Alla ricerca della competitività: riformare il mercato del lavoro

La discussione sul salario minimo sta diventando, come al solito, una discussione chiacchiere e distintivo. Quando invece è lo specchio di Dorian Gray di una delle storture italiane. Quella del mercato del lavoro e della Competitività. L’Italia non è competitiva, ha una bassa produttività, ha un costo complessivo del lavoro alto, ha redditi dei lavoratori bassi, rispetto alla media europea, ha un incontro tra domanda di lavoro ed offerta nullo e gestito in maniera fallimentare dallo Stato. Introdurre senza altri mutamenti il salario minimo significa, per la massa di piccole e medie aziende, condannare l’Italia ad un innalzamento del lavoro nero. Si può introdurre il salario minimo solo a costo di limitare la contrattazione nazionale solo per particolarissime filiere, e passare a contratti d’area e aziendali, cambiando radicalmente il mercato del lavoro, oggi gestito da burocratici centri per l’impiego, facendolo gestire da soggetti privati. Bisogna favorire il supporto, più costoso ovviamente essendo a tempo determinato, del lavoro in somministrazione per i picchi aziendali e stagionali, e abbassare molto più incisivamente il cuneo fiscale. Tutto questo farebbe scomparire una coacervo di contratti pirata, organizzati da sigle sindacali fasulle, che generano le follie di contratti a 5 euro l’ora regolarmente assistiti da una contrattazione sindacale fittizia, come quella delle aziende di vigilanza finite sotto sequestro.

Le illusioni del salario minimo tra lavoro nero e povertà

Il vero lavoro da fare per recuperare salari dignitosi e competitività del sistema produttivo è questo. Riformare ideologicamente le istituzioni sociali preposte, organizzazioni datoriali e sindacati intellettualmente onesti. Il novecento se n’è andato da un pezzo, ma loro si sono fermati a schemi desueti, di rendite di posizione e non di evoluzione. La Meloni capisce che la sfida è più grande di quella del salario minimo, e non sentendosi pronta cerca di frenare da un lato, ma non abbandonare un tema che suscita consenso popolare. La Schlein, che non ha alcuna responsabilità di maggioranze e di governo, invece accelera, non aprendo un discorso di riforma più generale, che rischia di inimicargli Landini, suo azionista di maggioranza nel partito. Ma al Paese, alla sua produttività e dignità lavorativa complessiva, di tutti i lavoratori, non solo dei garantiti, chi ci pensa?