I limiti del “no” alla riforma costituzionale

La scelta della Buona Destra di costituire il Comitato per il No all’eventuale referendum confermativo della riforma istituzionale portata avanti dal governo Meloni ha due limiti. Il primo, sicuramente più banale, si dà per scontato, al di là di tutte le critiche espresse oggi, che la maggioranza dei due terzi, il governo, non la troverà in parlamento, obbligandolo a ricorrere al referendum e in politica mai dire mai.

Il secondo è che limitare la riforma costituzionale alla seconda parte dell’attuale, come fece il governo Renzi, oltre ad essere minimale e a non tener conto del contesto geo-politico di oggi, rischia di diventare un’arma di distrazione di massa che non permette di mettere a fuoco ciò di cui oggi si ha realmente bisogno: un nuovo patto fondativo della società italiana. In molte occasioni ho sottolineato che questo, per me, assume una rilevanza fondamentale, prima di ogni altra cosa.

Prima di entrare nel merito, occorre però, con coraggio, una volta per tutte, prendere una posizione netta rispetto all’attuale Costituzione e riconoscere senza mezzi termini che non è la più bella del mondo, ma quella possibile in quel contesto geo-politico del dopoguerra, per suffragare il compromesso cattocomunista imposto da quel momento storico. Io insisto su un concetto: quel patto ha posto le radici del populismo sovranista di oggi attraverso lo statalismo, la burocrazia, l’assistenzialismo, il giustizialismo, trasformando il nostro paese da liberare a criptosocialista. L’attuale Costituzione è la base su cui si è costituito quel compromesso.

Sicuramente è stato un lavoro non venuto male, ha dato coesione all’Italia del Novecento, ma oggi quel mondo non esiste più, c’è la necessità di andare oltre. Sotto i nostri piedi sta sedimentando una nuova epoca in cui da un lato c’è lo scontro tra liberalismo e illiberalismo, ma dall’altro la digitalizzazione e la globalizzazione rendono questa nuova epoca densa di opportunità. Sicuramente le garanzie si sono ridotte, ma in compenso fioccano nuove sfide e nuove prospettive. Cosa cambia? Tanto per non dire tutto: le garanzie ci venivano date, le opportunità dobbiamo prendercele. Cosa significa tutto ciò? La presa di coscienza di ciò che si desidera, di ciò che si vuole. È l’adozione di un nuovo atteggiamento fondato sull’esercizio del nostro potere, dove si passa dalla richiesta di garanzie all’esplorazione delle opportunità. Il bisogno non è più centrale, è il desiderio a prendere il suo posto. Il bisogno di avere delle garanzie avrà risposte sempre più blande; ciò che farà la differenza sarà sempre più il desiderio di cogliere le opportunità, liberando energie, intelligenza e intraprendenza.

Indubbiamente siamo più precari, ma più liberi di dare una direzione alla nostra emancipazione. Un tempo il lavoro si trovava e si perdeva, oggi, semplicemente, si cambia, ma è proprio dalla molteplicità e mutevolezza delle esperienze professionali che deriva una più potente possibilità di apprendimento continuo. In sostanza, si deve affermare una nuova figura di cittadino che sappia mettere il suo senso di responsabilità individuale a disposizione della società, che sappia guardare alle proprie aspirazioni prima che ai propri bisogni, superando la tentazione di lasciarsi andare a vuote recriminazioni nella consapevolezza che siamo in transizione, precari ma in crescita. Una figura di cittadino che consideri la propria emancipazione come un dovere verso se stesso e verso la comunità, facendosi così più protagonista del proprio percorso di vita, senza alibi, senza ricorrere a un nemico su cui scaricare ogni colpa.

La nuova carta Costituzionale, in quanto legge fondamentale dello Stato, deve valorizzare tutto ciò e dunque da quella società fondata sul lavoro che nel “46” aveva una sua logica politica e che oggi si è ridotta a banalità pura, occorre passare ad affermare una società fondata su tre elementi: individuo, merito, opportunità, definendo un nuovo e coerente equilibrio tra doveri e diritti. La centralità della persona dunque al di sopra di ogni logica egualitaristica, dove la disuguaglianza non è percepita come un problema in sé, ma come una irrinunciabile conseguenza naturale della libertà individuale e della diversità delle persone, concepita come arricchimento della società stessa. È il fondamento della società liberale a cui non si può più rinunciare in nome di una astratta “socialità”. A questo dobbiamo vincolare il fatto che l’Italia non può più essere solo antifascista, ma deve opporsi a ogni forma di totalitarismo politico e religioso, di cui l’antifascismo è solo una minima parte. Anzi, i “fascisti” dell’antifascismo che oggi vanno in piazza contro Israele, che riportano in superficie i cardini dell’antisemitismo, che vedono nell’Iran un “baluardo” contro non solo Israele, ma anche contro l’Occidente capitalista in generale, che vorrebbero, in nome di un finto pacifismo, che l’Ucraina smettesse di difendersi per la propria libertà e accettasse di sottomettersi a Putin, sempre in nome di quell’anti occidentalismo mai venuto meno, esprimono concetti che nel nuovo testo costituzionale devono essere fermamente condannati, in quanto lesivi del valore fondamentale della libertà e quindi, non conformi ad una società liberale, non possono avere diritto di cittadinanza. Una società liberale non può essere tollerante con tutto ciò che è illiberale. È chiaro che se questo diventa l’approccio con cui affrontare la riforma costituzionale, il premierato diventa un falso problema. Casomai, per il ruolo che sempre più ha assunto la presidenza della Repubblica in termini decisionali sui processi politici, il passaggio deve essere verso l’elezione diretta del Presidente della Repubblica, in quanto non solo garante della coesione sociale ma anche come incarnazione di un progetto politico. Sicuramente, in un quadro rinnovato del sistema partitico, esprimerebbe meglio il principio dell’alternanza alla guida del Paese. Certo è che i partiti che affondano le proprie radici nella storia, nella cultura e nella tradizione del Novecento difficilmente, se non impossibilmente, possono essere portatori di un reale processo di trasformazione del Paese. Tuttavia, questo non ci può esimere dal svolgere il nostro ruolo di innovatori.