ fa riflettere su come l’On. Del Re avrebbe probabilmente costituito una scelta migliore rispetto all’attuale titolare.
Al di là del giudizio sulle capacità del Ministro Di Maio, l’impressione condivisa da molti osservatori e’ che la Farnesina si sia volutamente smarcata dagli interessi geopolitici tradizionali del nostro Paese, ad esempio nel settore dell’energia o dell’immigrazione, cosi’ come e’ palese che abbia abdicato alle sue responsabilità, politiche e militari, in quello che per secoli abbiamo considerato come il Mare Nostrum. Al contrario, con un cambio di fronte assolutamente immotivato, tutte le attenzioni sono oggi sbilanciate sul fronte della Cina. Con il paese asiatico, che e’ diventato una vera e propria ossessione del Governo, si sono recentemente conclusi accordi commerciali presentati a parole come estremamente importanti. Sui contenuti di questi accordi, che sembrerebbero includere anche la tecnologia G5 sulla quale la comunita’ internazionale e lo stesso COPASIR hanno espresso dubbi relativi alla sicurezza nazionale, non possiamo pero’ esprimerci data la completa mancanza di informazioni che ha caratterizzato le trattative, nonostante la tanto decantata trasparenza del Movimento 5 Stelle.
E’ bene notare, qualora Di Maio gia’ non lo sapesse, quali sono i rischi di una tale operazione. La Cina ha da sempre sfruttato gli accordi commerciali come Cavalli di Troia politici, finendo per imporre ai partner il proprio interesse nazionale e non esitando nemmeno, qualora lo ritenga utile, a frapporsi tra essi e i loro alleati. Valga tra tutti l’esempio della recente politica neocoloniale cinese nell’Africa Subsahariana dove, applicando egregiamente la strategia del divide et impera, la Cina è riuscita ad indebolire la cooperazione tra Stati africani e la stessa Unione Africana, finendo per diventare l’unico riferimento commerciale, ed in futuro diplomatico, di importanti paesi come il Kenya ormai ridotti a stati satellite.
E’ palese peraltro che la Cina veda nell’Italia, unico paese dei G7 disposto anche ad aderire al progetto della Belt and Road Initiative, l’anello debole dell’Occidente. D’altra parte e’ chiaro che l’Italia ha entusiasticamente raccolto l’invito cinese con un misto di arroganza e ingenuita’, nell’illusione di diventarne il partner europeo privilegiato al fine, forse, di fare l’ennesimo dispettuccio alla Germania, alla Francia, o un’Unione Europea sempre piu’ frustrata dal comportamente infantile della sua terza potenza. Certo anche i nostri partner non sono esenti dalla colpa di privilegiare l’interesse nazionale a quello europeo, ma sembra alquanto improbabile sostenere, ad esempio, che la Francia agisca contro l’interesse dell’Italia dal momento che dopotutto non si capisce bene quale sia realmente questo interesse. C’e’ poi da chiedersi fino a che punto la UE sara’ disposta a tollerare la nostra totale inazione, che si traduce inevitabilmente in una sequela di azioni senza strategia alcuna e per di piu’ in palese contrasto con gli interessi del continente.
Se a prima vista si puo’ dunque concordare sull’opportunita’ di impostare buone relazioni commerciali e tecnologiche con il gigante asiatico, e’ necessario ricordare che l’agenda politica di un paese che ambisce a mantenere la propria posizione di 5° potenza mondiale non possa essere a senso unico o focalizzata unicamente su un paese o area geografica. Ben venga quindi la Cina, se proprio non vogliamo agire di concerto con i nostri tradizionali partner occidentali, a patto che gli accordi non si traducano poi in una situazione di vassallaggio o si contrappongano al progetto e agli interessi dell’integrazione europea. Ma l’amicizia con la Cina non basta a fare dell’Italia una potenza internazionale. Bisogna fare di piu’, e meglio, in altre aree, cominciando da quelle piu’ vicine geograficamente.
Qui pero’ purtroppo i segnali sono tutto fuorche’ incoraggianti. Il completo abbandono del dossier libico, culminato con la concessione per 99 anni del porto di Misurata alla Turchia e l’estromissione di fatto dell’Italia da qualunque futura trattativa per la stabilita’ del paese, l’ignorare sistematicamente l’emergere del gigante turco come futuro attore egemonico nell’area mediorientale e nordafricana, la mancata assunzione di una posizione nell’attuale disputa con la Grecia, il silenzio assordante sulla repressione cinese di Hong Kong, l’assenza di una chiara presa di posizione sulle recenti elezioni bielorusse, le gaffes sul Libano, sono la punta di un imbarazzante iceberg di marginalita’ diplomatica che in futuro sara’ forse impossibile correggere, anche avendone la volonta’. E che dire della completa assenza dell’Italia nell’ambito delle relazioni atlantiche, salvo fatto (forse) il ridicolo supporto dimostrato negli anni dai sovranisti nostrani per figure discutibili come Donald Trump o la vicinanza a corrente alternata con la Russia di Putin? Un’ambiguita’, quest’ultima, che rischia di metterci in seria difficolta’ nelle future relazioni con l’America qualunque sia il risultato delle prossime elezioni presidenziali. Siamo sempre di piu’ visti come un paese inaffidabile, imprevedibile piuttosto che ininfluente, che non vale la pena di coinvolgere in nessuna vertenza internazionale, dall’Iran, alla Libia, alla Corea del Nord, alla crisi tra Turchia e Grecia.
Certamente l’Italia dimostrava debolezza e ristrettezza di vedute anche prima dell’avvento dell’attuale maggioranza. Si tratta di una condizione in parte dovuta alla perdita di ruolo strategico negli equilibri mondiali alla fine della Guerra Fredda quando l’Italia, per mancanza di volonta’ politica, risorse economiche e eccesso di corruzione, non ha saputo reinventarsi come potenza europea al pari di Germania e Francia. Il nostro ruolo in Africa, ad esempio, non e’ mai stato ne’ incisivo ne’ forse troppo convinto laddove, come da tradizione, non riusciamo a decidere da quale parte stare ed esitiamo anche ad usare lo strumento militare (che ricordiamo essere tra i migliori del continente per capacita’ operative) al pari degli altri paesi occidentali. Inoltre la nostra rete diplomatica e’ sotto finanziata e ormai scarsamente centrale nelle dispute internazionali.
Per correggere la rotta intrapresa e’ necessario definire una strategia complessiva che miri a sfruttare pienamente le potenzialita’ dell’Italia con decisioni chiare e investimenti mirati. E’ in primo luogo necessario un riallineamento con le posizioni dei partner europei e nordamericani nell’ambito delle relazioni con le potenze Cinesi, Russe e Turche. Inoltre e’ fondamentale proiettarsi nuovamente, questa volta con convizione e non solo per fare dispetto ad altri, verso il Mediterraneo, l’Europa orientale e il medio-oriente. Terzo va ridata all’Italia una visibilita’ nelle relazioni internazionali tramite, per esempio, il coinvolgimento delle nostre comunita’ all’estero, creando una rete di civil diplomacy che supporti l’attivita’, potenziata, delle rappresentanze diplomatiche ufficiali. Queste ultime potrebbero poi impegnarsi a creare le condizioni per supportare l’attività economica italiana ed europea all’estero, intendendola come lo strumento principale nella costruzione di relazioni stabili di amicizia e supporto tra paesi nel mercato globale, invece che limitarsi a fornire servizi anagrafici e qualche sparuta iniziativa culturale. Sarebbe inoltre necessario, finalmente, sottrarre dalla logica partitica le nomine dei rappresentanti italiani nelle organizzazioni internazionali, per resituire loro il ruolo di rappresentanti superpartes di interessi nazionali ed europei. Infine, impegnarsi per ricomporre la frattura fra esteri e difesa, integrando lo strumento militare nel quadro dell’attivita’ diplomatica e dell’azione di convergenza dello strumento di difesa della UE.
Si tratta di piccoli primi passi nella giusta direzione, ma pare che sia la maggioranza che l’opposizione si muovano nella direzione opposta, ovvero quella di contribuire deliberatamente all’isolamento del nostro paese al fine di consolidare i loro rispettivi serbatoi elettorali.
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Dieci anni senza Cossiga, un presidente tanto grande da diventare unico
Parlare e scrivere di Francesco Cossiga è un esercizio estremamente impegnativo, a maggior ragione in occasione di una triste e significativa ricorrenza quale il decennale della sua scomparsa. Ci sono molte penne ben più autorevoli e autorizzate della mia capaci di ricordare degnamente il Presidente emerito, partendo dal fatto che per motivi anagrafici non ho potuto vivere direttamente il lungo e considerevole periodo in cui Cossiga fu assoluto protagonista della scena politica e istituzionale italiana, europea e mondiale: ciò rappresenta per me un motivo di sincero rammarico, guardando con rimpianto a un’epoca storica in cui il livello culturale della nostra classe dirigente tendeva trasversalmente e decisamente verso l’alto, al contrario del desolante panorama che ci regala la stretta attualità.
In cosa Cossiga è stato talmente grande da diventare unico? Proverò a rispondere a tale quesito ripercorrendo il filo che lega il mio stretto rapporto ad alcune persone che a lui furono molto vicine, in un vincolo ben più forte e saldo anche di quelli familiari, e che mi onoro di avere come maestri e punti di riferimento: Piero Testoni, Paolo Naccarato, Angelo Sanza e Gianni Garrucciu.
Da loro mi è stata tramandata una filosofia di politica e di vita imparata alla formidabile scuola Cossighiana di cui ho fatto tesoro, basata su alcuni punti cardine che oggi appaiono quanto mai attuali e che credo andrebbero recuperati per guardare al futuro con una prospettiva di più ampio respiro, rispetto a quel deleterio istinto di sopravvivenza privo di orizzonti che caratterizza troppi tra gli attuali protagonisti dello scenario politico globale.
La straordinaria lungimiranza, la capacità di prevedere i grandi cambiamenti prima che accadessero, l’assoluta libertà intellettuale di esternare sempre il proprio pensiero nella costante e totale coerenza con i suoi ideali rappresentano i tratti distintivi di una personalità fortissima, spesso scambiata dalle menti convenzionali come quella di un folle. Ebbene sì, Cossiga è stato anche un folle: la sua era però una lucida e lungimirante follia ispiratrice, nel solco dell’Umanesimo cristiano di Erasmo da Rotterdam.
Non fu infatti casuale la consuetudine di rapporti del Presidente con Papi e Cardinali, paragonabile a quella che ebbe con i principali statisti mondiali, Reagan e Thatcher in testa, a testimonianza della sensibilità Cossighiana nei confronti dei profondi mutamenti nel mondo occidentale, rappresentata ad esempio dalla rivoluzione liberale e liberista guidata dalla Lady di ferro, a cui fu legatissimo da stima, considerazione e amicizia reciproche. Da questo punto di vista, il rilievo internazionale che seppe ritagliarsi oscurò i suoi predecessori e successori al Quirinale, spesso presunti prigionieri di briglie istituzionali che non sempre furono utilizzate all’insegna di quel supremo interesse nazionale che rappresentò invece la vera stella polare del patriota Cossiga.
Piero Testoni, che di Cossiga è stato l’unico biografo autorizzato e il nipote che sapeva scrivere, ricorda spesso due concetti fondamentali che caratterizzarono la vita del Presidente emerito: la politica, oltre che una passione, è una malattia e una volta presa non è possibile farla passare. Quello politico è un impegno per cui si deve essere pronti a fare delle dolorose rinunce, in una forma di carità che non può essere scissa da una profonda fede laica nei confronti delle istituzioni e dello Stato.
Forse immodestamente mi piace pensare che l’eredità del pensiero Cossighiano con la sua disarmante modernità (basti pensare alle considerazioni sulle criticità della magistratura italiana, da Di Pietro a Palamara, fatte in tempi lontani ma ancora attualissime) passi anche per quel filo che attraverso Piero Testoni, che per me è una sorta di fratello maggiore, porta a rievocarne la grandezza anche chi non ha potuto vivere in diretta la ultratrentennale, formidabile epopea che vide Cossiga al centro della scena, ben oltre i confini nazionali. Credo che di questo, in una giornata dolorosa come quella odierna, il Presidente emerito da lassù sarà soddisfatto. O almeno lo spero sinceramente.
APPROFONDIMENTO PUNTO TRE – La Buona destra è contro il partito unico della spesa
Il Manifesto della Buona Destra al punto tre individua una delle ragioni per le quali la nuova formazione politica si pone in alternativa al sistema partitico italiano, che da anni è totalmente omologato nel “Pensiero Unico della Spesa” e, conseguentemente, ha determinato la sparizione di ogni differenza ideale e progettuale fra tutti i partiti italiani, che infatti costituiscono il “Partito Unico della Spesa”.
Tale scellerata involuzione della politica Italiana, nata alla fine degli anni ’70 del secolo scorso, nella fase iniziale di decadenza della Prima Repubblica, ha debilitato la capacità di analisi e proposta di tutti i partiti che, non a caso, non presentano più alcuna differenza propositiva e progettuale, sono del tutto privi di linee di indirizzo e di visione sistemica, e presentano la comune imbarazzante condivisione delle medesime scelte e della stessa liturgia, consistenti nell’inseguire, a parole e con promesse non mantenibili, i desideri dei cittadini, come in una gigantesca e ininterrotta campagna pubblicitaria, il cui unico fine non è il bene comune e la visione futura del Paese, ma soltanto la disperata e sterile caccia al voto, che è rimasto l’unico obiettivo della classe politica di maggioranza e di opposizione.
I partiti, da anni trasformati in semplici e sterili comitati elettorali, non hanno più alcuna progettualità, ma sfornano unicamente elenchi interminabili di ipotesi distributive di prebende, contributi, sussidi, sconti fiscali e qualsivoglia ulteriore incentivo sempre più mirato a soddisfare a parole ogni possibile categoria sociale, per arruolarla nell’allegra compagnia del Paese dei Campanelli, senza mai collegare le spese delle promesse alla acquisizione delle risorse necessarie per realizzarle.
Basta leggere tutti i programmi elettorali di qualsiasi partito di Destra, di Centro e di Sinistra per vedere confermata questa tragica verità e cioè quella di una politica senza uno straccio di progetto e di idea su come governare il Paese, sostenerlo nella lotta per la competitività in un mondo globalizzato e spietato, su come attrarre investimenti esteri e canalizzare quelli interni, costruire e manutenere le infrastrutture, lottare per un diverso e più stabile assetto delle istituzioni Europee, proteggere gli interessi nazionali dalla vorace invadenza dei tre imperi mondiali e così via, ma al contrario solo elenchi di promesse da finanziare con l’aumento del Debito Pubblico.
Una logica incosciente, che ha determinato il progressivo indebitamento dello Stato al solo scopo di sostenere i partiti nella caccia ai consensi, e che ci ha impoveriti e indeboliti, ma soprattutto ci ha reso incapaci di capire cosa fare per invertire la tendenza al declino.
A conferma che i partiti in questa decadenza del ruolo della politica sono tutti uguali, basti ricordare le strategie adottate ad esempio da Matteo Renzi nel corso del suo governo, costellato da liti continue con gli altri leader Europei per ottenere maggiore “flessibilità” che altro non era che l’autorizzazione a contrarre qualche 0,… in più di maggior debito pubblico, da utilizzare a scopi elettorali come i famosi 80 € al mese a ciascun lavoratore dipendente, che non incisero neanche in termini di aumento significativo dei consumi, ma che concorsero ad aggravare il debito senza nessun miglioramento strutturale del sistema economico.
O i programmi della Destra a partire da quota 100 che, in controtendenza alla legge Fornero e a tutti i Paesi europei, e solo per alcune centinaia di migliaia di lavoratori dipendenti, ha consentito l’anticipo della pensione, pagando questa regalia demagogica con miliardi di euro di costi in più a regime e con il conseguente peggioramento del debito, invece di concentrare ogni sforzo su altri aspetti strategici per il rilancio dell’economia, come la riduzione della pressione tributaria e contributiva, che pure faceva parte del programma elettorale. Oppure le derive demagogiche del M5S, come il diseducativo reddito di cittadinanza, che non ha vinto affatto la povertà, ma in compenso ha contribuito all’esponenziale aumento del debito pubblico, senza neanche assicurare nessuna garanzia per la sua sostenibilità in futuro.
Ma ancora ci sarebbe da ricordare le dentiere gratuite a tutti gli anziani di Berlusconi, le promesse altrettanto demagogiche su più fronti avanzate da FdI, e in generale di qualsiasi altro partito, sempre da finanziare con il debito, che sono la rappresentazione di una politica che emula gli imbonitori da fiera, e propone un inesistente e truffaldino futuro di benessere assistenzialistico, senza alcuna reale possibilità di effettiva realizzazione, ma il cui più devastante effetto è l’assenza di qualsiasi prospettiva per i giovani, che si vedono letteralmente rubare il futuro.
La Buona Destra invece ritiene che la politica non deve avere solo funzioni di distribuzione di risorse e promozione di sistemi assistenziali, specie se capziosamente finalizzati a orientare i consensi elettorali, ravvisando in tal senso perfino una pratica illegale di vero e proprio “voto di scambio”, ma al contrario la vera missione della politica è di sapere assumere decisioni per favorire gli investimenti, la creazione di nuovi posti di lavoro, la competitività del sistema economico nei mercati internazionali e sostenere il progresso e il benessere del Paese, e utilizzare la ricchezza creata per sostenere stabilmente le fasce più deboli della società, in una serie di attività di assistenza che non devono lasciare nessuno indietro, ma certamente non ricorrendo al pernicioso metodo dell’indebitamento, che indebolisce sempre di più il Paese, ed è la principale causa del declino economico e sociale e del costante impoverimento sia di risorse umane, che finanziarie e conseguentemente delle capacità competitive del sistema stesso nel tempo.
L’Italia si è da anni ripiegata sempre di più in se stessa ed ha perso la capacità di creare ricchezza pubblica, a discapito delle strategie che solo il pubblico può garantire, totalizzando da decenni una media di produzione del PIL dell’1% l’anno, e ponendosi come fanalino di coda di tutti i Paesi più avanzati, perché il “Partito Unico della Spesa” non solo non ha mai avuto alcuna soluzione da offrire al riguardo, ma soprattutto perché ne ha la piena e indiscutibilmente responsabilità storica e attuale.
Per le stesse ragioni il governo e l’opposizione si sono chiaramente dimostrati incapaci a tutt’oggi di elaborare alcun piano per il corretto utilizzo delle enormi risorse che l’Unione Europea ha deciso di concedere, in particolare con il Recovery fund, per i cui programmi di spesa, fino ad ora, si naviga nel buio e si procede con la convocazione degli “Stati Generali”, come per i programmi elettorali dei partiti, alla stesura a carico dei tecnici di centinaia di elenchi di misure da prendere, senza alcuna visione organica e conseguente strategia di rilancio della stremata economia del Paese.
Infatti nessuno sa come spendere correttamente queste risorse, e ci si rifugia dietro i tecnici che, in quanto tali, non possono e non devono fare il lavoro della politica, che invece rimane impotente a fronte di una questione che non è di dettaglio e non solo perché le risorse potrebbero essere revocate, ma soprattutto perché l’Italia non può sprecare questa eccezionale decisione dell’Unione Europea per uscire dalla morta gora in cui è stata cacciata dell’assenza di cultura di governo del “Partito Unico della Spesa”.
Quindi nel mentre la Buona Destra si impegna a sostenere l’esigenza di fare le scelte politiche che servono al Paese per uscire dalle logiche depressive di un uso clientelare della spesa pubblica, con il suo Manifesto mette in guardia i cittadini che non possono continuare a sostenere partiti fotocopia gli uni degli altri, a prescindere dalla autoreferenziali collocazioni a Destra o a Sinistra, guidati da una classe dirigente cialtrona che ha trasformato il proprio ruolo di guida in semplice mediazione tra istituzioni e cittadini, proponendo false soluzioni ai bisogni veri della società ed il cui unico obiettivo rimane solo la caccia al consenso elettorale.
La Buona Destra dice basta ai “Pifferai Magici”, alle bugie come quelle sul MES, ed alle decisioni di spesa con il bilancino fondate sulla logica perversa della spartizione delle risorse tra partiti e territori, solo per dare a ciascuno la sua fetta di bottino e ritiene che sia arrivato il momento che la politica si erga in tutta la sua straordinaria capacità di strumento per la soluzione dei problemi della società e dimostri che non è il problema, ma la soluzione per individuare soggetti politici dotati di strategia, capacità di governo e di decisione, per servire non potentati o clan lobbistici, ma il vero “Bene Comune” di un popolo che rischia diversamente, come non mai, di essere avviato verso una tragica e paurosa decrescita, che non potrà in alcun modo essere felice.