Costituirebbe un grave sintomo di strabismo politico considerare un diversivo il progetto di riforma della Costituzione approvato dal Governo Meloni. Al contrario, la proposta costituisce il compimento di un processo alimentato nei decenni, tanto dai governi di centrodestra che di centrosinistra, con la riduzione a un ruolo notarile delle assemblee elettive e la personalizzazione plebiscitaria delle responsabilità apicali di governo. Una architettura costituzionale sempre respinta dai referendum popolari, con una percentuale di partecipazione al voto significativamente superiore a quella delle scadenze elettorali nazionali e locali. Non si tratta di un processo interno all’evoluzione della cultura politica delle classi dirigenti del nostro Paese: esso si inscrive dentro la crisi dell’Istituto della Democrazia che interessa tutti i paesi che lo hanno praticato. Una crisi di cultura politica, una mancanza di ambizione a esprimere una visione e una soggettività proprie, una crisi che accompagna la deriva finanziaria dell’economia e il ruolo preponderante dei signori dei Big Data e le loro corporation.
Così, laddove le coordinate economiche dei singoli paesi sono definite dal Fondo Monetario Internazionale e dalle banche centrali, Giorgia Meloni, quella che ‘non ci saranno più governi tecnici’ e ‘giochi di palazzo’, si è preoccupata di assicurare gli istituti centrali con l’attribuzione di ministeri a Giorgetti e Tajani, in continuità con il governo Draghi. Dentro questi limiti costrittivi lo spazio di azione autonoma, accompagnato da una retorica appassionata, è quello relativo alla riorganizzazione dell’architettura costituzionale nazionale e alla sostituzione della nomenclatura partitocratica precedente per l’occupazione della articolazione istituzionale, amministrativa e nelle Partecipate. Il tutto dentro una autoreferenzialità partitica indifferente al distacco dei cittadini dalle istituzioni e dalla cosa pubblica, sia a livello locale che nazionale. Non è quindi paradossale che questa spirale vede i gruppi dirigenti della classe politica usare come leva di competizione elettorale il marketing populista, personalistico e plebiscitario. Con leggi elettorali incostituzionali che riducono i cittadini a spettatori e tifosi, senza il diritto e la responsabilità di selezione dei rappresentanti parlamentari, alla faccia della Legge Truffa del 1953 e del suo premio di maggioranza. Così, in luogo di mettere mano alle ragioni della degenerazione partitocratica, si è usato e proposto l’antipolitica come registro strategico per il consenso.
Dalla Roma Ladrona di Bossi al predellino dell’auto, in piazza San Babila, dal quale Berlusconi si propose come alternativa al Palazzo. Dal contrasto all’invasione degli immigrati al sovranismo nazionale nella competizione tra Salvini e Meloni, fino ai Vaffa Day e al Parlamento da aprire come una ‘scatola di sardine’ di Grillo e 5S. Non si tratta, perciò, di un diversivo rispetto a una politica che ha rovesciato ogni promessa e impegno elettorale: dalla sanità al territorio, dalla scuola alla innovazione. Il riduzionismo autoritario della riforma costituzionale costituisce il progetto politico portante della ridotta soggettività possibile per il centrodestra. E’ vero: si tratta dell’autonomia di azione nel cortile nazionale, ma la cosa ci riguarda tutti perché questo cortile è anche il nostro. La questione è importante, con esiti preoccupanti per la possibile compromissione della effettività della nostra democrazia parlamentare repubblicana. Guardando l’articolato della riforma proposta si evidenzia lo scambio tra centralismo nazionale e l’autonomia differenziata per le Piccole Patrie Padane. La cosa porta con sé l’ulteriore neutralizzazione del Parlamento e quella di ogni parlamentare eletto/nominato, eppure l’articolo 67 della Costituzione dice: “Ogni membro del parlamento rappresenta la nazione ed esercita le sue funzioni senza vincolo di mandato”, nonché la riduzione a una funzione notarile della Presidenza della Repubblica, altroché ‘garante’. Dove la politica e la sua classe dirigente non sono in grado di esprimere continuità di maggioranze e rappresentanza riconosciuta ci si affida all’ingegneria elettorale e all’architettura costituzionale. Una scorciatoia patologica e un sotterfugio deteriore.
Così l’articolo 3 modifica l’art. 92 della Costituzione:
“Il Governo della Repubblica è composto dal Presidente del Consiglio e dai Ministri, che costituiscono insieme il Consiglio dei Ministri. Il Presidente del Consiglio è eletto a suffragio universale e diretto per la durata di cinque anni. Le votazioni per l’elezione del Presidente del Consiglio e delle Camere avvengono tramite un’unica scheda elettorale. La legge disciplina il sistema elettorale delle Camere secondo i principi di rappresentatività e governabilità e in modo che un premio assegnato su base nazionale garantisca ai candidati e alle liste collegati al Presidente del Consiglio dei Ministri il 55 per cento dei seggi nelle Camere. Il Presidente del Consiglio dei Ministri è eletto nella Camera nella quale ha presentato la sua candidatura. Il Presidente della Repubblica conferisce al Presidente del Consiglio dei Ministri eletto l’incarico di formare il Governo e nomina, su proposta del Presidente del Consiglio, i Ministri.”.
L’articolo 4 modifica l’art. 94 della Costituzione:
A) Il terzo comma è sostituito dal seguente: “Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia. Nel caso in cui non venga approvata la mozione di fiducia al Governo presieduto dal Presidente eletto, il Presidente della Repubblica rinnova l’incarico al Presidente eletto di formare il Governo. Qualora anche quest’ultimo non ottenga la fiducia delle Camere, il Presidente della Repubblica procede allo scioglimento delle Camere.”;
B) dopo l’ultimo comma è aggiunto il seguente: “In caso di cessazione dalla carica del Presidente del Consiglio, il Presidente delle Repubblica può conferire l’incarico di formare il Governo al Presidente del Consiglio dimissionario o a un altro parlamentare eletto in collegamento al Presidente eletto, per attuare le dichiarazioni relative all’indirizzo politico e agli impegni programmatici su cui il Governo del Presidente eletto ha chiesto la fiducia delle Camere.”
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Diceva Mussolini: “Potevo fare di questa Aula sorda e grigia un bivacco di manipoli: potevo sprangare il Parlamento e costituire un Governo esclusivamente di fascisti. Potevo, ma non ho, almeno in questo primo tempo, voluto.” Ci hanno pensato i governi che si sono succeduti negli ultimi decenni. Il mantra mistificante della Meloni, per il referendum confermativo, è chiaro “garantire che governi chi è stato scelto dal popolo” con “stabilità” e non vengono toccati “i poteri del Capo dello Stato”.
O prepariamo il NO al referendum confermativo come volontà di attuazione costituzionale della cultura della cittadinanza condivisa e dei territori o saremo asfaltati dalla omologazione insofferente. Non basterà il contrasto nel merito per bocciare questa riforma, la democrazia si nutre della effettività e della responsabilità della partecipazione e della rappresentanza lungo tutta la sua articolazione istituzionale.
Il Titolo Quinto della Costituzione non è concretizzato: Città Metropolitane e Province non hanno poteri né organi eletti dai cittadini. La specifica sollecitazione congiunta della Camera del Lavoro e di Assolombarda è scivolata via, così come il Discorso alla Città del suo Arcivescovo Delpini. Così non è rispettata la sentenza sentenza 131/2020 della Corte Costituzionale che dà effettività alla sussidiarietà con la concretezza procedurale per la co-programmazione, co-progettazione ed accreditamento degli ETS-Enti del Terzo Settore. Così a Milano il Consiglio e i Municipi sono ambienti abilitanti per aspirazioni personali non organi con prerogative effettive ed efficaci. La libertà è la responsabilità della partecipazione non fare gli spettatori votanti all’X Factor delle tornate elettorali.