Un piano di azione per ricostruire. E ridare speranza all’Italia
Un mese e mezzo fa le nostre vite si sono fermate ma non sono finite. Quello che oggi serve al nostro Paese è un messaggio chiaro di speranza: superare la emergenza sanitaria, imparare a convivere con il virus cambiando strategia di contenimento, rilanciare la nostra economia. È l’obiettivo di RICOSTRUIRE, il Piano di azione che abbiamo creato con un gruppo di liberi professionisti, di imprenditori ed accademici per far ripartire, gradualmente e in sicurezza, l’Italia. Sul sito www.ricostruireitalia.it trovate già le proposte del Piano e altre ne arriveranno, da parte di chi vuol mettere la sua competenza al servizio della comunità.
Torneremo al lavoro, i nostri ragazzi torneranno a scuola, ci riprenderemo la nostra vita senza abbassare la guardia contro il Covid-19. Per superare la emergenza serve individuare i contagiati, le persone a rischio, proteggere chi lavora. Lo abbiamo detto molte volte. Non basta il lockdown deciso dal Governo. Ma dobbiamo avere ben chiaro che il Paese per ripartire dovrà cambiare, profondamente. Non solo garantendo liquidità alle imprese e ai settori che hanno pagato di più la serrata ma con una svolta normativa che eviti una catena di fallimenti e che rilanci l’economia.
Bisognerà ridurre le tasse sotto il 40 per cento, abbattere i vincoli della burocrazia più oppressiva, liberarci dal peso di tutto quello che può bloccare gli investimenti infrastrutturali e rendere poco attrattivo il nostro Paese per gli investitori. Servirà un grande investimento nella ricerca scientifica e rendere più efficienti i processi di trasferimento tecnologico. Tante cose dovranno cambiare.
Vi invito a sottoscrivere la petizione che abbiamo pubblicato su Change.org (qui: http://chng.it/qhGBDmHpD2). È rivolta non solo al presidente del consiglio Conte e alla task force di Vittorio Colao ma a tutti gli italiani che lavorano in prima linea sfidando il virus, alle persone che senza falso ottimismo continuano a vivere e a lavorare dietro le porte chiuse, nella vita domestica, mostrando ancora una volta quello che sapevamo, di essere un popolo forte e generoso che non si arrende. Serve organizzare l’impegno, la determinazione e le capacità degli italiani.
Ma tutto avrà senso solo se riusciremo a cambiare le cose: dobbiamo rinnovare il nostro Paese facendo tutto quello che una classe politica incapace non è stata in grado di fare per anni, e garantire nello stesso tempo sicurezza e coesione sociale. Il modo in cui supereremo la emergenza Covid-19 segnerà il nostro successo o fallimento come Paese. #RICOSTRUIRE
Il coronavirus depotenzia le armi comunicative del populismo di destra
Le identità politiche si basano storicamente e sostanzialmente sia su dinamiche di affermazione di valori e credenze comuni, quindi sulla definizione positiva di un “noi”, sia sulla identificazione netta e chiara di un soggetto, o più soggetti, che sono profondamente diversi da quel “noi”, trattandosi, quindi, di una definizione in negativo di un “loro”. Questa dicotomia e la relativa progressiva definizione dei suoi confini e delle sue forme, rappresenta la struttura portante delle narrazioni, anche controverse, che compongono e occupano lo spazio pubblico: noi-loro, eroe-nemico. All’interno di un sistema politico democratico, le narrazioni volte a coinvolgere i cittadini e ad ottimizzare il consenso elettorale tendono ad estremizzare queste opposizioni, attribuendo al naturale processo di differenziazione identitaria un valore non soltanto definitorio dei limiti del “noi”, ma anche accusatorio della natura e del pericolo insito in quel “loro” che è descritto più come nemico che come legittimo avversario politico.
Nel corso degli ultimi anni alcune forze politiche con identità e caratteri populisti e sovranisti, hanno da un lato, ristretto e ridotto quel “noi” nel quale si identificano; dall’altro, hanno aumentato il numero di quei “loro” che interpretano come pericolosi nemici e con i quali si relazionano in termini altamente conflittuali: gli immigrati, le istituzioni europee, i poteri forti, ma anche gli intellettuali, i professoroni e così via.
La narrazione costruita su questo elemento di forte conflittualità è caratterizzata da toni sempre più violenti, atteggiamenti di radicale disconoscimento dell’altro, tendenza ad una estremizzazione della semplificazione della complessità contemporanea, sostituzione del buon senso con il senso comune, che non è necessariamente sempre buono. Contesti narrativi e comunicativi che esasperano la definizione del nemico trasformandolo nell’unico elemento di riconoscimento reciproco all’interno di una parte politica. La forza trascinate e discutibile del populismo è proprio in questa capacità di individuare alcuni nemici e veicolare contro di essi la frustrazione e l’insicurezza diffuse di tempi incerti. Fin qui il nemico è stato descritto e raccontato come tanto distante fisicamente e idealmente da “noi”, da trasformarsi in oggetto e non più soggetto, si pensi agli immigrati, così come ad altre popolazione europee interpretate come nemiche dell’Italia. I soggetti istituzionali sono per loro stessa natura percepiti come distanti e indifferenti ai bisogni concreti di individui e comunità, in questo caso la narrazione populista non ha fatto altro che rafforzare questa percezione lanciando su questo genere di nemico le violente accuse di un attacco quotidiano.
Il tempo sospeso che viviamo in questo periodo a causa dell’emergenza sanitaria ha trasformato piuttosto rapidamente la natura e i limiti del “noi”. Il nemico non può più essere identificato in altri “loro” perché improvvisamente contro un nemico non umano il “noi” è diventato assoluto e generale. Il nemico reale e narrativo della comunicazione pubblica è oggi universalmente riconosciuto da un “noi” che si sovrappone al genere umano, depotenziando tutte quelle narrazioni politiche che avevano fatto della guerra contro l’altro, nemico e pericoloso, la loro forza attrattiva e la loro unica strategia comunicativa. Il Coronavirus sta modificando la natura di alcune forze politiche, privandole del loro potere suggestivo e condizionante che raffigura soltanto lo scontro e l’avversione per alcuni, identificati come nemici assoluti. D’altra parte le persone tendono a recuperare un livello di intollerabilità rispetto a posizioni violente e aggressive, espresse anche solo attraverso il linguaggio e nei modi di relazionarsi all’interno dello spazio pubblico.
Forse dopo questa emergenza non riusciremo comunque a riscoprire il senso vero e profondo della comunità che non è chiusura e esclusione, ma al contrario è apertura, inclusione e riconoscimento dell’altro. Ma certamente la sensibilità collettiva rispetto ad alcuni temi sarà tanto aumentata da costringere le forze politiche più aggressive e intolleranti a rimodellare non solo il proprio stile comunicativo, ma la struttura stessa delle narrazioni con le quali costruiscono e rafforzano la relazione di fiducia con i propri simpatizzanti e elettori.
La buona destra tra democrazia e capitalismo
Nei tempi in cui anche l’emergenza mondiale sembra assumere le vesti ordinarie della quotidianità, ancor più si avverte la percezione diffusa che la democrazia rappresentativa possa esser diventata un meccanismo obsoleto solo capace di generare una classe dirigente “scomposta e composta” da incompetenti e corrotti.
Diffusamente quindi si avverte una insoddisfazione generale che non a torto attribuisce le responsabilità del mal vivere alla politica fino però purtroppo a mettere in discussione l’istituzione democratica.
Questa politica ha ingenerato il convincimento che solo il mercato possa garantire il benessere dei cittadini. Il mercato è diventata la divinità pagana a cui la politica prona offre sacrifici umani pronta a riceverne i vaticini economici.
Questa politica ha dato il primato all’economia sopratutto per nascondere la propria inettitudine e vigliaccheria.
Con i numeri ha trovato la ragione dei tagli alla sanità, all’istruzione, al sistema sociale, alle libertà individuali.
Ecco che allora proprio per queste ragioni diviene sempre più centrale il tema di una democrazia che metta da parte i numeri e ribadisca la centralità de “l’uomo”.
L’individuo della buona politica e della rinnovata democrazia contro l’individualismo economico della cattiva politica.
In tutto ciò la buona destra in Italia diviene la parte centrale di questo necessario processo di rinnovamento della democrazia.
Una buona destra che si oppone con veemenza, una volta per tutte, a quella Italica tentazione di aspettare il prossimo “uomo della provvidenza” e che riesce a promuovere una partecipazione attiva dal basso, inaugurando processi di alfabetizzazione democratica per un voto informato e consapevole.
La buona destra deve essere centrale nel riconsegnare il futuro alla democrazia.
Sognavo il Risorgimento, solo oggi scopro la passione civile dell’Italia che amo
Ho sempre pensato che avrei preferito nascere in un’altra epoca. Finalmente avverto il senso di impegno e coraggio di un risveglio
“Siamo in guerra”. “È un bollettino di guerra”. “Come in guerra, si decide chi curare e chi lasciar morire”. Sono le frasi che caratterizzano questi nostri strani giorni, che ascoltiamo e riascoltiamo, leggiamo e rileggiamo; giornali, televisioni, social. Siamo in guerra. E chi di noi un periodo di guerra militare non l’hai mai vissuto, chi in una guerra fatta con le bombe non c’è mai stato — e siamo in tanti — anche non potendo permettersi di paragonare ansie, paure e stati d’animo, credo che in guerra si senta. Ansie, paure e stati d’animo sono quelli di un popolo in guerra.
Ho sempre sostenuto che avrei preferito nascere in un’altra epoca. Forse, un po’, avrei anche dovuto nascere in un’altra epoca. Perché a volte mi sento fuori moda, anacronistica, superata. Per quel senso di appartenenza spiccato, quell’amor di Patria che me lo sento sulla pelle e nell’anima in forma di brividi e di magone allo stomaco allo sventolare del Tricolore, alle note dell’Inno di Mameli, alla notizia di un italiano che ce la fa, ancora, a rappresentare un’eccellenza davanti agli occhi del mondo intero. Per quella nostalgia per un’Italia che in fondo non ho conosciuto che sui libri di Storia, tutta impegno e passione civile, tutta responsabilità e audacia. Avrei voluto nascere all’epoca del Risorgimento o della Seconda guerra mondiale per combattere e costruirla o ricostruirla la nostra Patria. Avrei voluto avere 20 o 30 anni negli anni 70, per poterla ridisegnare ed emancipare la nostra Nazione. Avrei voluto venire al mondo in un’epoca che mi permettesse di avvertire la sensazione di vivere per un obiettivo più grande di me, per un fine più nobile di me, per uno scopo più alto di me. In un’epoca che mi consentisse di correre il rischio di finire anche impiccata, fucilata per la salvezza del mio Tricolore e della mia terra. Un’epoca di risveglio di coscienze e dignità di patria, di orgoglio e coraggio.
A tratti, quando sono arrabbiata con l’Italia e gli italiani, che troppo poco spesso ricordano di essere un popolo da trattare con rispetto, sono arrivata a dichiarare che avrei voluto nascere negli Stati Uniti per vivere da americana l’11 settembre, l’unico evento della nostra Storia contemporanea — che ricordi — che ha risvegliato le coscienze, che ha consentito alla mia generazione di percepire la sensazione di vivere per un obiettivo più grande, per un fine più nobile, per uno scopo più alto. Tutti insieme. Ma oltre Oceano. E invece sono nata nella prima metà degli anni 80, e 30 e più anni li ho ora. Nell’epoca della pandemia da Coronavirus. La mia epoca di guerra, la sto vivendo ora. Chiusa nelle quattro mura della mia casa eppur al fronte. Senza combattere con le armi, eppure silenziosamente e pacificamente agguerrita contro un nemico che voglio uccidere. Perché la sua morte significa la mia vita. E oggi avrei potuto avere 10-20-30-40-50-60-70-80-90 anni, al fronte ci sarei stata comunque, in prima linea mi ci sarei sentita comunque. Perché questa è una guerra che combattiamo tutti, ciascuno a modo suo e per quel che può. Oggi siamo tutti in prima linea. Lo sono i medici, gli infermieri e tutto il personale sanitario, ai quali è chiesto un impegno indefesso e costante. Epico e valoroso. Sono loro gli eroi della nostra guerra. Lo sono gli scienziati, ai quali è chiesto di lavorare forsennatamente per capire le caratteristiche e, soprattutto, le evoluzioni di questo virus sconosciuto e giungere nel più breve tempo possibile a tirar fuori un vaccino che possa mettere fine a questo strazio.
Lo sono i politici, ai quali è chiesto di gestire una fase di crisi che non ha precedenti nella storia democratica. Hanno sbagliato, esitato, sbaglieranno ed esiteranno ancora, perché imporre quarantene e restrizioni della libertà ad un popolo come quello italiano, parte integrante del mondo occidentale, che per quelle libertà ha combattuto a costo della vita non è decisione facile da prendere. E per quanto si possa essere critici — e lo sono stata, oh se lo sono stata anche io — questo è il momento di obbedire e ascoltare, di collaborare ed eseguire. Verrà il tempo per valutare e presentare conti. Per provare a migliorare una classe dirigente politica che in tante occasioni si è mostrata non all’altezza delle aspettative, che ancora oggi, nel bel mezzo di una catastrofe mondiale, in larga parte della sua schiera, continua a manifestare inconsistenza e opportunismo, a pensare al suo becero tornaconto elettorale, rischiando di distruggere quel senso di responsabilità e di comunità tanto faticosamente costruito e enormemente necessario. Senso di responsabilità e di comunità dal quale, ipocritamente, dichiara di essere mossa.
Ma lo siamo anche noi. Anche a noi è chiesto di combattere e resistere. Certo comodamente seduti sui divani di casa. Eppure senza l ’impegno di ciascuno di noi, lo sforzo eroico di chi cura, studia e gestisce non ha ragione di essere. Senza il mio giusto e costante operato, l’operato di chi mi sta accanto diventa vano. È una strana guerra quella che ci troviamo a combattere, di quelle che innalzano lo spirito civico di una comunità oltre ogni limite umano immaginato, che esaltano il senso di responsabilità come poche volte credo sia accaduto nella storia. Perché è una guerra che nessun manipolo di soldati, nessuna élite di illuminati può vincere senza la partecipazione di tutti. Siamo in guerra, se per guerra intendiamo un evento storico che mette a soqquadro l’intera esistenza del genere umano, che stravolge qualsiasi abitudine, che chiama tutti ad adoperarsi e combattere per il fine più alto che possa esistere: la sopravvivenza. Ed è una guerra che ha modificato tutti i nostri parametri, non solo le nostre abitudini. Quelle ritorneranno, presumibilmente, uguali a prima, negli automatismi che le contraddistinguono. Le nostre priorità, mi auguro e credo, no.
Mi auguro e credo che questa guerra ci insegnerà l’importanza di una chiacchierata con un amico, guardandolo negli occhi e non nascosto dentro sterili messaggini inviati dallo schermo di un telefonino. Di una cena o un aperitivo per il piacere autentico di condividere un momento con chi ci aggrada e non per postare una storia su Instagram. Di una dimostrazione di affetto, autentica reale concreta tangibile quando necessaria, quando un nostro caro ne ha profondamente bisogno. Di un attimo di pausa, da dedicare a dettagli e piccolezze che non vediamo o fingiamo di non vedere intenti come siamo a correre e essere perfetti. Costretti a stare in casa e a non mostrarci immersi in una quotidianità costruita ah hoc per essere mostrata, ci ricopriamo più consapevoli della nostra quotidianità vera, concreta, reale. Di ciò che abbiamo e non di ciò che artificiosamente mostriamo di possedere. Ci riscopriamo più consapevoli di ciò che siamo. E forse non ci dispiace così tanto.
Nella solitudine delle nostre case, siamo felici di ritrovare o siamo costretti a ritrovare il giusto ordine delle cose. A ristabilire priorità e attribuire postazioni nella classifica della nostra vita. L’assurdità della situazione che viviamo ci restituisce un’immagine delle nostre vite che non conoscevamo. Ci permette di sperimentare una ricchezza interiore che non sospettavamo più di avere. Riscopriamo piaceri semplici che avevamo accantonato a favore di una frenesia spesso superficiale e ancor più spesso autoimposta senza nemmeno sapere perché. E mentre riscopriamo il piacere di trascorrere ore, e dico ore, a giocare con una bambina che conosce la gioia di organizzare il suo angolo di asilo sul balcone di casa inondato dal sole; l’appagamento di dedicare tempo, energie e interesse sconsiderato per la difesa della vita di quei genitori così fragili di fronte al virus che ci attacca; la gioia di sedersi ogni santo giorno, tutti insieme, intorno ad una tavola per sentirsi davvero famiglia, il bollettino delle 18 ci ricorda quanto vicino stiamo andando a perdere tutto ciò che faticosamente abbiamo costruito e ciò che solo ora improvvisamente abbiamo riscoperto. Muoiono persone, un bollettino di guerra costantemente aggiornato in diretta televisiva. Che ci sorprende impauriti, disorientati, terrorizzati, doloranti. Spesso impotenti. Eppur combattiamo.
Una guerra difficile, ancor più difficile per una generazione come la nostra non abituata ai sacrifici, raramente costretta a lottare per ottenere qualcosa. Una guerra infima contro un nemico invisibile che può essere ovunque. Che ci costringe a stare lontani, a sospettare, ma a resistere grazie alla forza che ci infonde il sapere che ciascuno di noi sta compiendo lo stesso gesto. La pandemia da Coronavirus ci ha riscoperti fragili, umani. Ma ci ha riconsegnato un coraggio che forse non sospettavamo nemmeno più di possedere. Un coraggio figlio della paura, certo. Un coraggio nato dalla necessità, certo. Ma il coraggio è spesso figlio della paura. Nasce spesso dalla necessità. Momenti di sbandamento ne abbiamo avuti. Di strafottenza, di vigliaccheria, di ignoranza. Ma ora leggo i giornali che ci riportano le cronache di un’Italia diversa e composta.
Ascolto le parole dei miei amici che si fanno forza e compagnia l’un l’altro, seppur a distanza. Sento la sofferenza determinata di mia madre che riesce a resistere chiusa in casa, nonostante l’insofferenza. Guardo le immagini delle strade delle nostre splendide città ormai vuote sebbene illuminate da un sole alto e invitante. Sento l’Inno d’Italia echeggiare dalle finestre spalancate e vedo il Tricolore sventolare ai balconi delle case. E quel senso di comunità, quello spirito di responsabilità, finalmente li sento. Quell’Italia tutta impegno e passione civile, tutta responsabilità e audacia finalmente la vedo. Quell’epoca di risveglio di coscienze e dignità di patria, di orgoglio e coraggio finalmente la avverto come reale e presente. Quella sensazione di vivere per un obiettivo più grande di me, per un fine più nobile di me, per uno scopo più alto di me finalmente la avverto. È una guerra che ci cambierà e logorerà, ma che lentamente e compostamente stiamo combattendo. E, sono certa, ce la faremo. Andrà tutto bene. Oggi, se ci penso, sarei voluta nascere esattamente nel 1983 in Italia.
Conoscere le ragioni degli egoismi e saperle superare: così si costruisce la solidarietà Europea
Leggere di Salvini che esalta l’eutanasia del Parlamento ungherese perché ha votato a larga maggioranza i pieni poteri al suo amico Orbán, vedere lo spettacolo del vicepresidente della Camera dei Deputati Italiana, esponente di FdI, rimuovere la bandiera dell’Unione Europea dall’asta e riporla “per ora” nel cassetto, compiendo un atto gravissimo di vilipendio ad una entità istituzionale di cui l’Italia è parte essenziale, copiato da decine di sindaci italiani, leggere sui social affermazioni di odio e disprezzo nei confronti dei partner europei, evidenzia le vere intenzioni della Destra sovranista italiana di strumentalizzare il confronto sugli eurobond per l’emergenza covid-19, per rafforzare la strategia cinica e perdente fondata sull’Italexit.
Un grave errore, non solo perché esaspera il rapporto con i Paesi del Nord, ma anche perché non considera che le ragioni del loro dissenso sugli eurobond sono di duplice natura e cioè la prima riguarda la tradizionale inaffidabilità della gestione della finanza pubblica di alcuni Paesi del Sud Europa, tendenti a utilizzare il debito pubblico a scopi clientelari ed elettorali, la seconda è l’assenza di una strategia compiuta di gestione delle risorse da utilizzare con gli stessi eurobond. Riconoscere queste riserve non vuol dire che hanno ragione, ma che occorre, piuttosto di insultare, cercare le giuste modalità per affrontare questi due aspetti, altrimenti non ci potrà essere alcun accordo e l’Unione Europea può rischiare l’implosione.

Per trovare una intesa, innanzitutto bisogna chiarire che l’Europa, a parte l’imperdonabile gaffe della Lagarde, ha sin da subito fatto tutto ciò che era possibile fare per onorare la solidarietà tra Paesi europei. Quando, con l’intervista della Von der Leyen del 21.03.2020, furono evidenziati da parte della BCE lo stanziamento di ben 1.120 miliardi di € per impedire speculazioni sullo spread, altri 1.800 mld di € per sostenere il credito a famiglie e imprese e soprattutto, da parte della Commissione Europea, la sospensione a tempo indeterminato del patto di stabilità, cosa mai fatta in precedenza, per giorni i sovranisti sono rimasti silenziosi e quasi annichiliti. Ma, non appena il Consiglio Europeo ha rinviato la decisione sugli eurobond, immediatamente è scoppiata la canea delle critiche e degli insulti.
Non è parso vero a chi fa politica con la demagogia trovare l’occasione per ribaltare un fatto di sostanziale solidarietà e trasformarlo in un falso abbandono degli italiani al loro destino. Se a ciò si aggiunge che il governo italiano non ha immediatamente attivato le consistenti provvidenze già autorizzate dall’UE, ed è conseguentemente esplosa la protesta sulla mancanza per molti cittadini di risorse per la sopravvivenza, ecco spiegata la strategia del cinismo, finalizzato a rompere e non ad aggiustare il rapporto con l’Europa. Ma qualcuno ha mai provato in Italia a vedere le contraddizioni delle politiche di alcuni Paesi del Sud Europa, dal punto di vista dei paesi del Nord? Il fatto di avere subito l’ingresso della Grecia nell’eurozona grazie ai bilanci dello Stato falsificati per anni? O di apprendere l’incredibile creatività delle pensioni greche, concepite per dispensare soldi a chiunque, senza collegamento con alcuna contribuzione? Ovvero assistere alle allegre politiche finanziarie dei governi italiani, in perenne ritardo sulle riforme di risanamento del bilancio (la riforma delle pensioni la Germania l’attuò nel 2002, l’Italia solo nel 2011, salvo poi introdurre la deroga di quota 100), o gli 80 € di Renzi e le ipocrite battaglie per strappare le “flessibilità”, che altro non erano che autorizzazioni a creare ulteriore debito pubblico a scopi elettorali? Tutto ciò ha costituito o no motivi di fastidio che hanno avvelenato la natura di una convivenza che non è stata vissuta dagli europei del Nord in maniera paritaria?
Ecco perché a tutti i costi occorre che almeno sul piano delle regole questa volta e per il futuro ci sia chiarezza e non si conceda spazio a furbizie e speculazioni di alcun tipo. Non giova quindi a nessuno un dibattito in cui esponenti politici propongano di distribuire 1.000 € a testa al mese a chiunque e senza criteri, ovvero come ha fatto Salvini di stabilire che occorrono almeno 200 mld di € per il rilancio dell’economia. Perché non 300 o 150 mld? A già, perché c’è un “almeno”, il che vuol dire che intanto partiamo con questi e poi si vedrà, senza limiti ma soprattutto senza alcuna idea di quanto sia in effetti il vero fabbisogno. Qualcuno può pensare che questa sia una base ragionevole di trattativa? O piuttosto non appare una conferma dei comportamenti demagogici e irresponsabili del passato? Ma soprattutto è un comportamento da statisti responsabili che sanno che l’economia deve ripartire ad ogni costo, ma non in maniera casuale e con finanziamenti a pioggia, ma bensì mirati e funzionali alla ripresa?
Ecco perché è profondamente sbagliato ragionare confondendo gli interventi per l’emergenza, che sono assistenza sanitaria e finanziaria per garantire la sopravvivenza nel momento difficile della quarantena, e gli interventi per la ripresa, che comportano innanzitutto la conoscenza dei tempi esatti del blocco dell’attività, la cui durata incide sui costi, che variano da settore economico a settore economico, e quindi da una rigorosa quantificazione delle risorse necessarie a garantire il rimborso dei danni subiti e le risorse necessarie per ripartire. La soluzione che garantirebbe tutti è quindi che alla prossima riunione dell’Eurogruppo si definisca l’accordo formale dell’impegno sull’emissione degli eurobond, per affrontare insieme lo strategico tema della ripresa economica, subordinandone la quantificazione alla definizione di un piano di costi e risorse necessarie, settore per settore, con controlli efficaci sull’andamento e attuazione della strategia. Solo così si può salvare l’Unione Europea, la cui implosione e il cui fallimento nel rilancio dell’economia colpirebbe senza distinzione tutti i Paesi, sia del Nord che del Sud. Infatti la Germania e gli altri Paesi del Nord, con metà Europa incapace di riprendere velocemente l’attività produttiva, come farebbero per gli approvvigionamenti e a quali mercati si rivolgerebbero? La ripresa dell’economia o è continentale, o tutti ne subiranno le conseguenze, primo fra tutti l’euro che si difende solo se tutti i Paesi che lo hanno adottato ritorneranno alla piena produttività e non certo con le misure di austerity fini a sé stesse.
Ecco perché non ha senso, al di là dei beceri calcoli elettorali dei noti seminatori di odio, la polemica tra europei, che invece devono capire che per eliminare una volta per sempre queste spiacevoli incomprensioni, che nessuna lettera di scuse potrà mai superare, l’unica soluzione è riprendere e completare il processo di costituzione della federazione degli Stati Uniti d’Europa e creare quell’Europa Nazione a tutela di tutti i popoli finalmente uniti del vecchio continente, puntando al patriottismo Europeo, che è l’unico sovranismo che merita di essere celebrato e condiviso.
Emergenza Covid-19, quali sono i limiti dell’Unione Europea?
Ora che il principale pericolo è passato, dopo la frana della gaffe della presidente della BCE Lagarde, che era riuscita nella operazione impossibile di negare con una sola battuta il ruolo e la funzione di una istituzione finanziaria il cui compito principale è esattamente quello di vigilare sulla stabilità dello spread sui titoli del debito pubblico dei Paesi dell’Euro Zona, ovviamente insieme ai rispettivi governi, e che tutte le istituzioni UE hanno preso le decisioni giuste in merito agli interventi per contrastare l’epidemia del Covid-19, non solo sotto il profilo sanitario, ma anche sotto quello economico e sociale, sembra il momento di affrontare con serenità e determinazione il perché l’attuale impianto europeo appare così traballante, tanto da evidenziare ad ogni accenno di difficoltà fenomeni di possibile disgregazione.
Un indizio significativo emerge dalla intervista della presidente della Commissione UE Von der Leyen rilasciata al Corriere della Sera del 21 marzo scorso. Una intervista in cui riassume i provvedimenti presi, in pratica 1120 miliardi di euro per garantire la liquidità a tutti i Paesi dell’Euro Zona, più 1800 miliardi di euro per nuovi crediti a famiglie e imprese, la sospensione a tempo indeterminato delle regole del “Patto di Stabilità”, che smontano definitivamente ogni argomentazione strumentale dei sovranisti in servizio permanente effettivo, e perfino la possibilità dell’adozione di coronavirusbond europei, per evitare di fare pesare l’indebitamento contro l’epidemia sul debito pubblico dei vari Paesi, specie di quelli come l’Italia, la Grecia e la Spagna con problematiche di eccesso di esposizione debitoria. Una dichiarazione limpida sulla convinta decisione di operare per “fare qualunque cosa” e senza limiti di tempo per evitare speculazioni sull’euro e una recessione economica che l’epidemia, senza interventi di questa imponenza, avrebbe certamente provocato, con ulteriori devastazioni sociali per l’intera Europa.
Una azione che certamente spazza via ogni residua riserva sulla solidarietà tra europei, fino a quel momento messa in dubbio dai silenzi e dalle mancate assunzioni di responsabilità delle autorità dell’UE. Perfino il MES rischia di essere recuperato in positivo, specie se diventerà la fonte di finanziamento dei coronavirusbond, ovviamente senza l’applicazione delle condizioni al momento previste per i suoi interventi. Uno scenario soddisfacente? Pare di no, perché invece c’è un passaggio dell’intervista rivelatore di una carenza non più occultabile e cioè la mancata risposta alla domanda dei cronisti: “Nel fronteggiare le emergenze, quella migratoria prima e ora la pandemia, l’Unione sta dimostrando i limiti di una costruzione mai finita, a quale strategia sta pensando per unire finalmente le forze?”.

Il totale silenzio della risposta sulla strategia non è un limite della signora Von der Leyen, ma purtroppo dei paesi europei, che hanno lasciato incompiuto un impianto istituzionale con ambizioni molto più alte e, come un palazzo in costruzione non ultimato ma abitato, con difficoltà enormi da gestire e con tanti inquilini insofferenti, che magari sognano di traslocare. Ma perché tutto ciò? Qual è il male oscuro di un’Europa che ebbe la razionalità, all’indomani della seconda guerra mondiale, dopo l’ennesima carneficina degli ultimi tre millenni, di capire che non si poteva più andare avanti in questo modo e che occorreva avviare una cooperazione tra tutti i popoli europei per scongiurare il ripetersi di tali tragici e ciclici eventi? Così nacquero i primi timidi impianti europei come la CECA e la CEE, fino alla Costituzione Europea. E fu questo il momento in cui esplosero le contraddizioni e gli egoismi che consentirono in alcuni referendum nazionali indetti per l’approvazione della costituzione il suo fallimento. A 54 anni di distanza dalla fondazione della CECA, ancora una volta si registrò la vittoria degli egoismi nazionali, ma in un contesto storico dove a dominare il mondo c’era un’unica super potenza, gli USA di cui l’Europa, nelle sue articolazioni nazionali, era alleata. Poteva starci, anche se era sbagliato rinunciare al processo di edificazione di una entità federale di stati europei.
Ma da allora com’è stata l’evoluzione del pianeta in termini di geopolitica e super potenze? L’esplosione del terrorismo islamico, l’affacciarsi della Cina prima in Africa e poi in Europa con l’acquisizione impressionante di asset strategici, ed anche della Russia, con la sua politica aggressiva e le sue sfere d’influenza nel Medio Oriente, in Africa e nel comparto energetico, la presenza dopo cento anni dei Turchi in Tripolitania e dei Russi in Cirenaica, e l’assenza di qualsivoglia ruolo internazionale dell’Europa, bullizzata dagli USA con la gestione Trump e immobilizzata dagli interessi nazionali dei vari paesi che la compongono, nessuno dei quali ormai nelle condizioni di poter svolgere con credibilità qualsivoglia ruolo internazionale, hanno portato di conseguenza ad un mondo ormai sotto il controllo dalle tre potenze USA, Russia e Cina che hanno approfittato dell’auto emarginazione dell’UE.
Questo è il male oscuro dell’Europa, che il Covid-19 ha messo definitivamente in luce. L’Europa non è in difficoltà perché ha l’Unione Europea degli egoismi nazionali che soffre di un eccesso di potere, e quindi hanno torto le analisi dei sovranisti che rivendicano maggiori ruoli agli stati nazionali, ma esattamente il contrario e cioè la mancanza di un governo federale Unito, un Parlamento che faccia leggi e prenda decisioni politiche, un solo esercito e leggi e gestioni uniche dei settori strategici come la sicurezza, la sanità, il fisco, il credito, il welfare e la difesa nel mondo degli interessi europei e, quindi, l’esigenza di una entità federale che si segga al tavolo delle super potenze per rivendicare il posto che le spetta di diritto.
Questa è l’unica vera sovranità che conta, il patriottismo della ritrovata identità europea, con la quale ogni popolo del vecchio continente può esprimere il meglio di se, nell’assoluta parità garantita dalla piena cittadinanza, che è sancita dal diritto di eleggere le comuni istituzioni rappresentative. Il futuro non può essere la conferma dell’UE perché così com’è è del tutto inadeguata, ma solo la ripresa del processo di costituzione degli Stati Uniti d’Europa. Al di fuori da questo contesto l’unica libertà che resta ai Paesi europei che volessero insistere in una visione passatista e superata di egoismi nazionali, è solo quella di poter scegliere l’impero di cui vogliono diventare colonia, ed in questo senso alcuni sovranisti di casa nostra pare che già si siano portati avanti.
Covid-19, tutti gli errori dell’Italia (col senno di poi)
“Lo sapevo, ve l’avevo detto!”, una volta che gli eventi sono accaduti è sempre esercizio facile. Nonostante ciò si può imparare da quello che si è rivelato sbagliato finora. Stiamo vivendo un tempo imprevisto e maledetto. Non eravamo preparati, neanche lontanamente, ad affrontarlo, così presi da non-notizie (ir)rilevanti. L’analisi di Luigi Di Gregorio, politologo e autore di “Demopatia. Sintomi, diagnosi e terapie del malessere democratico” (Rubbettino)
Col senno di poi è tutto più facile, lo sappiamo. È un errore di ragionamento retrospettivo che commettiamo tutti, si chiama hindsight bias. In italiano, esattamente “bias del senno di poi”. In breve, è quello che ci fa pensare di aver saputo o capito sempre tutto prima degli altri: “Lo sapevo, ve l’avevo detto!”, ma solo una volta che gli eventi sono accaduti. Tuttavia, esiste anche un proverbio che dice “del senno di poi, son piene le fosse”. Saggezza popolare…
Faccio questa premessa prima di tutto per me stesso. Come tutti, in questi giorni sto cercando di mettermi nei panni di chi ha il potere e l’onere di decidere delle nostre vite, della nostra libertà, della nostra salute (anche mentale). Per comprendere appieno certe situazioni complesse, bisogna viverle. E nessuno di noi le sta vivendo nella “situation room”, in quella stanza dei bottoni governativa che ogni giorno deve valutare e decidere il da farsi, sotto pressione emotiva, psicologica e temporale. Alcuni di noi, però, hanno vissuto in passato quelle dinamiche, quei ritmi, quelle tensioni all’interno della stanza dei bottoni. Non per un evento del genere – è di fatto inedito – ma per situazioni di crisi o di emergenza che comunque generano risposte e avviano processi simili.
Io sono tra questi. Proprio per questa ragione cerco di “mordermi la lingua” tante volte, di evitare una valanga di post critici e tutta una serie di “ve l’avevo detto!”. Perché è troppo facile. E perché mi rendo conto della complessità insita nella gestione di una crisi di tali proporzioni.
Tuttavia, un po’ di cose si possono dire. Sia in termini di decisioni politiche, sia di strategia comunicativa (se di strategia si può parlare, in una fase carica di improvvisazioni anche obbligate).
Sulle prime, tuttavia, non ho gli elementi che posso avere sulle seconde e dunque mi limito a sottolineare solo alcune cose. La prima è che stiamo vantandoci di un “modello Italia” che forse tanto modello non è. Lo dicono, amaramente, i dati sui contagi e sulle vittime. Ma lo dicono anche le scelte fatte. Nessuno è arrivato a prendere decisioni restrittive come le nostre. O meglio, forse lo ha fatto la Cina, ma isolando soltanto la regione di Hubei e rispondendo con l’efficienza e l’efficacia che solo un regime non liberaldemocratico può mettere in campo, in termini di sorveglianza e di opere pubbliche (vedi ospedale a Wuhan in pochi giorni). La Corea, che in base ai dati mi sembra il vero “modello”, non è arrivata a scelte restrittive, di contenimento di intere aree. Ha individuato e tracciato le persone infette con uno screening di massa (tamponi) e poi ha provveduto a isolarle. Senza “chiudere” città, regioni, attività. Finora ha funzionato alla grande. Insomma, la nostra risposta “a tappe” non sembra essere la migliore. Ma tireremo le somme alla fine, anche tenendo conto di sistemi politici diversi e di culture politiche e civiche diverse. Tutto l’estremo Oriente, dati alla mano, funziona. Mentre la cara vecchia Europa dei diritti e delle libertà sembra ormai tutta un focolaio del coronavirus. Ci rifletteremo, “col senno di poi”…

Tuttavia, occorre miscelare i ragionamenti sulle scelte politiche con quelli connessi alla comunicazione. La comunicazione è politica, nel senso che genera conseguenze, spesso più importanti delle stesse decisioni normative (a titolo di esempio, si veda l’ormai famigerato decreto che col solo annuncio ha riempito stazioni e treni, generando l’effetto opposto a quello desiderato).
Ora, è facile (col senno di poi) dire quali annunci abbiano avuto effetto positivo e quali invece siano stati “catastrofici”. E dunque su quelli non dirò nulla. Vorrei invece aggiungere una riflessione su una questione che mi pare stia montando nel Paese. E cioè che la forma è sostanza, quando si comunica. Riti e simboli contano. E dunque, parlare alla nazione dandole appuntamento su Facebook comincia a sembrare una nota parecchio stonata. Le prime volte, con misure restrittive minime, quarantene appena iniziate e dati non così scoraggianti, poteva anche andare… abbiamo visto meme sulle “bimbe di Conte” nuovo sex symbol, abbiamo visto locandine de’ “Il Decreto” come fosse una soap opera… Ma ora il contesto è cambiato, profondamente. È mai possibile che il messaggio alla nazione di Capodanno, da parte del Presidente della Repubblica, venga trasmesso a reti unificate, mentre questi annunci di “misure di guerra” avvengano su un social network? Con le Tv (anche quella di Stato) costrette a collegarsi su Facebook?
Giuseppe Conte ha detto “lo Stato c’è, lo Stato è qui”… ma lo ha detto su una piattaforma privata della Silicon Valley, pur avendo la Rai e tutte le emittenti private (ma italiane) a disposizione. La diretta Facebook può essere aggiuntiva, non sostitutiva. Lasciamole l’esclusività per i concerti sui balconi e per le nostre ricette da quarantena. Anche per i mojito e tutta la propaganda da campagna permanente in tempi “normali”. Ma non lasciamole il primato anche nello “stato di eccezione”.
A proposito di forma e sostanza, si potrebbe dire qualcosa anche sui ritardi e sulla scelta di fare annunci notturni. Abbiamo visto – sempre su Facebook – una conferenza stampa alle 2.20 di mattina, tecnicamente senza senso. Ma sorvolerei su questo per concentrarmi su un aspetto più qualitativo, cioè sui messaggi.
Il problema vero di queste nottate ansiogene de’ “Il Decreto” è proprio insito nel messaggio. Perché risulta debole (e dannoso) sia dal punto di vista informativo che dal punto di vista psicologico. In tema di informazioni, ogni messaggio ormai genera più dubbi che certezze. Cosa è aperto e cosa no? Fino a quando? Dove posso leggerlo e documentarmi? Da nessuna parte perché il decreto è solo annunciato… E che senso ha annunciarlo e basta, sapendo che ogni effetto-annuncio genera conseguenze reali? Cioè aumenta incertezze e viralizza panico?
Inoltre, sempre in tema di psicologia sociale, occorre concentrare l’attenzione sul codice , sul registro e sullo stile di comunicazione. Conte ormai spesso parla in prima persona (“ho deciso”, “ho fatto”, “ho promesso”), il Parlamento è praticamente chiuso e procediamo con Dpcm (Decreti del presidente del Consiglio dei ministri), il capo dello Stato (“lo Stato è qui”…) è sparito dai radar, nonostante sia il rappresentante dell’unità nazionale. Insomma, l’unica emittente autorevole, “lo Stato” nel percepito di massa, è Conte. In questo grande, a tratti epico, racconto nazionale egli è il nostro eroe. Ragion per cui, diventa fondamentale che il presidente del Consiglio adotti un codice comunicativo e narrativo efficace, convincente e soprattutto autorevole. E invece, a mio avviso, non ci siamo. Il “buon padre di famiglia” che emerge risulta troppo “all’italiana”, con un evidente tratto paternalistico e solidale verso i nostri sacrifici, le nostre rinunce, il nostro coraggio. È una linea tra le tante possibili, ma non è la linea del “Commander in chief”. Certo, deve svolgere anche una funzione rassicurante, da mental coach, ma deve farlo con l’autorevolezza e la certezza di ciò che ci comunica, di come lo comunica e dei suoi effetti.
Non sto dicendo che l’alternativa sia De Luca coi lanciafiamme o il sindaco di Gualdo Tadino che urla “teste di cazzo” a chi non resta in casa. L’alternativa, ad esempio, è il ministro della Difesa israeliano che dice: “Nulla è più letale di un abbraccio tra nonna e nipote” e chiude il video-messaggio con “questo è il piano. Abbiate cura dei vostri nonni, non andategli vicino”. Dice anche tutto il resto, la quarantena, il distanziamento sociale, ecc., ma passa in secondo piano. Diventa rumore di fondo, perché il messaggio vero è uno. E non è sacrificio, forse neanche responsabilità. È semplicemente amore per i propri cari. Ma detto non con toni “melodrammatici”, con voce e occhi bassi. Detto in maniera piatta, autorevole, stentorea: “Vuoi bene ai tuoi, stanne lontano”. Te lo dice il “comandante”.
Chiaramente, i problemi di comunicazione non riguardano solo la presidenza del Consiglio. Tutta la nostra governance multi-livello ne è colpita. Stato, Regioni e Comuni sono stati (e sono ancora) troppe volte “l’un contro l’altro”. E un sistema dell’informazione che spesso non aiuta e sta contribuendo non poco a peggiorare il percepito di massa. Va bene l’aggiornamento quotidiano con la conferenza stampa della Protezione Civile. Vanno bene le comunicazioni di Conte (meglio se riviste nei termini su indicati). Va meno bene che ogni emittente, a tutte le ore, mandi in onda speciali sul coronavirus che non aiutano certo la resistenza psicologica di un popolo in quarantena. Peraltro, spesso tali trasmissioni sono inutili anche dal punto di vista informativo: per ragioni di pathos e di interesse di un pubblico spaventato, ruotano su una sola domanda: “Quando arriva il picco?”. E quella domanda è inutile, perché nessuno lo sa. È uno scenario con troppe variabili. In compenso, avere sempre davanti agli occhi e nelle orecchie questo maledetto virus ingigantisce le paure. Perché non parliamo d’altro, monopolizza l’agenda. Inoltre, andrebbe cambiato l’ordine di presentazione dei dati. Se cominciamo a riferire prima il numero dei guariti e poi quello dei morti, male non fa…
Infine, questo stillicidio h/24 monotematico contribuisce a generare incertezza anche perché manda in video decine e decine di medici non sempre concordi (l’abbiamo visto fin dal principio). Per chi fa scienza di mestiere, è normale assistere a teorie in competizione. È assolutamente fisiologico. Ma per un popolo spaventato, no. Diventa decisamente patologico. Perché se “neanche i dottori sono d’accordo tra loro”, allora tutti hanno la stessa credibilità. E a quel punto, senza un campo magnetico certo e con la bussola impazzita, ci si può fidare anche del vocale che ci arriva da chissà chi, su Whatsapp.
Stiamo vivendo un tempo imprevisto e maledetto. Non eravamo preparati, neanche lontanamente, ad affrontarlo, così presi da non-notizie (ir)rilevanti e da gratificazioni narcisistiche tipiche di chi proprio non si aspetta un “cigno nero” di tale portata. E, sempre per citare Nassim Nicholas Taleb, abbiamo scoperto di non essere così antifragili e neanche così robusti. Ma c’è una cosa che “il senno di poi” ci può insegnare: apprendere dagli errori. Che, per inciso, è anche l’essenza del metodo scientifico.
(testo originale: https://formiche.net/2020/03/col-senno-di-poi-comunicazione-conte/ )
In Italia si muore di burocrazia tanto quanto di Covid-19
Morire per colpa degli intransigenti standard Consip. Succede anche questo nell’Italia flagellata dal coronavirus, dove è la burocrazia, travestita da centrale acquisti, ad avere diritto di vita o di morte sui malati di Covid-19. Come se la situazione, specie nel Nord Italia, non fosse già complicata di suo, ci si mettono anche i burocrati a complicare le cose: Consip ha infatti bloccato l’acquisto dei ventilatori polmonari, necessari agli ospedali italiani per salvare la vita dei pazienti affetti coronavirus, perché il loro prezzo non è ritenuto consono agli standard della centrale acquisti dello Stato.

Lo svela oggi Piero Sansonetti sul Riformista, riprendendo a propria volta i casi citati giorni da Nicola Porto giorni fa sul Giornale. Ed ecco che gli episodi in Italia si moltiplicano: ospedali i cui lavori di ampliamento vengono bloccati, mascherine che non possono essere acquistate – per la non congruità agli standard di cui sopra – mentre a Brescia i medici sono senza difese nel curare i malati in trincea. E mentre tutta Italia plaude allo sblocco da parte del Governo di diversi miliardi di euro per la sanità e tutti postano l’immagine dell’infermiera che abbraccia il tricolore a forma di stivale come fosse un figlio, la realtà è che neppure nel momento di più estrema emergenza si riesce a semplificare la macchina organizzativa dello Stato. Al punto da paralizzare anche gli interventi più urgenti ed essenziali.
E il problema è tanto più serio quanto più questo immobilismo in fondo non fa che rispecchiare l’incapacità della politica italiana di governare i processi di sviluppo, in ogni campo e ad ogni livello. Una malattia atavica, che nell’ultimo quarto di secolo ha raggiunto livelli imbarazzanti. La burocrazia al potere è una morbo mortale tanto quanto il Covid-19. Ed è virale allo stesso modo, poiché ha invaso lo spazio vitale del decisionismo politico fino a spodestarlo. Ed è paradossale, ha ragione Sansonetti, che ciò sia avvenuto soprattutto nei due decenni della Seconda Repubblica.
“Negli ultimi 25 anni, in Italia – finita la Dc, sepolto il craxismo, archiviato il catto-comunismo – hanno governato (fino al 2018) gruppi politici liberali – scrive Sansonetti -. Estremamente e radicalmente liberali (sul piano delle idee e dei programmi) come le forze radunate attorno a Berlusconi; o più moderatamente liberali, come i partiti guidati da Prodi, da D’Alema, da Veltroni, da Bersani e Renzi. E ciononostante, di liberale, in Italia, non è stato fatto pressoché niente. Forse si è realizzata una distribuzione del reddito dal basso verso l’alto. Ma questa non è l’essenza del liberalismo, questo è solo socialismo alla rovescia. L’idea liberale non è il rovesciamento dell’idea socialista, non è il regno dei ricchi e basta: è il luogo dove è la libertà a determinare la società e non viceversa”.
Eppure la tanto sbandierata rivoluzione liberale – mai avvenuta – ha sempre ceduto, consapevolmente, il passo alla tecnocrazia. Alla burocrazia e ai suoi mille volti, alle sue mille insidie. Etica burocratica contrapposta, in una lotta impari, all’etica della libertà.
“Negli ultimi anni l’Italia è cresciuta del 4 per cento, la Francia del 25, la Germania del 26, la Spagna del 27. Le conseguenze di questa decrescita, non felice ma maledetta? Gli imprenditori sono meno forti e i dipendenti infinitamente meno forti. Non hanno più potere contrattuale e non hanno soldi” scrive ancora Sansonetti. Non stupisce, dunque, che oggi siano gli standard di Consip ad avere potere di vita e di morte sui malati di coronavirus e sul personale sanitario che li assiste. Una guerra che, senza un’inversione di tendenza radicale, rischia di essere persa in partenza. Solo che stavolta la posta in palio è la sopravvivenza stessa di migliaia e migliaia di uomini e donne, che più che di Covid-19 rischiano di crepare di burocrazia.
Troppe autorità, nessuna autorità. La cattiva politica è più letale del virus
Se c’è una cosa che abbiamo imparato dall’epidemia del Coronavirus è di non potersi fidare del Titolo V della Costituzione. Aver disarticolato lo Stato, privandolo di funzioni essenziali demandate alle Regioni, ed aver, al tempo stesso, introdotto in Costituzione un elenco di materie sulle quali c’è concorrenza tra Stato e Regioni, ha generato una confusione di ruoli e di poteri che, ben che vada, ingessa, paralizza azioni e decisioni sia dell’uno che delle altre. Condizioni rese ancor più gravi quando si è al cospetto di situazioni di emergenza come, appunto, è accaduto con lo sconosciuto virus venuto dalla Cina.
In una intervista al Corriere della Sera, l’igienista di fama mondiale, Walter Ricciardi, diventato consigliere dal ministro della Salute, Roberto Speranza, per le relazioni dell’Italia con gli organismi sanitari internazionali, dopo essere stato a lungo inascoltato dal governo circa le misure correttamente da assumere per arginare il contagio, ha chiaramente detto che “chi ha dato l’indicazione di fare i tamponi anche alle persone senza sintomi, gli asintomatici, ha sbagliato”. “La strategia del Veneto non è stata corretta perché ha derogato all’evidenza scientifica”, ha aggiunto lo scienziato. Ancora: ”Le linee guida dell’Organizzazione mondiale della sanità, riprese dall’ordinanza del ministro della Salute non sono state applicate”. Risultato: tutto questo ha generato confusione ed allarme sociale.

Se dovevamo avere una conferma di quanto sottolineato in premessa, le parole di Ricciardi non lasciano spazio a dubbi. Il sistema concepito dal legislatore sull’onda della spinta federalista e di una autonomia regionale diventata patrimonio di quasi tutte le forze politiche, presentava e presenta non pochi problemi applicativi. Sondarne le ragioni, se non vogliamo continuare a farci del male, dovrebbe essere avvertito come un dovere e un atto di responsabilità politica ed istituzionale.
E’ un punto dal quale non si può sfuggire. Prenderne coscienza e cercare di porvi rimedio, è un dato su cui appuntare la riflessione, senza, con questo, essere tacciati di nostalgici del vecchio centralismo statale o, peggio, come infettati dal virus della polemica fine a se stessa. Prendiamo il caso della Regione Marche. Il presidente di quella regione, per una forma di cautela e prevenzione, ordina la chiusura delle scuole di ogni ordine e grado disattendendo le disposizioni del governo che, a sua volta, impugna il provvedimento regionale. Chi ha ragione? E dove è finita la “leale collaborazione” tra le istituzioni? Per non parlare della stucchevole polemica tra il governatore delle Lombardia, Fontana, e il premier Conte circa le presunte inefficienze di alcuni ospedali. Anche se in qualche modo sedata, più per un sussulto di decenza nei confronti degli italiani, già abbastanza scossi dal rincorrersi di notizie spesso confuse e contraddittorie, che per un effettivo chiarimento tra le parti in causa, quella polemica per i toni e i contenuti (Conte ha minacciato di revocare poteri alla Lombardia) ha lasciato un nervo scoperto.
Insomma, la si giri come si vuole, il punto della questione non eludibile risiede proprio in quella riforma del Titolo V. Per superare il tanto deprecato centralismo dello Stato si è messo in piedi un sistema che non funziona. Non funziona, soprattutto, quando scatta una emergenza nazionale, e ci troviamo a dover fare i conti con qualcosa, un virus, che travalica confini e frontiere e mette a nudo la fragilità sistemica della mancanza di una unicità di comando. Di un luogo che non sia semplicemente di regia e coordinamento. Ma che sia, innanzitutto, di decisione.
Ogni decisione, per essere efficace, non può limitarsi alla leale collaborazione dei soggetti coinvolti. La lealtà è una qualità morale. La parola deriva dal latino legalitas e indica una componente del carattere di una persona. Platone la considerava una prerogativa dell’uomo giusto. La decisione attiene alla sfera del comando. E’ decisore chi è investito di auctoritas e funzione di comando. Un concetto, ci ricorda Carl Schmitt, che è l’essenza stessa del diritto. Che opera nel cosiddetto “stato di eccezione”, ossia quando se ne ravvisa l’evenienza e la necessità. Solo che, per operare, bisogna che chi decide sia messo nelle condizioni di farlo. Non è un caso se, a differenza di quanto accade da noi, in altre importanti democrazie europee, come la Francia, la Germania e il Regno Unito, lo “stato di eccezione” sia disciplinato e costituzionalmente previsto. Il timore, dopo il fascismo, di lasciare un varco a possibili governi forti, indusse i padri costituenti a tenere fuori dalla Costituzione una simile evenienza.
Ma ora, a distanza di decenni, e dopo aver introdotto la cosiddetta equiordinazione tra le istituzioni, ossia dopo aver messo sullo stesso piano Stato, Regioni, Enti locali e Città metropolitane, annullando ogni ordine gerarchico tra questi soggetti, in virtù della cosiddetta orizzontalità istituzionale, è lecito chiedersi se non sia opportuno prevedere una qualche forma di verticalità.
Qui non si tratta di rivendicare un ruolo superiore dello Stato, che pur dovrebbe esserci, se si ha chiaro il concetto di sovranità e quel che esso comporta. Si tratta, piuttosto, di rendere il quadro istituzionale, nelle sue articolazioni di poteri, funzioni e competenze amministrative, più coerente, efficace, ordinato.
Della crisi del regionalismo si parla spesso individuandone il fattore principale nella insufficiente attuazione del principio autonomistico e di decentramento iscritto nella Costituzione. Di qui la proposta sottoposta a suo tempo a referendum dalle regioni del Nord di una federalismo rafforzato e differenziato, anch’esso al centro di non poche discussioni tra opposti punti di vista. Il regionalismo italiano, dicono i sostenitori di questa tesi , è in crisi per difetto dell’attuazione legislativa, perché lo Stato accentra su di sé ancora troppe risorse, lasciando i territori sguarniti di fondi da gestire autonomamente.
Non ci si pone, al contrario, la domanda se quella crisi non dipenda piuttosto da un eccesso di prescrizioni, funzioni e poteri rispetto alla realtà socio-economica nazionale. Se la crisi, al di là della contingenza, non sia invece più profonda, di carattere strutturale. Se la stessa idea di espandere il regionalismo non cozzi con la realtà dei fatti, con il dato di inadeguatezza delle stesse strutture regionali, i cui costi, peraltro, sono lievitati nel tempo, moltiplicando centri di spesa e accentuando la burocratizzazione del sistema. Non ci si chiede, in sostanza, se aver eliminato il vecchio centralismo statale non abbia favorito il nascere di un nuovo centralismo regionale. Anzi di venti centralismi regionali, quante sono le regioni italiane. Con venti politiche sanitarie e venti decisori diversi. Non ci siamo accorti che, in questo modo, abbiamo messo in piedi un Paese disarticolato, un organismo ibrido, privo di un centro dotato di autentica autorità. Troppe autorità equivalgono a nessuna autorità. Di qui la montante sfiducia dei cittadini. Viviamo con la febbre addosso e pensiamo di star bene. Un malanno più letale del Coronavirus.
Cairo ragiona da leader: “Metodo cinese, servono misure ancora più drastiche”
Parla con decisionismo da leader, ma per ora in campo ci è sceso solo ieri sera, ospite di Lilli a Otto e Mezzo. Urbano Cairo, patron di Rcs e presidente del Torino Calcio, da anni tirato qua e là per la giacca dalla politica, è intervenuto ieri sera su La7 per parlare di coronavirus. Elogiando le misure proposte dal governatore della Lombardia Attilio Fontana, Cairo ha invocato “il metodo cinese” per il contenimento del virus. “Dobbiamo far presto – ha detto Cairo, favorevole ad una serrata totale -. Meglio 15 giorni pessimisti per poi ripartire ed uscire velocemente da questa situazione. Non farlo rischia di prolungare un’agonia molto pesante”.

“Serve un metodo molto drastico – aggiunge – Io l’ho chiamato ‘cinese’ perché in Cina hanno adottato quel tipo di misure e hanno avuto successo, ma in realtà vorrei che fosse un metodo italiano. Probabilmente servono misure ancora più drastiche e lo dico anche con la preoccupazione di un imprenditore, che ha diverse aziende e tanti dipendenti ma se da questa cosa usciamo velocemente, è nell’interesse di tutti noi. Meglio fermarsi subito in maniera decisa per poi ripartire meglio e prima”.
Le sue aziende, però, non si sono fermate. “Credo che sarebbe negativo per noi e il Paese sospendere l’informazione – conclude Urbano Cairo -, che andrebbe garantita al 100%, facendo però lavorare in sicurezza i lavoratori. Anche durante la guerra le edicole erano aperte: abbiamo messo in sicurezza e in smart working i nostri dipendenti ma dobbiamo anche fornire un’informazione corretta alla popolazione perché tutti siano attenti e consapevoli”.