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Il Mes? Solo un problema ideologico

Il Mes? Solo un problema ideologico

Ottobre 21, 2020 by guest in News

di Francesco Rubera

“Lo Stato non ha altre fonti di danaro che non siano il danaro che le persone si guadagnano. Se lo Stato vuole spendere di più, può farlo solo prendendo a prestito i vostri risparmi oppure tassando di più. Non serve a niente pensare che qualcun altro pagherà: questo ‘qualcun altro’ siete voi. Non esiste una cosa chiamata ‘denaro pubblico’; c’è solo il denaro dei contribuenti” ( Margaret Thatcher).

“Se premi la gente che non lavora e la tassi quando lavora, non essere sorpreso se produci disoccupazione” ( Milton Friedman).

In questi due principi liberali, si sintetizza la storia contemporanea nella sua stucchevole e drammatica attualità disarmante. Perché questi richiami di due illustri liberali, sono così attuali? Bene, il presidente Conte ha dichiarato che il MES ci costerebbe nuove tasse per restituirlo o riduzioni di spesa, ma in realtà le sue affermazioni lasciano perplessi, sino al legittimo sospetto in merito alla loro veridicità.

Ed invero, il nuovo BTP Italia 2020 ha permesso di raccogliere 22,3 miliardi. Il MES avrebbe garantito sino A 37 miliardi. Com’è noto, l’Italia è tradizionalmente un paese di risparmiatori e buona parte della raccolta è realizzata grazie ai risparmiatori italiani, oltre che esteri. Ma i BTP, avendo attualmente un tasso negativo costano meno del MES, che ha finalità solidali tra stati, ma che richiede garanzie e privilegi maggiori. In effetti, quando si calcola il costo dei BTP si dovrà tener conto delle premialità legate ai suddetti titoli. Con una raccolta di oltre 22 miliardi di euro, il BTP Italia 2020, finanzia (in parte, ovviamente) i provvedimenti sinora approvati per contrastare gli effetti economici della pandemia da COVID-19 e gli investimenti nel settore sanitario. Il nuovo BTP Italia 2020 ha un rendimento dell’1,4%, tasso minimo previsto dal MEF, ma prevede alcune premialità dopo i 5 anni ( attribuiti a coloro che li scambiano alla naturale scadenza), che a conti fatti costano all’Italia molto più del MES.

Il BTP 2020 ha permesso al Tesoro di non dover offrire tassi di interesse troppo elevati. Però, gli investitori saranno “premiati” oltre che con un rendimento dell’1,4% annuo, anche con le su citate premialità accessorie che potrebbero consentire agli investitori di raddoppiare questa percentuale. Il tasso è inoltre indicizzato al tasso di inflazione, così come il capitale. In questo modo, gli acquirenti non solo vedranno rivalutare i loro soldi “prestati” allo Stato, ma vedranno anche crescere il tasso di interesse generale in base al livello di indicizzazione legato alle spinte inflazionistiche. A fine quinquennio, quindi, il BTP Italia 2020 sarà il doppio rispetto all’1,4% del suo rendimento “nominale”.

Con il MES avremmo speso, secondo un’analisi condotta da Bloomberg in 22,3 miliardi di euro ( raccolti con i BTP), appena 110 milioni di euro. Ciò premesso, e’ di tutta evidenza che il nuovo Fondo Salva Stati che garantisce prestiti con un tasso di interesse di appena lo 0,1% sarebbe stato con assoluta certezza, molto più conveniente. Il BTP, provoca, invece, un saldo negativo da 1,290 miliardi di euro che rappresenta “il prezzo”, scaricato sui cittadini, “delle tensioni politiche con l’Europa” sul MES.

Per questo la valutazione di Conte sulle nuove tasse da istituire per restituire il MES è poco convincente. Perché i BTP ci costeranno 11 volte tanto. A conferma di ciò, c’è la spada di Damocle di istituire l’Imu sulla prima casa. Ma v’e di più, l’Italia è già al 48%, di pressione fiscale reale che è il rapporto tra gettito annuo e PIL comprensivo non solo del carico fiscale legale, ma anche del calcolo dell’incidenza sul PIL dell’economia non osservata, ossia l’economia sommersa e quella illegale. E se l’aiuto alle famiglie e imprese, promesso dal governo, dovrà servire a pagare le tasse, per ripagare il debito pubblico che a loro volta servono a pagare gli interessi del debito pubblico, succede che l’indebitamento pubblico si sta scaricando sulle parti più deboli della società, ma sta distruggendo alla base l’economia reale perché provocherà solo depressione economica con pericoli di spunte inflazionistiche che solo l’euro potrà contenere, ma che non faranno di certo piacere all’eurozona. Ed è questo il risultato della politica di spesa assistenziale voluta dal PUS ( partito unico della spesa) per anni, ove ha contribuito certamente il Covid, ma non da meno RdC e quota 100. E allora si dovrà ritenere che in un momento di crisi generale dovuta al Covid, essendo necessaria una iniezione di liquidità, non potrà esistere azione migliore che prendere danaro laddove costi meno. Non vi sono altre vie.

Carlo Cottarelli ha dichiarato che il MES costa meno dei BTP, contraddicendo quanto affermato da Conte, secondo cui il MES implicherebbe nuove tasse. I BTP costano undici volte tanto. Il costo del denaro tra MES e BTP è 1 a 11. Tutto il resto: credibilità internazionale, prestito privilegiato, rischi di vederci declassati, rappresentano una vox populi per giustificare, in realtà, la guerra interna ai 5stelle, ma non v’e’ dubbio che ciò che declassa di più all’occhio delle Agezie internazionali è il livello di indebitamento di uno stato, la quantità e non la qualità dei suoi finanziamenti. Ad oggi 5 paesi europei hanno fatto ricorso al MES e nessun declassamento è avvenuto.

È paradossale che un partito che propone il taglio del numero dei parlamentari per risparmiare 50 milioni di euro l’anno, ne spenda oltre 1 miliardo in più per interessi passivi su un prestito, che avrebbe potuto evitare, solo scegliendo un altro finanziamento. Ecco, questo è il costo dell’antieuropeismo che debbono pagare i cittadini italiani. D’Altronde cosa ci aspettavamo da forze politiche che tendono ad aprirsi alla Cina e sono sempre state euroscettiche ed antieuropeiste nel DNA? Ma ricordate i comizi di Grillo per un ritorno alla lira? Non è un caso che da Giogia Meloni a Salvini, sino a Di Maio, rispettivamente filoamericana; filorusso e filocinese, esista un fronte comune contro il MES. Esso rappresenta un movimento trasversale che crea una posizione di contrasto dentro la stessa maggioranza che si fa opposizione da sola ( PD e M5S).

Ed invero, è compito di una buona destra, liberale ed europeista, battersi per creare una Europa più forte, i nuovi Stati Uniti d’Europa, affinché l’Europa abbia più forza internazionale, oltre che rappresentatività e azione popolare, fatta di scelte democratiche condivise e dettate dalla sovranità popolare. Nessun Europeo credo che voglia diventare colono russo, cinese o americano, ma tutti vogliamo riprendere il progetto di Ernesto Rossi, Eugenio Colorni e Altiero Spinelli, giunto a metà strada e bloccato dai sovranismi del referendum Francese e Olandese.

Rendiamoci conto che il sovranismo non fa bene agli europei, ed oggi sta costando molto, gli italiani lo vedranno tra poco sapete come? Ovvio, con le tasse ulteriori per pagare gli interessi dei BTP.

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Raggi e Calenda in fuga sul Campidoglio

Raggi e Calenda in fuga sul Campidoglio

Ottobre 21, 2020 by guest in News

di Alessandro Cini

Una donna sola al comando, la sua fascia è tricolore: il suo nome è Virginia Raggi. Sul Monte Capitolino, più conosciuto come il Colle Campidoglio, la sindaca uscente del M5S era stata l’unica, nel panorama politico nazionale e locale, a inforcare la bicicletta e a pedalare, confermando con largo anticipo la sua intenzione di ricandidarsi alla guida di Roma. Non che il Campidoglio sia esattamente come i passi Maddalena, Vars, Izoard, Monginevro e Sestriere, quelli che hanno visto le gambe di Fausto Coppi girare come motori diesel nella Cuneo-Pinerolo del Giro d’Italia del 1949, ma certo è che Raggi, pur non vantando un certificato di nascita in quel di Castellania, un segnale forte e chiaro lo ha mandato al suo partito, ai suoi elettori e agli altri eventuali candidati.

Già: gli “eventuali” candidati.

In un frangente della storia patria in cui la politica, quella fatta di incontri, confronti, progetti e dibattiti, è praticamente scomparsa dall’orizzonte mediatico, dobbiamo rendere merito al coraggio dell’avvocata romana di aver saputo sfidare tutti su un terreno impervio, accendendo i riflettori su una città che vive perennemente sospesa tra i problemi della periferia e del centro, tra il “vorrei tanto” e il “ma non posso”. Appaltato sine die l’approfondimento politico ai nuovi specialisti del Covid-19, a ben guardare ciò che resta è davvero ben poca cosa, cioè a Enti locali e personaggi che “fanno cose”. Regioni che aprono o chiudono, Comuni che inaspriscono, virologi, immunologi, epidemiologi ed esperti di temibili zanzare tropicali che si affrontano in singolar tenzone.

Malgrado la situazione, quel che invece continuiamo a non trovare affatto coraggioso è il balbettante e pavido atteggiamento di tanti nomi altisonanti del panorama politico italiano che, invitati più o meno ufficialmente a fornire la propria disponibilità per un’eventuale candidatura a sindaco di Roma, hanno risposto con un fuoco di fila di “no”, creando un’imbarazzante catasta di dinieghi monumentale come lo stesso Palazzo Senatorio capitolino.

Intanto nel corso del fine settimana, come un concorrente uscito da una puntata di “Lascia e raddoppia?” del 1955, Carlo Calenda ha definitivamente sciolto le riserve sulla propria candidatura a sindaco per la “rive gauche” del Tevere. Accolto via video a “Che tempo che fa”, salottino bello, buono e intelligente di RaiTre arredato dall’accorto interior designer Fabio Fazio, il leader di Azione ha risposto alla fatidica domanda – Lascia o raddoppia? -, con un “sì” stentoreo che sembra aver generato più domande che risposte in casa PD.

A destra la situazione è grave, ma non seria. Dopo le risposte negative di Fabio Rampelli e Giulia Bongiorno, Antonio Tajani, Giorgia Meloni e Matteo Salvini stanno cercando in queste ore la quadratura del cerchio, che potrebbe essere trovata intorno al nome dell’ex capo della Protezione Civile, Guido Bertolaso. Massimo Giletti a Vittorio Sgarbi permettendo.

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Il vicino sicofante

Il vicino sicofante

Ottobre 14, 2020 by guest in Uncategorized

di Francesco Rubera 

Nella lingua Italiana ogni parola ha un suo significato ad esempio “delazione”. Il dizionario della lingua italiana la definisce “denunzia segreta motivata da ragioni riprovevoli”. E “delatore” è l’autore della delazione che il dizionario definisce “Chi per lucro, per vendetta, per servilismo, denunzia segretamente altri a una autorità, giudiziaria, militare o politica”.

E allora perché chi denuncia le feste condominiali irregolari è un delatore, anziché essere un cittadino che denuncia una violazione di legge e che quindi più che un atteggiamento servile e vendicativo assume un comportamento non omertoso? Quali ragioni riprovevoli vi sono in chi denuncia una situazione di illegalità seppur segretamente? O l’inciviltà del mancato rispetto delle regole poste a tutela della salute collettiva?

Il delatore è un pericolo per la democrazia, storicamente è un calunniatore, mi ricorda i “bravi” di manzionana memoria, seppur questi ultimi avessero in più l’aggravante dello stampo mafioso, di stile ottocentesco, figura mitologica letteraria, servile un po’ simile alle camice nere mussoliniane, storicamente più vicine ai nostri giorni.

Che senso ha parlare oggi nel 2020 di delatori ? Che si utilizzi il termine “delazione”, e quindi delatore, per indicare un soggetto che denuncia un illecito, mi pare eccessivo, sembra che il linguaggio giuridico stia assumendo una deriva filologica che rievoca spettri d’altri tempi. È solo questione di stile lessicale, o di etimologia delle parole, ma proprio nella storia delle parole usate viene fuori l’intenzione.

Nel sistema accusatorio, vigente in Atene e nelle città greche a regime libero vi era sempre un accusatore. Non si poteva procedere contro un cittadino se non vi fosse un accusatore, tanto che era sorta una classe di professionisti, odiata da tutti, molto pericolosa, che era individuata nei c.d. sicofanti. Il termine era usato in senso dispregiativo, per indicare un “calunniatore”. Il sicofante ricattava, minacciava di denunciare e per tacere chiedeva in cambio danari. Si trattava di un vero e proprio estortore.

I sicofanti rappresentano storicamente il disonore della grecia antica, distruttori della giustizia e della democrazia. Più in là, in epoca romana classica, il termine “delazione”, dal latino “delatio”, “deferire, accusare”, acquisì un significato meno increscioso, ma sempre ambiguo. Per i romani la delazione non era un mestiere, ma una pratica che procurava profitto a chi effettuava le denunce per svariati crimini, quando queste conducevano al successo della giustizia, quindi denunce fondate, tutto ciò proprio al fine di eliminare i calunniatori che si aggiravano a caccia di notizie (un po’ come certi pseudo-giornalisti di oggi).

La collaborazione nel denunciare i crimini dava ai magistrati romani delegati all’amministrazione delle provincie (crimen repetundarum) la possibilità di concedere al delatore, in caso di successo e per taluni reati, il diritto di cittadinanza romana oppure il diritto ad ottenere particolari concessioni. Gli abusi provocati da questa pratica avevano già dato luogo a leggi repressive. Sotto l’Impero, la delazione fu incoraggiata con larghi premî che, nei delitti di lesa maestà, ammontarono sino a un quarto dei beni del condannato.

Vi erano anche altre forme di delazione, oltre all’accusa criminale fatta da un privato, la denuncia di beni fondiarî spettanti al fisco. Quindi i delatori servivano anche a lottare l’evasione fiscale. Anche in tal caso veniva incoraggiata la pratica attraverso il compenso al delatore. In tutti i casi, con i romani, i calunniatori venivano severamente puniti. Quindi, il termine è passato ai nostri giorni, attraverso altre figure: gli informatori di polizia, i referenti di giustizia, i collaboratori, e persino i pentiti. In queste ultime ipotesi si tratta di figure importanti cui la giustizia ha fatto ricorso per abbattere l’omertà e sconfiggere la malavita organizzata.

E allora sarebbe stato più corretto usare il termine
“informatore condominiale”, oppure “referente di condominio” e invece no, non è questione lessicale, ma esattamente etimologica. Ed invero, non preoccupa tanto il fatto che un condomino denunci il vicino che abbia in casa più di 6 invitati ad una festa, ma il sentimento riprovevole del vicino, spesso spinto da invidia o da particolari avversità di vicinato che lo spingono a fare la segnalazione anonima. Probabilmente lo stesso vicino che quando sente gridare implicazioni di aiuto, provenienti dall”appartamento accanto, non chiama né la polizia e neanche i pompieri. Che non denuncia le violenze fatte in casa dentro l’appartamento limitrofo pur avendone consapevolezza. Il vicino che, quando la polizia bussa per capire se abbia sentito i ladri, mente, non sa’ , non ha visto.

Ecco, mi preoccupa molto questo vicino, che gode nel guastarmi la festa, ma gode altrettanto nel sentirmi urlare aiuto un po’ omertoso, un po’ delatore, molto sicofante. Mi preoccupa questo ambiguo senso di giustizialismo legiferato, che delega lo spionaggio riprovevole del vicino. Ma mi preoccupa sopratutto, che nella coscienza dei tanti vicini sicofanti potrebbero nascondersi i sentimenti dei vicini di Erba.

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Quel muro post-ideologico che continua a dividere invece di unire

Quel muro post-ideologico che continua a dividere invece di unire

Ottobre 13, 2020 by guest in Uncategorized

di Francesco Rubera

La crisi del pensiero liberale da un lato e il tentativo di un modello socio-politico di tipo egalitarista-assistenziale dall’altro, rappresentano i simboli storici, del complotto classista che ha governato il pensiero politico di 70 anni di repubblica. Si tratta di un dualismo intellettuale oramai desueto di fronte ad una società moderna egemonizzata dalle problematiche diintegrazione multietnica, multiculturale ove emerge ilmostro del conflitto religioso, già terribilmente enfatizzato nei fatti dell’11 settembre del 2001.

Le nuove frontiere del conflitto culturale, non più e non solo economico, svuotano di contenuto politico l’idea di confine del nazionalismo, che si pone in antitesi con il mondo dell’era globale. Il liberismo si limita ad esaltare l’idea che sia il mercato ad organizzare gli scambi e persino il lavoro globalmente inteso attraverso la tastiera di un tablet o di un pc; l’idea rivoluzionaria populista per altro verso vienemortificata da una affermazione e concezione chiusanel nazionalismo esasperato, che avversa l’idea dello ius soli. Una idea non disposta all’integrazione culturale con altre comunità. Si potrà mai parlare di costruire una democrazia Europea in un territoriogeografico composto da Stati che rappresentano un aggregato di comunità collegate tra loro solo dal mercato e che negano l’integrazione? Come si fa ad impedire segregazione, razzismo e aggressione e a tutelare la sicurezza dei cittadini, limitando al massimo l’uso della forza, se poi la stessa indisponibilità all’integrazione diventa intolleranza? Non accettazione del diverso? Come evitare che le multinazionali, unici utenti attivi del mercato globale,costituiscano un apparato di dominio ed esistano contestualmente e spesso in contrasto con gli interessi delle comunità, interamente sottomesse al mercato?

Viene in rilevo, dunque, non solo un problema di democrazia, ma di convivenza di uomini, popoli, poteri economici ambigui che hanno spesso interessi confliggenti ed il cui obiettivo è massimizzare il profitto, anche contro le regole della democratica convivenza sociale. Occorre, affinchè la democrazia si realizzi, che tutti possano vivere insieme, senza paura, riconoscendosi gli uni con gli altri nel rispetto delle diversità, nella costruzione della scala dei valoriuniversale. Occorre che vi siano credenze e convinzioni di cui ciascuna identità personale o collettiva sia portatrice, attraverso orientamenti di portata universale, in armonia con l’ispirazione generale del pensiero democratico. Essere democratici in una società multietnica, multiculturale e globale in cui l’esplosione del rischio dello scontro etnico-religioso è fortemente realistica, significa accettare un preliminare giudizio, analiticamente e universalmente riconosciuto, sia esso morale o estetico di ogni cultura, ponendosi in un rapporto paritario.

Questa situazione concettuale rappresentala base del principio di unità nel contesto contemporaneo, al di là delle differenze di contenuto e di costume. Ma questa risposta contiene un elemento di fragilità, poichè il riconoscimento dell’altro non è da solo sufficiente a garantire la comunicazione, il dibattito e, dunque, l’accordo che caratterizza ogni transazione sociale in epoche di transizione territoriale e geografica di interi popoli. Ed invero il rischio è quello di vivere la storia della societàcontemporanea, quali spettatori tolleranti, curiosi,simpatetici nei confronti di culture diverse, di organizzazioni sociali diverse, popoli diversi dai nostri, ma senza sforzarci a gettare le basi di unacomunicazione seria e condivisa sui valori universali della convivenza pacifica. Si può definire democratico questo clima di mera tolleranza culturale in cui esplodono episodi terrorismo che alimentano ilrazzismo criminale e viceversa? E dal punto di vista economico può essere democratica una società che presenta da un lato autostrade, grattacieli e benessere e, dall’altro, ghetti, tuguri e desolazione?

Lo sviluppo economico della Cina racconta questa duplice storia della ricchezza e della povertà: la storia della loro convivenza! Una società di mercati globali e borse impazzite e di comunità chiuse ed economie primordiali è un modello di distruzione di qualsiasi cultura, laddove si intenda, per “cultura popolare“; laciviltà di un popolo, l’apertura al progresso, un sistema di senso della distribuzione della ricchezza attribuito a talune pratiche socio-economichecollegate da un irrispettoso concetto della diversità. Ma è proprio questo sistema che viene meno, il sistema educativo, il sistema di senso attribuito a talune pratiche, poichè questa società dissocia senso e pratiche. Essa tiene i valori culturali rinchiusi all’interno di ogni comunità, come l’islamismo tiene chiuso l’Islam, e la cristianità il cristianesimo: le pratiche non hanno più senso, se non in un mondo sempre più regolato dalla legge del mercato, più desocializzato e delocalizzato, ma sempre più globalizzato nell’interazione economica, che restachiuso nelle concezioni antistoriche degli integralismicontinentali, racchiusi geograficamente, etnici e religiosi, non integrati e non aperti alle minoranze.

Noi occidentali e loro orientali, noi cattolici e loro musulmani, noi bianchi e loro di colore: abbiamo creato nuovi muri che non hanno i caratteri del vecchio muro di Berlino che separava liberismo e comunismo, oriente e occidente. Dopo l’abbattimento del muro di Berlino, che divideva est ed ovest del mondo, prima nel nome di una economia impazzita e poi sotto il falso nome di una religione di stato,abbiamo creato un muro peggiore, ideale, ma fisicamente e geograficamente inesistente, il muro post – ideologico, post-nazista, post-comunista, che alla base divide sempre il mondo tra ricchi e poveri. Una barriera culturale tra due mondi, non visibile ad occhio nudo, ma che è cresciuta dentro le coscienzepopolari etnicamente sollecitate dagli istinti primordialidei fautori di guerra. Economicamente non ci siamo confrontati mai con l’Islam, ma con il potere islamico dei produttori di petrolio.

In questo universo in cui religione ed economia da un lato e, pratiche e valori dall’altro, vengono dissociati, non sono più sufficienti, ma addirittura impossibili, mediazioni sociali e soprattutto politiche. Il caso Reggeni è un esempio emblematico di questa tesi: non v’è possibilità di dialogo tra due culture che vedono il mondo dei diritti dei lavoratori in maniera diametralmente opposta. Non c’è dialogo di fronte ad un imperialismo economico che cresce a dismisura anche attraverso la legalizzazione di pratiche assolutamente illegali e vietate nelle democrazie occidentali, che vanno dallo sfruttamento del lavoro minorile, sino alla legalizzazione delle ecomafie di alcuni gruppi industrializzati orientali, riconosciute dentro i confini dei loro stati, sottomessi al potere economico di queste multinazionali impudenti.

In questo scenariovuoto, le culture con le loro diversità non possono essere ricostruite se non attraverso l’impegno profuso da ciascun gruppo per ritrovare la propria capacità di associare valori e pratiche universalmente riconosciute, per garantire la partecipazione al mondo dei mercati nel rispetto della conservazione della propria identità culturale, secondo una scala di valori internazionalmente riconosciuta. La distinzione tra le due interpretazioni, ottimista o pessimista dellediversità o delle frantumazioni della nostra esperienza socio-culturale deve passare attraverso la via del riconoscimento che la funzione della politica deve fungere da collante del dialogo sociale tra culture diverse, da promotore della democrazia e moderatore dello scontro, inteso unicamente in termini di dialettica costruttiva per il riconoscimento dei valori universali della pace.

Questo dialogo, non è sic et simpliciter espressione di libertà, nè si potrà intendere in un senso così riduttivo, ma presuppone che ogni individuo si costituisca quale attore e convenuto, quale soggetto e oggetto nello stesso contesto, mettendo in rapporto tra loro pratiche e valoriuniversali. Si tratta di approfondire quello che è stato lo spirito della democrazia industriale, vale a dire la difesa, in situazioni sociali concrete del diritto di ciascun individuo e ciascuna collettività di agire conformemente alla propria libertà e nel rispetto della libertà dell’altro gruppo.

La Germania del dopoguerra è stata ricostruita dalle macerie grazie alla convivenza laboriosa degli immigrati di tutta Europa. Non si tratta quindi di riconoscere il valore universale di una cultura o di una civiltà rispetto ad un’altra, ma, ben diversamente, di riconoscere, coniugare, garantire e articolare il diritto di ciascun individuo di partecipare all’evoluzione del mondo moderno con la propria identità culturale, che non diventi esaltazione dell’ego,rinnegando l’ispirazione universalistica per condurla verso la supremazia culturale che imponga quella cultura sulle altre.

La democrazia non va esportata, secondo una vecchia filosofia delle missioni di pace cui l’Italia ha partecipato. Essa va accettata da chi ne riconosce il valore, che presuppone una missione pedagogica a priori. Non è un crocefisso in una scuola che cambia il mondo, ma la volontà di riunificare ciò che il nostro mondo, globalizzato nell’economia e frammentato nella cultura, tende con sempre maggior forza a separare. Questo ci insegna il crocefisso che portiamo nell’anima della cultura cattolica, ma che viene ripreso da quasi tutti gli insegnamenti religiosi: non è possibile essere al tempo stesso cristiano, ateo, musulmano e buddista, ma niente impedisce di essere nel contempo e nello stesso contesto, imprenditore, scienziato, scrittore, operaio o impiegato oltre che individualmente cristiano o musulmano, ateo oppure buddista e dialogare bene insieme per le condivisioni di principi generali del benessere collettivo, senza limitarci a tollerare, ma a rispettare l’altro per la sua utilità, nel suo contributo di partecipazione alla realizzazionedella crescita e del benessere collettivo.

Solo quando tutti ci renderemo conto che la laicità è un valore e che possiamo tutti lavorare insieme a prescindere che un tizio porti il turbante anziché il cappello con la visiera e i jeans o che la signora indossi giacca e cravatta, anziché il burka. Solo allorquando questi fatti diventeranno indifferenti nella coscienza degli uomini, solo allora si riuscirà ad abbattere le nuove barriere del mondo. Solo allora potremo ritornare a vivereliberi e senza terrore, senza paura della globalizzazione, ma attraverso la vera integrazione delle diversità che apprezzeremo per il loro valore aggiunto della libertà di convivenza. E allora ben vengano le scuole in cui si potrà esporre insieme sia il crocefisso che la mezza luna con la stella o il budda, che possano essere esposti insieme, senza paura di sentirsi offesi, ma con la certezza di convivere in pace e di onorare ognuno il proprio Dio.

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La “Marcia di liberazione” del 10 ottobre, ovvero “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”

La “Marcia di liberazione” del 10 ottobre, ovvero “dimmi con chi vai e ti dirò chi sei”

Ottobre 8, 2020 by guest in News Uncategorized

di Alessandro Cini

La discrezionalità con cui questo Governo sta applicando le restrizioni sul Covid-19 comincia ad avere un effetto urticante sulla stragrande maggioranza degli italiani responsabili, quelli che, pur  ringraziando il cielo di non aver incrociato sulla propria strada il virus, hanno compreso cosa vi sia in gioco, perché il Covid-19 un gioco non è. Preoccupati per il futuro proprio e dei loro cari, assaliti da ogni genere di dubbio, pieni di timori, spesso rassegnati a un certo italico fatalismo, ma consapevoli del ruolo che ciascuno di noi interpreta, questi italiani hanno accolto l’ennesimo DPCM come la classica pietanza a base di rospo che va inghiottita.

Ma al danno, si sa, si unisce inevitabilmente la beffa. Mentre nuove regole governative impongono maggiore rigidità per quel che riguarda l’uso delle mascherine e il divieto di assembramento, il 10 ottobre prossimo a Roma si profila all’orizzonte l’ennesimo fine settimana all’insegna della spensieratezza carnascialesca. Programmata a piazza San Giovanni, infatti, un’ulteriore manifestazione intitolata con enfasi post-bellica “Marcia di liberazione”.

Tra una presa di distanza dai sovranisti/populisti/negazionisti “No Mask” del 5 settembre scorso e l’altra, per comprendere l’humus ideologico dell’evento è sufficiente leggere la lista dei nomi di coloro i quali si sono fatti promotori dell’iniziativa e che, in presenza o in spirito, scenderanno in piazza a San Giovanni. Un po’ alla rinfusa, di grande impatto psicologico, ma soprattutto tese a creare il maggior grado di polarizzazione possibile, le parole d’ordine dettate dal filosofo televisivo, Diego Fusaro, sono “lavoro, reddito, democrazia, sovranità”. Chiari, almeno a chiacchiere, gli obiettivi: difendere i ceti più poveri dalla crisi indotta dalla pandemia, quindi protestare contro “l’uso politico liberticida e terroristico” che il Governo sta facendo dell’infezione virale, avendo nella proroga dello Stato di emergenza un obiettivo contro cui sparare a vista.

Qualcuno potrebbe obiettare che fin qui le rivendicazioni a carattere politico siano assolutamente condivisibili, anche perché nei giorni scorsi la stessa presidente del Senato, Elisabetta Alberti Casellati, si era spinta a chiedere al Governo Conte chiarezza sullo Stato di emergenza. Fino a un certo punto. Perché quando si scorre la lista di promotori e partecipanti dell’adunata romana se ne smaschera anche l’anima più intima. Si comincia dalla deputata “No-Mask” e “No Vax” Sara Cunial, gentile cadeau parlamentare del M5S, su posizioni decisamente antigovernative, passando per le note di colore “pop” costituite da Enrico Montesano (che alla manifestazione “live” non ci andrà) e Rosita Celentano, fino a giungere a sigle quali il Fronte sovranista italiano, l’Alleanza Italiana Stop 5G (che non vuole la realizzazione del 5G Action Plan) e il Movimento 3V (quello complottista che chiede verità sui vaccini).

Insomma, dato il parterre de rois è facile preconizzare che piega potrebbe prendere la manifestazione, tra provocazioni fatte di assenze di mascherine e azzeramento delle distanze interpersonali. Non è facile capire invece come agirà il ministero dell’Interno, chiamato a far rispettare i dettami governativi sul Covid-19 in mezzo a un evento che non sappiamo quanta gente richiamerà. Multe? Identificazioni? Fermi di Polizia? Succhino?

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L’Italia torni ad essere se stessa: il paese della Bellezza, dell’Arte, della Tecnica

L’Italia torni ad essere se stessa: il paese della Bellezza, dell’Arte, della Tecnica

Ottobre 8, 2020 by guest in News

di Alfredo Foresta

Ripartiamo dal Bel Paese, quello del XXXIII canto infernale, “del bel paese là dove ‘l sì suona”, che designava la penisola, non ancora Italia, grazie alla mitezza del clima, alla natura e alla sua storia culturale. La locuzione dantesca (ma anche petrarchesca, Canzoniere, CXLVI, 13-14) è utilizzata ancora oggi come sinonimo di “Italia”, grazie alle medesime caratteristiche. Volgendo lo sguardo alla Storia, senza alcuna pretesa passatista, è facile rintracciare una straordinaria continuità di “Bellezza” che nel tempo ha arricchito lo stivale al centro del Mediterraneo.

E sempre guardando alla Storia del Belpaese non si può fare a meno di constatare due cose: la prima è che questo rapporto con la Bellezza sembra essersi incrinato recentemente; la seconda riguarda la genesi di tanta Bellezza. La continuità nei secoli nel produrre Bellezza era generata da una serie di fattori: il coraggio di una committenza lungimirante, la visione di architetti capaci di intercettare tale lungimiranza e tradurla in manufatti da consegnare ai posteri e maestranze capaci di rendere concrete le visioni lungimiranti dei committenti/architetti. Le opere pubbliche volute da quella committenza e affidate agli architetti e alle maestranze dell’epoca sono oggi il patrimonio, forse l’unico vero patrimonio, di questo Paese altrimenti piuttosto malandato. Sono il capitale che possiamo/dobbiamo spenderci per competere con le potenze globali.

Non abbiamo detto nulla di nuovo. Finora. La necessità di tutela di questo straordinario patrimonio ha generato spesso un atteggiamento conservatore tutto teso a congelare il bene affidatoci dai padri per poterlo consegnare ai nipoti. Questo atteggiamento, credendo di saper interpretare il compito ereditato dalla Storia, non tiene conto, invero, di come e di quanto la Storia, nel corso dei secoli, abbia saputo reinterpretare e reinventare quel patrimonio, arricchendolo, potenziandolo o adeguandolo ai tempi, fermo restando il trinomio vetruviano venustas, utilitas, firmitas, che ha ispirato i grandi architetti del passato, laddove per architetto dobbiamo intendere il “capo costruttore” (dal gr. ἀρχι-τέκτων), ovvero colui che gestisce l’intera progettualità costruttiva. Nei secoli passati architetti e amministratori della cosa pubblica hanno lavorato insieme dando vita a modelli capaci di inglobare il valore identitario del luogo e, contemporaneamente, generare bellezza intesa come visione, arte e tecnica, coraggio e responsabilità.

Quando abbiamo interrotto la continuità nel produrre Bellezza in ambito pubblico? Quando il rapporto interscambiabile tra committenza (oggi lo Stato), ἀρχι-τέκτων e maestranze è diventato altro rispetto alla lungimiranza condivisa nella tensione verso l’eternità?

Lo Stato

Oggi lo Stato deve creare le condizioni affinché si realizzi un nuovo rinascimento italiano.

Il progetto

Il recupero del DNA italiano in termini di visione, costruzione e gestione del nuovo spazio pubblico deve avere lo stesso peso dell’eredità ricevuta da tramandare. Una buona politica deve riscattare l’unità nazionale nella spiritualità e nei principi generatori della nostra Bellezza: visione, arte e tecnica, coraggio e responsabilità; un unico disegno arricchito dall’architetture delle tante peculiarità del nostro territorio. La politica deve coinvolgere le migliori realtà del Paese, attraverso il valore della scelta intesa come capacità di progettare; il progetto in tutte le sue declinazioni determina le ragioni di un dibattito critico, coinvolge e appassiona, indica le ragioni e i perché; una netta inversione di tendenza da non confonde con l’imperante politica della partecipazione dal basso, costantemente alla ricerca di idee popolari in chi non ha gli strumenti del sapere.

Obiettivi

Obiettivo primario non può che essere quello di restituire alla committenza (ovvero allo Stato) il ruolo di produttore di Bellezza attraverso opere pubbliche che, nel rispetto del trinomio vitruviano, possano dignitosamente competere con le grandi opere del passato. Perché lo Stato committente ha il dovere di educare la sua gente alla Bellezza, che altro non è che la capacità di appagare l’animo attraverso la contemplazione. Educare alla Bellezza non è un processo immediato e semplice: ha bisogno di tempo e di un’azione concertata, “architettata”, multidisciplinare. Per educare l’occhio a vedere la Bellezza non basta che l’oggetto contemplato sia bello ma che l’occhio che lo guarda sia allenato a riconoscerne la Bellezza (magari ripristinando o potenziando le ore di Storia dell’Arte nelle scuole del Belpaese).

 

Edificare

Edificare significa recuperare il valore etico ed estetico dei costruttori e dei progettisti ma la committenza deve ritrovare il coraggio di investire nelle opere pubbliche non solo nella logica della necessità e del massimo rendimento ma come occasione per produrre Bellezza, bene altrettanto spendibile e monetizzabile ma altresì identitario di una cultura e di un tempo storicamente accertabile.

Questo non sarà possibile fino a quando il criterio prevalente di valutazione di un’opera pubblica rimarrà l’”offerta economicamente più vantaggiosa”, con tutti i suoi effetti (ivi compresi i ricorsi amministrativi), e fino a quando la responsabilità della procedura sarà affidata alla figura del RUP, il cui unico obiettivo è quello di assicurarsi che la procedura da un punto di vista amministrativo si inattaccabile in sede di ricorso o davanti all’ANAC.

E fino a quando il processo di edificazione si interrompe con la realizzazione dell’opera, trascurando completamente la fase successiva di manutenzione e conservazione perché ricadente nelle successive legislature e, quindi, onere altrui. Il controllo di qualità della realizzazione di un’opera pubblica e la sua longevità devono diventare elementi di riflessione per chi voglia o crede di poter amministrare il Belpaese.

Per non parlare del ruolo delle Soprintendenze, nate a tutela del suddetto patrimonio, che un redivivo Marinetti condannerebbe in toto per intralcio al progresso del Belpaese. Il patrimonio culturale non deve rappresentare un ciclo finito da “conservare”; con responsabilità, le nuove generazioni hanno il dovere di alimentarlo e arricchirlo, secondo il principio naturale del ciclo della vita.

La qualità dell’abitare, lo sviluppo sostenibile, i processi di integrazione sociale, lo sviluppo armonico, se non affrontati mettendo al primo posto l’approccio dell’architetto ἀρχι-τέκτων, sono condannati a trasformarsi in slogan privati di senso.

Ripartiamo dall’architettura

Eliminiamo dal nostro vocabolario collettivo termini come “edilizia”, “OEPV”, “case popolari” etc., che hanno generato, soprattutto negli anni del cosiddetto boom economico (quando ha smesso i panni dell’onomatopea e ci è esploso in faccia), una visione umiliata dell’opera pubblica in generale, per cui oggi si fa effettivamente fatica a ricordarne una degna di considerazione da raccomandare al turista che viene a trascorrere le ferie in Italia.

Ministero dell’Architettura e dello stile italiano

Il più importate dicastero dei prossimi anni, capace di declinare le necessità del paese (piano di manutenzione e di salvaguardia ambientale) e promuovere il ruolo dell’Italia in Europa e nel Mondo non può che essere un Ministero dedicato allo stile italiano e alla progettualità architettonica. Un Ministero che sappia promuovere una sana e credibile azione politica di sviluppo economico e sociale capace di ri-generare fiducia, credibilità e stabilità, attraverso azioni immediate atte a tutelare il diritto alla creatività, incoraggiare il “genio”, favorire le “imprese ardite” che hanno il coraggio di osare attraverso le architetture.

La Visione, l’Arte e la Tecnica devono tornare ad essere insieme al servizio della politica nazionale. La Bellezza e l’efficienza delle città italiane in un rapporto di “kalokagathia” devono promuovere il pil del paese in un progresso sociale, etico e tecnologico. Da qui una legge sulla qualità dell’architettura chiara ed innovativa, che deve, nel solco della tradizione del Belpaese, divenire modello per gli altri Paesi.

La Visione: Italia 2048

Proviamo ad immaginare un’impresa “epica”, nel solco della nostra storia, il cui termine è stato volutamente fissato nel 2048, anniversario dei duecento anni della “primavera dei popoli”, moti rivoluzionari che in nome della liberta interessarono tutta l’Europa. Proviamo ad immaginare un rinnovato Gran Tour lungo una penisola che, come nel Settecento, si offra in un armonico bilancio tra tradizione e modernità con nuove infrastrutture in grado di “stupire”, di divenire avanguardia e sperimentazione; i modelli costruttivi dovranno edificare una nuova coscienze europeista, esempi virtuosi di buone pratiche e trasformare definitivamente l’attuale l’Italia nel Bel Paese ritrovato. Le città italiane del 2048 dovranno tornare ad essere sane, libere ed equilibrate, generatrici di equità e integrazione, non globalizzate all’indifferenza, non vittime dell’assolutismo della mediocrità. Trent’anni non sono pochi per un progetto così ambizioso se spesi bene e, soprattutto, se cominciamo senza indugi.

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Le parole diventano uomini, trasformandosi in azioni

Le parole diventano uomini, trasformandosi in azioni

Ottobre 4, 2020 by guest in Uncategorized

di Alessandro Cini

Ha ragione Claudio Fava, siciliano, politico, ma soprattutto figlio di un padre ucciso dalla mafia.
Con chi vogliamo prendercela se a Catania l’esponente di un partito politico tratteggia la peggiore feccia di questo Paese come una nobile compagnia di antichi cavalieri che, in attesa del Santo Graal, hanno perduto sensibilità e coraggio? “Che Paese è ormai questo?” si chiede Fava. Già, che Paese è ormai questo?

In attesa di un risposta esaustiva, mi raccomando: teniamocele strette le rendite derivanti dalle definizioni di destra e sinistra. Teniamocele strette soprattutto quando saremo tutti chiamati, prima o poi, a combattere in prima persona la criminalità organizzata declinata in ogni sua variante territoriale e in ogni forma. Quando anche la legge non sarà più sufficiente ad arginare i peggiori fenomeni distorsivi innescati dalla cultura della violenza e della sopraffazione, abbracciamo ancora una volta la nostra ideologia, vecchia e malata, come la coperta di Linus.

Difendiamo i nostri maleodoranti barili di benzina come soldati fantasma giapponesi su un atollo del Pacifico. Ecco, mentre decidiamo da che parte stare, quale esatta nuance indossare per la collezione parlamentare “autunno-inverno”, quali misurate parole utilizzare, quale stigma dare ai nostri pensieri, mentre cincischiamo sul da farsi, ragionando sul cosa significhi una politica “di destra o di sinistra” nell’approcciare a questa oscura materia chiamata mafia,ricordiamoci anche cosa abbiamo fatto a questo Paese.

Noi e le nostre “idee”. Teniamo bene a mente come abbiamo permesso a qualcuno, al suo smisurato ego e al suo misero tornaconto elettorale, di utilizzare la lingua e il gergo della violenza. Riportiamo alla memoria l’istante in cui abbiamo consentito che la politica divenisse un distillato di odio incontrollato, un sentimento ormai talmente fuori misura da innescare l’applauso del pubblico tifoso convocato ad assistere a tristi comizi organizzati a uso e consumo dei social. In tutto questo, con un po’ di amor proprio, sarà inevitabile pensare a chi abbiamo affidato il nostro stramaledetto “voto di protesta”.

Rassicurati dalle straordinarie funzioni del nostro smartphone – perché oggi siamo le funzioni del telefono che gestiamo -, magari avremo anche il coraggio di assolverci, senza neanche comprendere che le parole, anche quelle pronunciate in un caldo, distratto, pandemico autunno siciliano, si incarnano, diventando uomini, trasformandosi in azioni.

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La deriva dei sindacati, ovvero le responsabilità dell’immeritocrazia

La deriva dei sindacati, ovvero le responsabilità dell’immeritocrazia

Ottobre 3, 2020 by guest in Uncategorized

di Francesco Rubera


L’inefficienza della P.A. è legata all’appiattimento delle carriere che il sindacato ha
contribuito a creare, distruggendo la meritocrazia. Il “sindacato giallo” è stato da sempre vietato dallo statuto dei lavoratori, ma il divieto di legge non è stato sufficiente ad evitare che esso potesse “ingiallirsi nel tempo”, come le pagine di un vecchio libro che racconta i fasti e le storie di altri tempi che furono, tempi sessantottini che, se raffrontati al presente, trasmettono il senso di angoscia e di metamorfosi attraversoil degrado delle dinamiche, che da logiche democratiche di contrattazione hanno segnato il passaggio verso la crisi del ceto medio, che ha visto passare i suoi diritti economici dalla concertazione attraverso dialogo sociale, sino alle decisioni legislative, a causa della costante delegittimazione del ruolo sindacale, che nel tempo ha distrutto le aspettative del ceto medio.

Una tesi ben motivata, sostenuta in un articolo di Alfio Squillaci sul sito “Gli stati generali.com”, dal titolo “La società chiusa e i suoi amici. Quale meritocrazia per il sindacato?”, afferma che, paradossalmente, il sindacato ha contribuito a distruggere il tessuto produttivo delle aziende pubbliche sminuendo la meritocrazia e conducendolaverso l’appiattimento. Il riferimento riguarda le OO.SS. operanti nel settore pubblico allargato,compresi gli enti pubblici, le società partecipate a maggioranza azionaria pubblica, in cui gli enti pubblici territoriali o lo Stato hanno il controllo totale del capitale azionario (si tratta di 4, 5 milioni di lavoratori circa in Italia). Secondo l’autore, in quelle realtà lavorative impera una “legalizzazione del clientelismo” quasi consuetudinaria, specie nelle aree economicamente depresse del paese. Il riferimento dell’autore non è al sindacato delle fabbriche, che ha altre tradizioni e interessi da tutelare, ma (condivido l’analisi settoriale) agli Enti pubblici e alle aziende a partecipazione pubblica, ove non esiste neanche la logica del concorso pubblico, nonostante gestite con soldi pubblici.

L’autore, nell’analizzare le cause di responsabilità sindacale riguardo alla distruzione della meritocrazia, richiamaun articolo di Bruno Trentin pubblicato nel 2006 su l’Unità. Bruno Trentin era un sindacalista di altri tempi, uomo di sinistra, di cultura raffinata come da tradizione Berlingueriana, che contestavaapertamente e coerentemente alla sua ideologia, pervasa da un ibrido pensiero innovativo liberal-socialista frammisto ad un innato bolscevismo/culturale, il sistema premiante, inteso quale denaro elargito dalle aziende ai lavoratori secondo un parametro di attribuzioni e riconoscimenti meritocratici decisi dal datore di lavoro e basato sull’attribuzione delle qualifiche e delle competenze dei lavoratori. Secondo Trentin, il sistema delineato celava il rischio di rendere il datore di lavoro, arbitroindiscusso e, contestualmente artefice, dei destini della classa lavoratrice. Il sistema premiante poteva essere un’arma data in mano ai datori di lavoro per mettere contro i lavoratori e, quindi per meglio “controllarli e amministrarli”, utilizzando il meritoquale metodo di riconoscimento delle qualifiche e delle competenze dei lavoratori.

A ben vedere, quindi, Trentin temeva la meritocrazia, riteneva“qualificazione e competenza” in contrapposizione al merito, invece di riconoscere che proprio quelle eranole qualità costitutive del merito stesso. Il suo timore che l’azienda dovesse valutare e riconoscere la meritocrazia lo indusse a rifiutarla in blocco, paventandone i rischi di un uso distorto che indebolisse la classe sociale più debole. Trentin ragionava secondo i preconcetti di contrapposizione del blocco tra capitale e lavoro, liberismo e comunismo, che anziché vedere come stesse facce della stessa medaglia che è lo sviluppo economico e la piena occupazione, venivano relegati nella più angusta visione della lotta di classe. In tal modo, innalzava un muro di contraddizioni e sospetti avverso la libertà di esercizio di impresa, attraverso un atteggiamento sospettoso e contrario alla stessa idea della premialità, senza pensare che l’interesse dell’imprenditore potesse essere quello di massimizzare la produzione secondo una visione economica e non ideologica della società, quindi più obiettivo e conforme ai dati empirici. Ed invero, quella scelta del sindacato, anziché affrontare i rischi di affidare le valutazioni al datore di lavoro, ha appiattito per decenni la meritocrazia e le carriere dei lavoratori della P.A.,consegnando il mondo del lavoro alle mortificazioni di un insensato ed amorfo egalitarismo. In pratica, si contrapponevano due visioni totalmente opposte dell’economia e della distribuzione della ricchezza secondo meritocrazia: liberismo e comunismo. Da un lato l’idea liberista di premiare i lavoratori secondo un concetto individuale di valorizzazione delle “risorse umane”, elemento centrale e indispensabile alle aziende per la proficuità della produzione che mette al centro l’individuo; dall’altro l’idea liberal/socialistache paventa il rischio di uno sfruttamento dei lavoratori e che esorcizza il fantasma del padrone, offrendo una proposta di distribuzione a pioggia della retribuzione premiante diretta al gruppo e non alle individualità, in base a valutazioni di andamento dell’azienda su obiettivi prefissati annualmente (che quindi premiava il gruppo senza distinguere tra lavoratori meritevoli/produttivi e lavoratori non meritevoli/lavativi). Secondo Trentin, la discrezionalità della scelta datoriale era troppo rischiosa all’interno delle dinamiche del gruppo. La politica sindacale di quegli anni ha visto un sempre maggiore espandersi del potere sindacale, non solo all’interno delle contrattazioni sindacali aziendali con un incremento delle relazioni aziendali, attraverso la contrattazione di secondo livello, come giusto che fosse in nome di una democrazia partecipativa dei lavoratori, ma ha anche rappresentato una svolta della stessa idea di democrazia rappresentativa nei luoghi di lavoro, in seguito alla  distorsione del poteresindacale che per parafrasare l’aneddoto andreottiano si potrebbe tradurre nel famoso: ”il potere logora chi non ce l’ha”.

E’ stato così che il sindacato è stato visto come un affare per alcuni pseudo – sindacalisti e faccendieri, che dietro l’impotenza datoriale a fronte del potere sindacale, hanno intravisto una vera occasione d’oro. Molti rappresentanti, motivati dal logoramento, iniziarono a mutuare cariche sindacali nella qualità di raccattatori di tessere per conquistare poltrone, quasi un parallelismo a quanto accaduto in politica. Chiunque raccattasse più tessere, perché amico degli amici, otteneva più consensi ed avrebbe ottenuto più ruoli all’interno della struttura sindacale, oltre che in quella parallela, aziendale.  Nello stesso articolo di Alfio Squillaci, si fa richiamo alla scena di un film canadese dal titolo: “Le invasioni barbariche(2003)” di Denys Arcand, che racconta le illusioni e ifallimenti della logica illiberale e non meritocratica della sinistra sindacale, sino a mettere a nudo gli aspetti paradossali del sindacato: un giovane senza scrupoli, cerca di fare ricoverare in ospedale il vecchio padre gravemente ammalato e riesce nell’intendo, masolo corrompendo un gruppo di sindacalisti, che in quella scena vengono rappresentati mentre giocano a carte nell’astanteria dell’ospedale ( quasi a sottolineare la loro dannosa improduttività), i quali, dettaglio non da poco, “stringono in pugno” la direttrice dell’ospedale, che con un cenno del boss del sindacato trova subito il posto all’anziano malato.

“In un paese civile non può bastare l’iscrizione al sindacato per fare carriera”, è una dichiarazione diRenzi in una intervista rilasciata domenica 8 dicembre 2013, su “IL MATTINO”. Sorge spontaneo chiedersi:come è possibile che il sindacato controlli, come descritto nella scena del film canadese, la dirigenza dell’ospedale? Come è possibile che, nella realtà,Renzi nel 2013 accusasse apertamente il sindacato di favoreggiare al clientelismo? Semplice: è successo che il sindacato dei lavoratori cominciato a infiltrare i loro quadri, dentro l’organigramma aziendale in posizioni di comando. Ecco, quindi, che molti dirigenti dell’organigramma aziendale, oggi sono totalmente espressione dell’organigramma del sindacato, presente o passato, sino a raggiungere, molto spesso, livelliapicali in aziende pubbliche. Ed è stato proprio questa metamorfosi del ruolo del sindacato che ha indebolito i lavoratori. Si è passati dal “rappresentare” i lavoratori che, invece, nei fatti vengono controllati e diretti dal “capo aziendale” che spesso è contestualmente un ex sindacalista, rimasto fedele al sindacato che lo ha piazzato in quella posizione. Ecco, questo è successo negli ultimi 40-50 anni (a partire dalla legge 300/70). Si è partiti da una lotta per la conquista di diritti dei lavoratori per giungere ad una battaglia per l’accaparramento dei privilegi.L’osservazione è fondata, visto che oggi il sindacato, in molti comparti, è tanto potente che di fatto ne governa, seppure in maniera occulta, settori aziendali o interi reparti, se non in casi estremi le stesse aziende nel loro complesso.

Il sindacato giallo è stato da sempre vietato dalla legge, ma il divieto di legge non ha evitato che esso potesse ingiallirsi nel tempo, come le pagine di un vecchio libro che racconta i fasti e le storie di altri tempi che furono, tempi sessantottini che, se raffrontati al presente, trasmettono il senso di angoscia e di metamorfosi attraverso degrado delle dinamiche economico-sindacali, che da logiche democratiche di contrattazione hanno segnato il passaggio dalla concertazione al dialogo sociale, con una delegittimazione del potere sindacale sempre più evidente, sino ad essere sostituite dalle decisioni del legislatore, che in questi anni si è inserito nei rapporti tra le parti sociali in un ruolo istituzionalmente non suo, ma a causa della delegittimazione stessa delle parti sociali. Intere materie che in altri tempi la contrattazione avrebbe gestito secondo il rispetto dei ruoli della contrattazione tra le parti sociali, oggi vengono disciplinate dal legislatore. Il sindacato ha perso rappresentatività per i suoi accordi, che lo hanno delegittimato. Non è, quindi solo la storia che è cambiata dopo la globalizzazione dei mercati verso la deriva liberista, ma i lavoratori dovrebbero chiedersi con spirito autocritico: cosa altro è cambiato oltre alla storia che portò alla creazione della legge 300/70?E’stato un errore storico il 68? O forse l’errore storico è legato all’ involuzione del ruolo del sindacato? Le domande sorgono spontanee, basti osservare i meccanismi di funzionamento e l’aggressivitàricattatoria nella mediazione sindacale da una parte e dall’altra.

E’ successo un fenomeno allarmante e sempre più frequente: da un lato, in molti casi, si sono negoziati i diritti con i favori nei modi tipicamente più beceri delle transazioni clientelari, sino a quelli più sottili e motivati in nome del mostro della crisi dei mercati per legittimare la flessibilità, panacea di tutti i mali del mercato. Dall’altro lato, è cresciuta a dismisura una élite sindacale sempre più lontana dalle logiche per le quali nacque storicamente il sindacato,tanto potente quanto invasiva, che ha massimizzato spudoratamente tutta la forza del gruppo organizzato verso la conquista del proprio benessere individuale in nome dei lavoratori che non rappresentano più, ma che preferiscono controllare. Una casta che con l’utilizzo di concetti di flessibilità selvaggia, ha fatto passare logiche aziendaliste di massimizzazione del profitto, inculcando nei lavoratori il terrore della perdita del posto di lavoro, quale contropartita dello scambio. In tutto questo, c’è il crollo della meritocrazia, si è firmato un patto con il diavolo che ha minato alla base la modernizzazione del paese. Loro si sono eretti a paladini della difesa prima contro il licenziamento individuale e collettivo che avrebbe potuto causare il mostro della crisi globale in tempi di partitocrazia sfavorevole, poi, in epoche di partitocratiche favorevoli hanno manifestato con il silenzio assenso le scelte che prima avevano avversato.

Anche la storia dei licenziamenti e le dinamiche legislative (abolizione dell’art. 18 della legge 300/70), volute da Berlusconi prima, con la guerra dei sindacati e approvate da Renzi dopo, con la pace sindacale, non hanno portato alcun aumento o miglioramento per nessuno, dimostrandosi semplicemente inutili, ma utili solo a far crollare i consensi del rottamatore e di Berlusconi, che sono stati considerati, non a torto traditori degli interessi di una larga parte di elettorato, rappresentato dal ceto medio. Nessuno ha compreso che il vero danno ai lavoratori è stato arrecato dalla metamorfosi delle dinamiche contrattuali,depauperate dalla distrazione delle cordate intende a distribuire cariche e poteri individuali, spesso anche attraverso cariche politiche, o incarichi di sottogoverno e non legato non alle scelte sindacalidegli anni 60/70, ma al cambio di pelle dello stessosindacato. Potrei stupirvi su più argomenti, noti e meno noti ma mi limito solo al caso emblematico: basti pensare agli assegni pensionistici liquidati a illustri pensionati ex segretari nazionali dei sindacati confederali che neanche il Presidente della Repubblica riceverà.

Fino a qualche anno fa i sindacalisti occupavano il terzo posto al parlamento, dopo i magistrati e gli esponenti dei mass media. Essiavevano ben due uomini ai vertici delle istituzioni: Marini al Senato e Bertinotti alla Camera. Non sto qui ad elencare i vari politici locali e a capo di istituzioni territoriali: province, comuni ecc. Ricorderete Sergio Cofferati, capace di trascinare in piazza 3 milioni di italiani da sindacalista e da sindaco di Bologna contestato da tutti i lavoratori del Comune. L’attivismo sindacale si assicura attraverso una amplificazione dei vertici e dei ruoli sindacali, unesercito di cariche: segretari generali, segretari nazionali di categoria, segretari generali aggiunti, vice segretari generali, segretari regionali generali e di categoria, componenti i direttivi nazionali, provinciali e delle camere sindacali comunali, segretari provinciali, segretari aziendali catapultati attraversocooptazioni a vario titolo. Tutti percettori di benefit: permessi sindacali retribuiti, rimborsi spese con i contributi dei lavoratori, spesso anche incarichi con cospicue retribuzioni, tanto per citarne alcune: Larizza ex presidente del CNEL e gli innumerevoli presidenti Inps nazionale, regionali e provinciali di estrazione sindacale confederale.

Questa è la nicchia di potere che negli anni si è costruito il sindacato, dimenticando il suo ruolo di difesa dei lavoratori. E mentre il furbetto del cartellino veniva licenziato, il sindacalista in permesso sindacale fisso, che accompagnava la moglie al supermercato non poteva neanche essere denunciato dal datore di lavoro, poiché rischiava una denuncia-querela per condotta antisindacale. In pratica il sindacalista era insindacabile. Questo paradosso è il risultato complessivo di questa intermediazione aggressiva che ha rappresentato la causa della distruzione sistematica delle migliorimenti pensanti, distrutte da un cecchinaggio permanente di molti autoreferenti sindacalisti privi diintelligenza critica, ma posti in situazioni di potere.

Il sindacato dei lavoratori si è trasformato in una sorta di fabbrica dell’obbedienza che ha segnato la demotivazione e la fine di molte forze vive della nazione dotate di spirito dialettico. Questo è il dramma profondo che segna la crisi del ceto medio della classe lavoratrice, non la storia del 68 e neanche il modello della destra liberale.

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Una buona politica che guardi al futuro deve essere antiproibizionista

Una buona politica che guardi al futuro deve essere antiproibizionista

Ottobre 2, 2020 by guest in News

di Flavio Passi

Credo che ormai, dopo quasi un secolo di proibizionismo, appaia chiara la sua completa inefficacia nel contrastare il consumo di droghe.
Il proibizionismo si è sempre nutrito di slogan populisti, utili soltanto a tranquillizzare i meno informati, e di leggi che hanno sempre colpito i consumatori e favorito i grandi narcotrafficanti.
Le droghe sono argomento complesso, a volte spinoso, che ogni partito politico (sia di destra che di sinistra) ha sempre cercato di evitare, delegando al proibizionismo l’illusione di risolvere il problema.
Credo però che sia ormai necessario trovare il coraggio di parlarne a viso aperto, senza tabù.
Soltanto così possiamo proteggere i giovani da comportamenti sbagliati e pericolosi. Come spesso ripeto: «educare è meglio che proibire.»

A conferma di questa tesi ci sono i dati: ogni Paese che ha sperimentato politiche meno repressive (o di legalizzazione delle droghe leggere) ha visto una drastica diminuzione del consumo di droghe, sia leggere che pesanti. Perché? Credo sia ormai assodato che l’informazione, l’educazione e la cultura siano il maggior deterrente al consumo di droghe, mentre il “fascino del proibito” continua ad attirare generazioni di giovani di ogni classe sociale e livello culturale.

Se davvero vogliamo proteggere i giovani dal consumo di droghe pericolose e a volte mortali non possiamo prescindere dalla legalizzazione della Cannabis.

Legalizzare la Cannabis non significherebbe “incentivare al consumo” o peggio essere “Stato spacciatore”, come ulula alla luna qualche personaggio di estrema destra cavalcando slogan populisti e privi di senso, al contrario significherebbe fare informazione spiegando senza tabù quelli che sono i pro e i contro dell’utilizzo della pianta di Canapa. Significherebbe evitare al consumatore di Cannabis il contatto con spacciatori senza scrupoli pronti ad offrir loro qualsiasi tipo di sostanza. Perché nonostante la teoria che la Cannabis sia la “porta di accesso” verso droghe più pericolose sia stata ampiamente smentita, resta il fatto che lasciando il mercato in mano a criminali senza scrupoli questi cercheranno senz’altro, prima o poi, di convincere il “cliente” a provare altri tipi di sostanze, molto più nocive della Cannabis o addirittura mortali. Insomma è il proibizionismo la porta verso le droghe pesanti, non la Cannabis.
Sulla Cannabis, in cent’anni di proibizionismo, sono state dette tantissime bugie: è stata ingiustamente demonizzata dai più, mentre una minoranza di persone ne ha sempre esaltato i suoi effetti rilassanti e terapeutici. A mio avviso sono entrambi atteggiamenti sbagliati.

Come scrivo nel mio libro “Cannabis ~ credevo fosse droga” (Edizioni Effetto, 2020), «La Cannabis non va né osannata né demonizzata, va studiata e rispettata.»

Resto convinto che se le persone fossero educate sulla Cannabis ne farebbero un utilizzo diverso e saprebbero rispettarla come pianta officinale utile per alleviare i sintomi di moltissime patologie più o meno gravi; invece che considerarla “droga”.
In Italia ci sono sei milioni di consumatori di Cannabis dichiarati, quasi tutti adulti e consapevoli, conoscitori della sostanza, che ne fanno uso per i motivi più disparati, e sono quasi tutte persone con un buon livello culturale ed una buona estrazione sociale.

Persone perfettamente inserite nella società, non disadattati, persone che preferiscono rilassarsi alla sera con un qualche tiro di Cannabis piuttosto che con qualche sorso di whisky.
Oggi queste persone sono “fuorilegge” e rischiano ogni giorno procedimenti penali a causa di un assurdo pregiudizio dovuto a cent’anni di disinformazione.

Attualmente a causa del proibizionismo l’Italia rinuncia a un indotto stimato di sette miliardi all’anno (un terzo di ogni manovra finanziaria), a 300.000 nuovi posti di lavoro e a moltissimi punti di PIL, soltanto per seguire un’ideologia ormai superata nonché totalmente inutile ad arginare il “problema” delle droghe.

Ma il discorso non è soltanto economico: il proibizionismo è come una piovra che allunga i suoi tentacoli e incancrenisce ogni settore che tocca. Basti pensare a come le nostre Forze dell’Ordine vengono distratte per inseguire piccoli consumatori; alle Prefetture intasate da procedimenti a carico di ragazzini trovati in possesso di qualche grammo di Cannabis; ai tribunali ingolfati da processi a piccoli consumatori o persone trovate in possesso di poche piante di Cannabis per uso personale. Queste cose accadono quotidianamente, e non possiamo pensare a una giustizia più rapida ed efficiente se continuiamo a rallentare il lavoro di Polizia e magistratura costringendoli a perseguire persone normali, il cui unico reato è preferire una canna a un whisky.

Bisogna, a mio avviso, punire i delinquenti veri: gli stupratori, i rapinatori, gli assassini. Credo ci voglia una riforma del Codice Penale e garantire pene certe per alcuni reati.

Oggi la maggior parte delle persone se la prende con i giudici, accusandoli di lassismo. La colpa non è della magistratura se le leggi prevedono decine di “attenuanti” per ogni crimine o delitto. A mio avviso per certi reati, pur con tutte le “attenuanti” del caso, dovrebbero essere garantite pene certe. Esempio: per lo stupro la pena minima (considerando tutte le attenuanti) dovrebbe essere 20 anni di carcere, fino all’ergastolo per gli stupri più efferati. Ma mai meno di vent’anni. Soltanto così possiamo evitare la frustrazione delle persone che, a causa del lassismo odierno, possono essere portate ad abbracciare ipotesi come la “legittima difesa”, che a mio avviso rappresenta il TOTALE FALLIMENTO DELLO STATO.

Per comprendere meglio l’assurdità del “cancro proibizionista” basti pensare che oggi il 40% dei detenuti è in carcere per reati legati alla Cannabis, mentre bande di persone che compiono rapine a mano armata possono stare tranquillamente ai domiciliari e quindi liberi di continuare ad andare in giro a fare rapine. Non credo sia più tollerabile.
Credo che una Buona Politica che sappia guardare al futuro debba pensare a tutto tondo, implementando le risorse per scuola, sanità ed ecologia.
E per avere le risorse per migliorare davvero scuola e sanità, servono quei sette miliardi all’anno sottratti alle mafie. Pensiamoci. La Cannabis, inoltre, potrebbe ricoprire un ruolo importantissimo anche nell’ecologia, settore in Cannabis potrebbe avere decine e decine di utilizzi.

Fino ad oggi si è sempre cercato di evitare l’argomento perché forse, in fondo, questa situazione è andata bene a tutti, ma se davvero vogliamo pensare a un paese efficiente, capace di guardare al futuro e alla bellezza, non possiamo continuare a rallentare la corsa del Paese con politiche vetuste, dannose e totalmente inefficaci.

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Il senso della “moderata” Giorgia per l’Europa

Il senso della “moderata” Giorgia per l’Europa

Settembre 29, 2020 by guest in News

Io sono Giorgia, sono una donna, sono una madre, sono italiana, sono cristiana e ora sono anche a capo di un partito europeo. La notizia è fresca: Giorgia Meloni ha assunto la carica di presidentessa del Partito dei conservatori e dei riformisti europei, lo European conservatives and reformists Party o ECR Party.

L’aspirante lider maxima del sovranismo italiano, “Mrs. Blocco Navale” se preferite, diventa così la prima politica italiana a guidare un partito in ambito europeo. Una nomina importante e prestigiosa, dicono i meglio informati, una nomina che le aprirebbe scenari e contatti internazionali nell’ottica di una sua possibile leadership del centrodestra italiano. Salvini, insomma, è avvisato.

Cosa e chi rappresenti l’Ecr Party è facile da spiegare: collocato esattamente in mezzo tra il moderato Ppe e il raggruppamento più estremo del Parlamento europeo, a cui aderiscono Lega e il FN di Marine Le Pen, il partito della neo-presidentessa Meloni è euroscettico e vanta solidi rapporti con i Repubblicani statunitensi e il Likud israeliano. A nomina fatta, resta da capire per quale imperscrutabile arcano Giorgia Meloni si ritrovi a capo di un partito che “riconosce l’uguaglianza di tutti i cittadini davanti alla legge, indipendentemente dall’etnia, dal sesso o dalla classe sociale” e che “rifiuta qualunque forma di estremismo, autoritarismo e razzismo.”

Non per essere pignoli, ma se c’è stata una formazione politica che, almeno in Italia in questi ultimi anni, ha sistematicamente incardinato la propria comunicazione su razzismo, estremismo, intolleranza religiosa e disparità di genere per fini elettorali, quella è proprio Fratelli d’Italia a trazione meloniana.

Quanto all’improvvisa adesione della “madre cristiana” a valori quali “La libertà dell’individuo” che “include la libertà di religione e di culto” oltre alla “libertà di parola e di espressione” ci sarebbe di che eccepire, ma crediamo che sia alquanto evidente il nostro più completo scetticismo. Ammetteranno anche i suoi sodali più illuminati, che l’operazione di facciata che intende far passare Giorgia Meloni per una “moderata” non può che generare dubbi, perplessità e qualche sommessa risata.  

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