Country before party: no a una crisi al buio, sì a proposte concrete!
di Andrea Molle
Viene un momento nella vita di un politico in cui il bene del paese va anteposto agli interessi individuali e di partito: “Country before party” per dirla all’americana. Quel momento, in Italia, sembra non arrivare mai. La crisi pandemica, ultima di una lunga serie di crisi sociali e politiche che hanno caratterizzato il recente passato del nostro paese, avrebbe potuto rappresentare il punto di rottura con la lunga tradizione di sotterfugi e manovre di piccolo cabotaggio che da molti anni caratterizzano la politica italiana.
Invece, come spesso accade, la crisi non ha fatto altro che accentuare la parte peggiore del popolo italiano e di quei politici che sono interessati più al tornaconto personale che a perseguire gli interessi collettivi del paese. Sicuramente i problemi di questo Governo sono moltissimi e spaziano dalla politica estera a quella sull’immigrazione, passando per Scuola e la Sanità. Il Movimento 5 Stelle, entrato in parlamento con l’obiettivo di cambiare la prassi politica, ha finito per trasformarsi in una versione anche peggiore dei vecchi partiti. Peggiore perchè ai giochi di palazzo i suoi esponenti aggiungono la strafottenza tipica di chi può vantare solo una disarmante incompetenza.
È innegabile che non ci si è voluti preparare alla seconda, oggi terza, fase della pandemia, limitandosi a sperare che il virus se ne andasse da solo. Non solo, anche gli interventi di contenimento intrapresi in tutta fretta da Giuseppe Conte non hanno raggiunto lo scopo prefissato di contenere i danni, forse soprattuto per colpa della loro ambiguità e delle continue correzioni di rotta. Infine, la finora maldestra gestione del Recovery Fund e del piano vaccinale non fa presagire nulla di buono per il futuro.
Il presidente del Consiglio sta palesemente navigando a vista, mostrando alle volte troppa superbia e pensando di poter vivere di rendita sfruttando i buoni risultati della scorsa primavera, magari pensando più al suo futuro politico che al bene degli italiani. Il rischo è quello di ritrovarsi con un paese in rovina. Ma questo non giustifica l’aprire una crisi di governo al buio in questo momento troppo delicato, come sembrano suggerire le opposizioni esterne al Governo, capeggiate dai sovranisti, o interne, ovverosia i renziani. Questo sì sarebbe un suicidio. Quando la nave affonda non si discute su chi deve esserne il capitano; prima si risolvono i problemi e poi si ridiscute la leadership.
Ma non mandare a casa Conte non significa essere esonerati dalla responsabilità di offrire proposte concrete per aiutare il paese. Per questo motivo, riteniamo necessario rimodulare gli investimenti previsti nel vago piano governativo a favore di pochi progetti ben strutturati che comportino un maggiore investimento nei settori chiave per il paese. In primo luogo aumentando gli investimenti nella salute pubblica mirando a una maggiore efficienza nella cooperazione tra pubblico e privato, ma anche investendo in programmi di prevenzione e nelle attività sportive che possono ridurre l’impatto di molte patologie. In secondo luogo nella scuola, che ormai da anni vive in uno stato di emergenza costante sia sotto il profilo infrastrutturale che quello del personale. Infine nella difesa, sia per le ovvie implicazioni di politica internazionale che vede l’Italia ormai retrocessa a mero spettatore che, come la pandemia di COVID-19 ha dimostrato, per il ruolo indispensabile che le FFAA hanno nella gestione delle crisi umanitarie.
Oggi più che mai è l’ora della responsabilità, e non della smania di potere, per questo la Buona Destra dice no alla crisi di Governo ma pretende, fermamente, un cambio di rotta per il bene dell’Italia.
Sulla difesa né ritardi né risparmi: ne va dell’interesse nazionale
di Andrea Molle
La Buona Destra esprime serie preoccupazioni per le insufficienti risorse assegnate alla difesa a sequito della presentazione, peraltro con imperdonabile ritardo, del Documento Programmatico Pluriennale per la Difesa nel triennio 2020-2022. La Buona Destra supporta le richieste delle FF.AA. di procedere a maggiori investimenti in un comparto oggi più che mai indispensabile per gli interessi del nostro paese e dell’Unione Europea.
Dal documento si evince che nel 2019 il rapporto budget difesa/Pil si è attestato all’1,21%, ben lontano sia dal 2% auspicato dalla Nato che dall’1,58% della media dei Paesi europei. Con le risorse allocate per il triennio futuro, l’Italia ha come obiettivo quello di allinearsi con i partner continentali. Tuttavia, l’investimento previsto è ancora lontano dall’auspicato 2% così come da obiettivi più realistici di efficienza necessari a garantire l’operatività nei molti teatri che ci vedono oggi impegnati.
A fronte dell’incremento delle crisi internazionali è necessaria una profonda revisione dello strumento militare che va portato, senza indugio, verso livelli di efficienza e interoperabilità che garantiscano la sicurezza e tutelino gli interessi del nostro Paese. La cronica insufficienza delle risorse assegnate alla Difesa rappresenta un grave problema per la nostra politica estera, di cui lo strumento militare è naturalmente un’estensione indispensabile. Ciò avviene ad esempio nel Mediterraneo, un’area la cui importanza e complessità è in costante aumento, dove l’Italia viene sempre più frequentemente messa in disparte da soggetti, una volta marginali, che sono oggi riusciti a solidificare posizioni di potere in aree tradizionalmente ad influenza italiana.
Essa rappresenta inoltre un limite per l’impiego delle FF.AA. in quei contesti non prettamente bellici, come ad esempio l’intervento in caso di calamità naturali o la gestione di emergenze sanitarie, dove lo strumento militare si rivela sempre più indispensabile.
Oltre alla cronica mancanza di fondi, si evince anche un problema di allocazione. L’evidente sbilanciamento nella ripartizione della spesa a vantaggio del personale è causa di sofferenza per i settori direttamente funzionali all’operatività. La Buona Destra si oppone a qualunque delega al blocco degli organici e promuove una riorganizzazione delle FF.AA. che ne aumenti l’efficienza e l’interoperatività, anche a livello europeo, unitamente a un piano di investimenti straordinari in mezzi e assets operativi, in particolare nei settori dell’alta formazione, del cyberwarfare, della robotica e delle operazioni spaziali.”
Spazio ultima frontiera: l’Italia resta al palo
di Andrea Molle e Arianne Ghersi
Cominciamo dalla brutta notizia. L’Agenzia Spaziale Europea avrà una nuova guida e non è italiana. Le delegazioni dei paesi membri hanno infatti scelto l’austriaco Josef Aschbacher come prossimo Direttore Generale dell’ESA. L’ennesima riprova della scarsa rilevanza dell’Italia nella comunità internazionale? Per le opposizioni, all’estrema destra come a sinistra, è certamente così: l’ennesimo insuccesso del governo italiano che, spesso e volentieri, non riesce a far valere i propri candidati in quelle posizioni di prestigio che sono sempre più fondamentali per il futuro della politica europea.
L’Italia appare dunque, a prima vista, isolata anche nella scacchiera spaziale, nonostante vanti grandi eccellenze industriali e sia, dopo Francia e Germania, il terzo paese contributore del bilancio dell’Agenzia cui verserà nel 2021 una somma pari a circa il 13.5% del suo budget operativo.
Nulla di fatto dunque per le due candidature italiane, arrivate comunque in dirittura finale. Né quella di Simonetta Di Pippo, direttrice dell’Ufficio delle Nazioni Unite per gli Affari dello Spazio extra atmosferico (Unoosa), sostenuta da Roma, né quella indipendente del fisico Roberto Battiston, ex direttore dell’Agenzia Spaziale Italiana rimosso dal primo governo Conte a trazione leghista. Nella riunione che ha deciso il vertice dell’Agenzia, i capi delegazione hanno votato a larga maggioranza per il candidato austriaco (18 voti su 21), sostenuto fortemente dalla Germania. Con questo voto si interrompe anche la storica tradizione che vede la carica di assegnata a rotazione ai maggiori contributori di ESA, Francia, Germania e Italia che da soli coprono il 60% dei costi. A votare per Aschbacher si è alla fine schierata anche la delegazione del nostro paese. Insomma a prima vista una dura sconfitta diplomatica per il governo Conte, ma soprattutto per il Movimento 5 Stelle che, se a parole guarda allo spazio come un settore chiave del futuro dell’Italia, non sembra nei fatti aver corretto la fragile rotta della politica spaziale italiana.
Ma veniamo adesso alle buone notizie, perché spesso le apparenze ingannano. Secondo indiscrezioni diplomatiche, riportate ad esempio da diversi media tedeschi, in cambio della nomina del nuovo direttore Generale dell’Esa l’Italia otterrebbe da Berlino la garanzia della sopravvivenza dell’Istituto Esrin di Frascati che oggi è sotto la scure dei tagli al bilancio. Secondo il “Fatto quotidiano” l’Istituto non godrebbe di una forte popolarità in seno alle istituzioni internazionali, anche a causa di un risarcimento di 210 mila euro a beneficio di un dipendente che avrebbe ricevuto uno stipendio inferiore al dovuto rispetto alle mansioni svolte. Inoltre, molto probabilmente all’Italia andrebbe l’Istituto Europeo di Ricerca Spaziale, fino ad oggi guidato proprio da Aschbacher. Lindro.it, a commento dell’elezione, ricorda come sia fondamentale per l’Italia ottenere il controllo di IERS. Dopotutto, Roma ha stanziato ben 2,2 miliardi di euro verso l’Agenzia e rappresenta la migliore delle candidature possibili.
Certo tutto dipende da come si evolveranno nel prossimo futuro gli equilibri politici. Qualche spiraglio potrebbe arrivare anche dal progetto Artemis, una collaborazione con la Nasa che prevede il ritorno dell’uomo sulla luna entro il 2024. A questo proposito, il sottosegretario alla presidenza del Consiglio dei ministri con delega alle politiche per lo spazio, il pentastellato Riccardo Fraccaro, confida nella credibilità dell’Italia come solido partner scientifico degli USA. Come sottolinea Enrico Ferrone, si tratta di una seconda possibilità che potrebbe essere l’ultima qualora venisse sprecata.
Un “bidone” è naturalmente sempre possibile, ma per una volta la partita sembra andare verso una direzione favorevole all’Italia. Quello di oggi può sembrare un clamoroso insuccesso, ma in realta è probabilmente il miglior compromesso possibile per l’Italia e potrà rivelarsi un trionfo della diplomazia spaziale azzurra. Questa volta, con le dovute cautele, è forse il caso di dire: ben fatto Governo Conte!
QAnon e l’Italia: la Buona Destra contro il complottismo
di Andrea Molle
Matteo Salvini è un simpatizzante del movimento complottista americano QAnon? Probabilmente no, anzi quasi certamente no. Tuttavia sono molti i sostenitori del leader leghista a cui piace pensare che lo sia e molti tra loro ne sono fermamente convinti. Ne sono sicuri al punto da creare gruppi di discussione online dedicati a scovare i segnali che, presumibilmente, Salvini lancerebbe ai seguaci di Q della penisola (https://www.open.online/2020/09/13/matteo-salvini-qanon-italiani-video/).
Quello che è certo è che lui, Salvini, da buon comunicatore quale è, non ha fatto molto per negare di avere simpatie verso il movimento che, proprio grazie al lockdown, sta prendendo sempre più piede in Europa e si espande velocementeanche in Italia.
La ragione può essere la semplice ignoranza, nel senso che Salvini ignora l’esistenza di QAnon, oppure la consapevolezza che, col tempo, il complottismo sta diventando un ghiotto bacino elettorale. Una coincidenza dunque? Forse sìma, a voler pensar male, perché perdere potenziali voti? D’altronde diversi movimenti, quelli che da sempre orientano il voto della galassia identitaria vero l’estrema destra italiana, riprendono e amplificano i messaggi di Q. La Lega, ma ancheFratelli d’Italia e Movimento 5 Stelle sebbene in misura minoree in modo meno evidente, non esitano a riprendere quegli stessi temi e tormentoni nella loro propaganda social media. Lo fanno perché questa retorica cospirazionista, fatta di nemici invisibili, “poteri forti” internazionali e spiegazioni semplicistiche, ha un grande successo. Ma, se così fosse, nel farlo si esporrebbero al rischio di essere associati a fenomeno estremamente pericoloso.
Nel nostro piccolo, noi vorremmo fare un po’ di chiarezza su un fenomeno ancora poco conosciuto nel nostro Paese, ma che presto occuperà le prime pagine dei quotidiani nazionali, e invitare l’estrema destra italiana a prenderne subito le distanze.In cosa consiste realmente QAnon e perché rappresenta un serio pericolo per la democrazia?
Durante le elezioni presidenziali americane del 2016, il candidato repubblicano Donald J. Trump fu indicato come “il Prescelto” da diversi gruppi cospirazionisti che, da allora, hanno iniziato a seguirlo con crescente interesse fino a farlo diventare una sorta di Messia. A seguito dell’inaspettata vittoria di Trump contro la candidata democratica Hillary Clinton, quelli stessi gruppi sono diventati sempre più visibili raccogliendosi sotto l’etichetta di QAnon. Questo gruppo è nato per raccogliere gli autodefinitisi seguaci di un anonimo utente internet noto con il nome in codice “Q”. Nella sua recente carriera di “gola profonda”, Q ha affermato di essere un esponente di alto livello dell’amministrazione Trump per poi iniziare a rivelare, progressivamente e tramite indizi che i suoi seguaci devonodecifrare autonomamente, la supposta verità sull’esistenza del deep state. I “poteri forti dello Stato Profondo”, come spesso viene tradotto dal pubblico italiano, sono una presunta cabala formata da politici, imprenditori e star cinematografiche rigorosamente di sinistra e dedite a rapimenti, sacrifici umani eculti satanici con l’obiettivo finale di raggiungere l’immortalità e asservire le masse mondiali. Una cupola degna delle migliori tradizioni pluto-giudaico-massoniche a cui Trump, aiutato da pochi leader mondiali suoi alleati, si opporrebbe strenuamente.Insomma, almeno secondo QAnon, Trump sarebbe l’ultima speranza dell’umanità e di cui gli altri leader sovranisti sono gli alleati. Questo è quello che gli analisti chiamano il core belief di QAnon, il nocciolo duro delle rivelazioni di Q, mentre in realtà ciascun utente o “gruppo di ricerca della verità” può integrarli con altri contenuti, modificandone o adattandone il messaggio alle proprie esigenze e al proprio contesto. Per questo il movimento è considerato dagli studiosi come un vero e proprio fai-da-te, un open-world, cospiratorio.
Sebbene questo gruppo cospirazionista sia nato come un fenomeno marginale e profondamente americano, grazie alla sua flessibilità ha poi preso velocemente piede su YouTube, dove creatori di contenuti conservatori hanno iniziato a produrre decine di video ispirati dagli indizzi di Q attirando centinaia di migliaia di visualizzazioni. All’inizio del 2018 QAnon contava già su una vasta rete di canali YouTube, podcast e libri dedicati al Deep State, oltre agli immancabili gadgets a tema. Slogan e simboli di QAnon, come l’hashtag #WWG1WGA (“Where We Go One We Go All”), hanno iniziato a popolare l’ecosistema dei media e dei movimenti conservatori e hanno fatto capolino nella vita quotidiana e nelle manifestazioni di supporto al presidente Trump. Allo stesso tempo QAnon ha mostrato tutto il suo lato (ancora più) oscuro laddove diversi suoi seguaci sono stati implicati in molestie, atti di vandalismo, assalti a mano armata e perfino omicidi. Nel 2019 la breve ma intensa carriera del movimento è culminata nella designazione di QAnon come minaccia terroristica da parte dell’FBI; la prima teoria della cospirazione ad essere classificata come tale. Un vero e proprio record.
Con quasi 1,5 milioni di seguaci, QAnon è stato certamente aiutato dalla recente pandemia e dalla conseguente diminuzione della fiducia nelle istituzioni. Nel 2020 il numero di Tweet correlati al QA è passato dai quasi 5 milioni nel 2017 a oltre 12 milioni. Donald Trump rimane una figura chiave della narrazione cospirazionista e il movimento è per la maggior parte incentrato su temi cari all’America. Tuttavia stiamo assistendo a un boom di QAnon anche in Europa, dove il moviment conta ormai più di 500.000 seguaci presenti in diversi social media. In Germania, la seconda nazione per diffusione dopo gli Stati Uniti, QAnon ha fatto breccia tramite i movimenti di estrema destra e il sentimento anti-Merkel che sono cresciuti esponenzialmente durante il lockdown. Anche certi movimenti di sinistra, in particolare quelli facenti parte della galassia ecologista, sono però sempre più attratti dalla sua retorica. In Francia, dove il movimento è presente da più tempo sebbene in modo limitato, QAnon è penetrato grazie al movimento dei Gilet Gialli, mentre nel Regno Unito ha raccolto i primi consensidurante la campagna per il Brexit. In Italia la reale dimensionedi QAnon è ancora largamente sconosciuta, ma la propaganda di Q è penetrata nel messaggio della destra populista che vi accede tramite i diversi movimenti identitari che la sostengono apertamente e che ne hanno già abbracciato dichiaratamente la retorica. È palese che i leader politici che utilizzano materiale di QAnon guadagno migliaia di followers senza alcuno sforzo,semplicemente ripubblicando le “soffiate” di Q con un minimo di adattamento alla realtà italiana, spesso in chiave cattolica.Quando Salvini scrive “Mai fermarsi! Mai avere paura! Sempre avanti!”, o twitta le sue congratulazioni per l’elezione di una deputata americana legata a QAnon, oppure quando prende le parti di Trump che rifiutando la recente sconfitta si sta portando sempre di più vicino a una retorica da Colpo di Stato, inconsapevolmente strizza l’occhio a un’organizzazionecriminale che in America è considerata un covo di potenziali terroristi. In conclusione, sperando si tratti di una serie di erroriin buona fede, la nostra richiesta è semplice: a Salvini e, per andare sul sicuro anche a Giorgia Meloni e ai 5 Stelle, chiediamo di prendere una chiara e netta posizione e distanziarsi senza alcuna esitazione e prima che sia troppo tardi dal movimento QAnon e dalla massa di cospirazionisti che lo sostiene in Italia.
“Il Trumpismo è stato sconfitto”. Forse si, o forse no
“Il Trumpismo è stato sconfitto! Il COVID-19 ha cancellato il sovranismo!” Forse sì, o forse no. Esistono le fantasie e poi esistono i fatti. E i fatti ci raccontano, ahimè, una storia diversa. Trump ha perso, ma ha comunque conquistato quasi 72 milioni di voti; che sono 10 milioni di voti in più rispetto alle elezioni del 2016. Biden ha vinto, ma il partito democratico ha subito una sonora sconfitta nelle elezioni per il rinnovo del Congresso. Sul ruolo tanto sbandierato del COVID, oltretutto, non sappiamo nemmeno con certezza come sarebbero andate le cose se la pandemia non avesse devastato la società americana.
I controfattuali e gli ipotetici poco si prestano all’analisi politologica. Oltretutto i dati che vediamo in questi giorni raccontano una storia, potenzialmente, molto diversa. Nelle contee più colpite dal virus, sia per numero di infetti che di morti, Trump sembra vincere e di molto su Biden. Se il virus ha avuto un qualche ruolo nella sconfitta di Trump non è certo per i morti, ma per il prezzo pagato in questi mesi dall’economia a stelle e strisce. Il meccanismo causale non è ancora chiaro, ma questo risultato è probabilmente dovuto al successo del presidente uscente nel convincere il suo popolo che il COVID-19 non è più pericoloso della semplice influenza.
Insomma, non certo il trionfo della razionalità, del politicamente corretto e delle buone maniere come vorrebe qualche commentatore italiano orientato a sinistra. Al contrario, quei 72 milioni di americani che credono in Trump sono qui per restare e nei prossimi anni rappresenteranno la spina nel fianco dell’amministrazione democratica che nasce debole e tormentata dalle lotte intestine tra i neoliberisti e la componente socialista del partito. Tra loro, i Trumpisti, troviamo certamente i fanatici cospirazionisti di QAnon.
Ai media europei piace molto mostrare le immagini di questa America strana e bizzarra, uscita da un vecchio film anni ’80, ma anche qui cerchiamo di non illuderci. Sebbene in crescita, il pericoloso culto cospirazionista di Q rappresenta solo una minoranza fatta di pochi milioni di individui, che sorprendentemente include anche elettori vicini a Bernie Sanders, a fronte di quasi metà della popolazione americana che ha ancora creduto nel Presidente.
Trump dal canto suo lo sa bene. Così come sa bene che, nonostante le numerose possibilità di essere processato (si va dalla corruzione, alla frode fiscale, al falso in bilancio, etc.) è diventato praticamente intoccabile, pena l’assunzione a martire, e potenzialmente ricandidabile nel 2024. Insomma il Trumpismo e con lui il sovranismo non stanno sparendo. E illudersi del contrario può avere conseguenze molto pericolose.
La caduta di Trump, una buona notizia per la Buona Destra
Le elezioni americane ci devono fare riflettere. Se i numeri verranno confermati da eventuali riconteggi Joe Biden avrà portato a casa un risultato straordinario. In quella che sarà ricordata come un’elezione record per numero di votanti, il candidato democratico avrà nettamente superato il Presidente uscente, Donald Trump, conquistando Stati tradizionalmente Repubblicani, come l’Arizona e la Georgia, interrompendo così la tradizione che vede tutti i presidenti, con rare eccezioni, investiti di secondo mandato. Questa elezione verrà anche ricordata come l’inizio della rivoluzione del sistema partitico a stelle e strisce. Un percorso che nella più estrema delle ipotesi potrebbe forza traghettare l’America fuori del tradizionale bipartitismo che contrappone Democratici e Repubblicani.
La oggi presunta vittoria di Biden è in gran parte dovuta certamente all’odio che metà del paese prova per Donald Trump. Ma anche al suo essere figura sostanzialmente moderata e di continuità con la presidenza Obama. Un candidato che non è politicamente nè esaltante nè innovativo, ma che è stato in grado di rassicurare l’America sul fatto che dopo la svolta populista a destra, il paese non si tufferà a capofitto nella sinistra liberale (leggi socialista) di Bernie Sanders e Alexandria Ocasio-Cortez. Una considerazione, sostenuta dai dati elettorali, che fa presagire l’aprirsi di una profonda crisi nel partito che fu di Kennedy e Clinton.
In queste ore, nel parapiglia del conteggio dei voti, il partito democratico si è reso infatti conto che la vittoria di Biden nasconde una bruciante sconfitta. Non solo i democratici non sono riusciti, almeno per adesso, a conquistare la maggioranza del Senato, ma hanno perso terreno nella House of Representatives. La tanto sperata “blue tide” (l’onda blu) non è avvenuta. In un balenare di accuse reciproche, i moderati puntano il dito contro i colleghi “Democratic Socialists” rei, a loro dire, di aver sbilanciato il partito su posizioni estreme. Posizioni che hanno finito paradossalmente per penalizzare proprio i candidati centristi e moderati che si sono trovati a combattere contro i repubblicani in seggi non blindati dall’utopistica narrazione “woke” delle grandi città liberal del paese. Loro, i liberals, negano ogni responsabilità e leggono la sconfitta come l’indicazione della necessità di spostarsi ancora di più a sinistra, dimostando la miopia tipica dell’integralismo marxista.
Non è certo un segreto che negli ultimi tempi il partito si sia focalizzato unicamente sulle minoranze di genere e su quelle razziali, scelte peraltro in modo molto selettivo e in base ad un insostenibile metro di purezza ideologica, perdendo contatto con la maggioranza del Paese. Accecato dalla propaganda postmodernista sfornata dalle Università degli stati costieri, il partito ha dato l’impressione di essersi dimenticato completamente della classe media e delle identità più tradizionali, come ad esempio quelle religiose, quando non ha apertamente assunto posizioni di ostilità nel loro confronti. Identità che però rappresentano oggettivamente la maggioranza dei suoi elettori.
Il 3 Novembre, questa strategia ideologia radicale non ha però pagato, se non nelle fantasie militanti di AOC e della sua “squad” che vede il mondo in bianco e nero, diviso tra buoni (loro) e cattivi (tutti gli altri). La strategia non ha pagato soprattutto perchè mentre il partito democratico virava a sinistra lasciando indietro i propri elettori, il partito repubblicano ha saputo tra mille difficoltà partorire una Buona Destra. Il Lincoln Project, di cui abbiamo ampiamente parlato in queste pagine, ha capitalizzato non solo il malcontento dei molti repubblicani scandalizzati dalla politica populista del Presidente uscente, ma anche quello di molti democratici spaventati dalla sempre più forte spinta verso l’epurazione di tutto ciò che non si conforma ad un’idea stereotipata di diversità, fatta a colpi di tasse e di improbabili e finanzialmente insostenibili programmi assistenziali.
La cosa estremamente interessante è che la fuga verso la buona destra del partito repubblicano non è limitata unicamente al classico cluster demografico del maschio bianco caucasico, ma si è osservata anche nelle donne e soprattuto nelle persone di colore. A ben vedere, anche Trump è riuscito ad intercettare un maggior numero di voti provenienti dalle periferie afro-americane e dei latinos. Ma il tycoon ci è riuscito sfruttando ancora una volta la loro frustrazione e grazie ad un fenomeno inquietante: il cospirazionismo di QAnon. Il movimento che è riuscito a far eleggere almeno un suo rappresentante nel prossimo Congresso americano.
Il recente messaggio alla Nazione, in cui Trump si autodichiara vincitore e letteralmente urla di presunti complotti e brogli già smentiti anche dagli osservatori internazionali dell’OCSE, è un chiaro segnale volto a mobilitare in suo favore, anche violentemente, questo network internazionale sempre più presente anche in Italia dove esiste grazie alla scellerata operazione populista di Meloni e Salvini, ma soprattutto nei cosiddetti movimenti identitari che li supportano. QAnon è un misto tra un gioco di ruolo e un’elaborata campagna di trolling mediatico che si oppone al presunto compolotto (apolide-pluto-giudaico-massonico) del Deep State. La paranoia la fa da padrona tra questi leoni da tastiera che annoverano tra loro purtroppo anche esponenti delle forze armate e delle forze di polizia; per loro Trump è il Messia, l’ultima speranza prima del presunto Global Reset che, grazie al COVID-19, farà cadere il mondo nelle mani della grande finanza internazionale. Sconfitto Trump, il Lincoln Project e il centro moderato che speriamo abbia la meglio nel partito democratico devono opporsi con ancora più convinzione a QAnon.
In Italia siamo ancora molto indietro e lo spettro di un governo a guida Meloni o Salvini, che sempre più si allienea alla retorica complottista, si erge minaccioso sul futuro post-pandemico del Paese. Per questo, oggi più che mai, serve una Buona Destra che si allei con il Lincoln Project e con gli altri movimenti della buona destra europea in quello che Filippo Rossi chiama Fronte Repubblicano e io, forse immodestamente, ribattezzerei il Fronte della Civilità.
La lezione dalla Francia: abbandonare il laicismo e abbracciare la laicità liberale
di Andrea Molle
Tutte le democrazie mature occidentali si ispirano, chi più chi meno, al principio della separazione tra Stato e Chiesa, laddove per Chiesa si intende non solamente l’esperienza cristiana ma in generale la religione dominante o almeno prevalente nello Stato.
Tale principio, un pilastro della cultura occidentale che sancisce la netta separazione tra le sfere della politica e della religione non è tuttavia da considerarsi come “naturale”. Anzi, è facilmente dimostrabile come, sia nelle società antiche che in molti paesi non occidentali, politica e religione siano quasi completamente fuse l’una nell’altra, senza tuttavia che ciò comporti problemi di ordine pubblico. Tale separazione era originariamente intesa come una forma di protezione della religione dalle ingerenze della politica, mentre oggi la si intende quasi esclusivamente come il contrario.
Emergendo alla fine della Guerra dei Trent’anni e sancita dal Trattato di Westphalia, solo poco più tardi essa divenne il baluardo della laicità. Nel sistema post-westphaliano, che vide anche la nascita del concetto stesso di Stato Nazione che dunque riposa sulla piena autonomia della politica, la separazione tra Stato e Chiesa finì poi per evolversi in due modelli sostanzialemente opposti.
Il modello liberale angloamericano che, pur prevedendo una netta separazione tra le due, non rinnega la religione come un importante elemento dell’esperienza sociale e anzi tutela apertamente la possibilità per individui religiosi di essere attivi nella sfera pubblica o politica. Questa scelta ha permesso agli Stati Uniti di evolversi in un mercato religioso aperto che sebbene non certamente perfetto, nè privo di discriminazioni, tutela il diritto di ogni cittadino di praticare liberamente la propria religione e vederne i valori competere sul mercato delle idee. Non a caso negli Stati Uniti la religione non è che molto raramente la causa di conflitti civili o di violenza, perché essa può esprimersi liberamente.
A questo modello si contrappone quello statalista francese, che subordina la pratica religiosa allo Stato e ne proibisce le manifestazioni pubbliche considerandola implicitamente come un pericolo per la tenuta delle istituzioni democratiche. Il modello francese crea dunque una dicotomia artificiale tra cittadinanza e pratica religiosa che non esiste nel mondo angloamericano.
La religione viene vista come una reminescenza di un passato pre-illuminista destinata a scomparire, un fatto privato di cui in fondo vergognarsi. Questa falsa certezza, che riposa sulla teoria sociologica pseudo-scientifica e cristiano-centrica della secolarizzazione, ha di fatto inibito le possibilità di reazione del paese di fronte al ritorno della religione sulla scena pubblica. Anzi, sarebbe meglio dire che quella scena la religione non l’ha mai abbandonata davvero, ma ha solamente maturato rancore, forza e incisività nei decenni in cui è stata mortificata, repressa o anche solo ignorata.
In Francia, come abbiamo avuto modo di vedere, il ritorno della religione in politica si è oggi purtroppo manifestato con un incremento della minaccia terroristica islamista. Per l’Islam più radicale infatti il principio di separazione tra politica e religione è un vero e proprio attentato all’esistenza. Non deve cogliere di sopresa il fatto che sia proprio nella religione che il disagio delle seconde e terze generazioni di immigrati, fortemente delusi dall’esperienza fallimentari di integrazione in Francia come in molte altre nazioni europee, ha trovato un punto di forza. La Francia ha ignorato per troppo tempo la situazione di degrado socio-economico delle sue banlieu preferendo far finta di nulla. Allo stesso tempo ha cercato di imporre forzatamente la laïcité, spingendo nell’ombra la religione islamica invece di comprendere come questa, nelle sue forme moderate, avrebbe potuto mitigare il disagio.
Ciò ha fatto sì che i suoi praticanti, esclusi dalla competizione politica, non abbiano trovato altre strade che quella di radicalizzarsi per contrapporsi ad una società laicista che vedono come l’antitesi dei propri valori e la causa dei propri mali. Il fatto che il conflitto sia con l’Islam radicale, si badi bene, accade unicamente perché esso è la religione maggiormente praticata nelle fascie sottoprivilegiate della società francese. In altre circostanze, le violenze potrebbero facilmente coinvolgere i praticanti di una qualunque altra tradizione religiosa, perché il problema sta nel sistema sociale che provoca il conflitto: il laicismo esasperato che non distingue tra religiosità moderata ed estremismo.
La recente proposta di legge promossa dal presidente Macron, che prevede un radicale cambio di rotta e il principio secondo il quale l’educazione religiosa debba essere considerata e finanziata come un mezzo di dialogo interculturale e di integrazione, è stata un ottimo passo avanti, ma è arrivata, come si dice in America, too late and one dollar short (troppo poco e troppo tardi).
Per troppo tempo la Francia, ma anche il resto dell’Europa, ha ignorato che la religione, o meglio la religiosità, è parte integrante della condizione umana. Per troppo tempo ci siamo cullati nel mito che la religione fosse tutta cattiva e destinata a sparire, per far spazio alla sola ragione, chiedendo alla scienza risposte che non può darci. Anche oggi la prima reazione è stata quella di unirsi al coro della repressione, all’urlo di “basta religione”. Ma è proprio la repressione, più o meno velata, che ha creato il problema del radicalismo e non possiamo certo pensare che un problema si possa risolvere con la stessa logica che lo ha creato. La religione esiste e, per quanto ne sappiamo, esisterà sempre in una qualche forma.
Una cultura democratica matura non cancella una dimensione importante della vita dei propri cittadini solo perché non la riconosce o la disprezza. Dovrebbe invece integrarla, e creare le condizioni perché questa si possa esprimere al meglio, nel rispetto di tutti. È tempo di imparare la lezione e cambiare drasticamente la rotta, abbracciando il modello laico liberale angloamericano, proteggendo le istituzioni politiche dagli estremismi ma tutelando la libertà religiosa individuale in tutte le sue espressioni pacifiche, e creare finalmente le condizioni per un libero mercato religioso nel nostro continente.
Il popolo ha sempre ragione? Sì, ma solo quando non ha torto
di Andrea Molle
Pur costituendo una innegabile tragedia, la pandemia è forse l’ultima occasione per ricreare delle basi per una dialettica democratica finalmente sana. La prima lezione che dovremmo imparare è che le opinioni, anche quando basate su fatti concreti, non sono tutte uguali e che soprattutto non sono ugualmente valide al fine di prendere importanti e dolorose decisioni di salute pubblica.
Ciò che in teoria appare come un’ovvietà è palesemente negato dai fatti. In questi mesi abbiamo assistito a una varietà di casi, dall’onnipresente laureato all’Università della Stada che pontifica sulla summa dello scibile umano, all’astrofisico che pretende di essere esperto di epidemie, al virologo che si improvvisa economista mentre quest’ultimo pretende di avere l’ultima parola sulle politiche da adottare per contenere gli effetti nefasti del COVID-19 solo perchè, a suo dire, tutto gira attorno al mercato. Abbiamo anche imparato, o almeno avremmo dovuto, che nella confusione creata da opinioni così diverse sia difficile resistere alla tentazione di imporre la propria, soprattutto quando si ha il potere di farlo a colpi di decreti, o ammantandosi dell’autorità che deriva dalla scienza. Ma più di tutto, dovremmo imparare che il populismo ha un limite oggettivo, invalicabile, nella gestione delle emergenze.
I fatti di Napoli e Roma, gli ultimi di una lunga serie di espressioni del malcontento e dell’esasperazione popolare che sono destinati ad aggravarsi, ci insegnano infatti che indipendentemente dai mandanti politici o dalle infiltrazioni criminali il popolo non ha sempre ragione e che dalla somma degli sfrenati egoismi individuali non emerge mai il bene collettivo.
A furia di coccolare le peggiori tendenze del popolo, in un clima di perenne campagna elettorale, Meloni e Salvini sono oggi palesemente a disagio. Il loro silenzio e l’incapacità di offrire soluzioni nascondono il fatto che i due leader della destra italiana hanno perduto ogni capacità di guidare le masse e hanno finito per farsi guidare dal mostro che loro stessi hanno creato.
La politica non deve certo imporre la propria volontà, ma adempiere al compito stesso per cui è nata e cioè quello di guidare il popolo, educare gli individui al rispetto delle necessità collettive, risolvere gli inevitabili conflitti e le ovvie esternalità derivate dalla presenza di interessi contrastanti. Una politica che, specialmente a destra, dovrebbe liberarsi del fantasma delle masse amorfe e urlanti e ispirarsi a valori di libertà, prima di tutto individuale, ma anche di pacata promozione dell’ordine sociale, che rende possibile la convivenza e il progresso culturale del Paese.
Con l’ipotesi, sempre più concreta, di un nuovo lockdown nazionale che avrà effetti devastanti sul paese è necessario che la politica ritrovi la sua dimensione originaria di “arte del governare”. Oggi più che mai non c’è spazio per una politica che si limita a vincere le elezioni e non c’è spazio per i populisti.
Am Israel Chai, il popolo di Israele vive!
di Andrea Molle
Siamo in una palestra di Krav Maga, l’arte marziale israeliana portata in auge dai film di Jason Bourne e che oggi nel mondo èsinonimo di difesa personale. Ad apertura, mentre l’istruttore si sta preparando per la prima classe del mattino, gli si avvicina un uomo, sulla trentina, capelli rasati, muscoli in bella vista e corpo pieno di tatuaggi. L’istruttore chiede in cosa possa essergli utili e l’uomo risponde, con entusiasmo, che vuole iscriversi al corso ed imparare il sistema di combattimento delle forze di difesa israeliane. L’istruttore è un po’ sorpreso, ma dopotutto è il suo lavoro e i due cominciano a parlare. Il potenziale studente ha fatto ricerche su internet e si dice entusiasta del Krav Maga, ma dopo poco si ferma a riflettere e, con un sorriso nervoso e indicando il tatuaggio di una croce celtica, domanda: “ma ci sono ebrei qui? Non perchè sai, con gli ebrei io non vado d’accordo!”.
L’atmosfera si fa tesa, i due si distanziano e si guardano negli occhi. Lo sguardo è serio e i nervi sono tesi. Con voce pacata ma decisa, l’istruttore spiega al potenziale cliente che ci sono molti ebrei tra gli studenti e che tutti gli istruttori, compreso lui, sono di religione ebraica. Gli spiega indicando la bandiera di Israele che reca al centro il Magen David (la Stella di David), costernato, che il Krav Maga è oggi parte della cultura del popolo ebraico tanto quanto lo sono il Judo per il Giappone o il Kung Fu per la Cina. A questo punto l’idillio si interrompe, l’uomo fa marcia indientro, sembra sorpreso, quasi scocciato dall’apprendere che Israele è uno stato ebraico e che il Krav Maga è praticato da quella che lui considera una “razza inferiore”. Vaneggia di Soros, del globalismo, del complotto pluto-giudaico-massonico e della difesa della cultura europea bianca e cristiana. Siamo ad un passo dalla cospirazione dei Rettiliani, ma a questo punto si gira e se ne va sbattendo la porta.
Questo racconto è paradossale, tanto da sembrare inventato, maè un fatto realmente accaduto ed è più comune di quanto si possa credere. Ciò che illustra è la grande bugia dell’estrema destrache si dice, a parole, innamorata di Israele. Quell’estrema destra per cui Israele è diventato il simbolo del successo, della forza di un popolo, che ha trasformato in oasi un deserto. Quell’estrema destra per cui Israele è virtuoso perché è aggressivo e si oppone, a loro dire, all’Islam ed ai paesi Arabi del Medio Oriente, all’Iran. Quell’estrema destra i cui leader visitanoperiodicamente il Muro del Pianto, indossano la kippah e plaudono a Trump che sposta l’Ambasciata americana a Gerusalemme.
Quell’estrema destra che però negherà sempre il diritto di esistere agli ebrei. Quell’estrema destra che, paradossalmente aiutata dalla sinistra che si rivela spesso ugualmente antisemita, vuole separare Israele e il sionismo dal popolo ebraico. Non facciamoci ingannare dalle promesse allettanti, dalle parole suadenti di chi oggi cerca di farsi passare per liberale e moderato: i principi dell’estrema destra, che oggi va sotto il nome di sovranista, sono e saranno sempre antitetici ai valori universali e gli ideali che il popolo ebraico rappresenta.
Già in passato, negli anni ’30 del secolo scorso, non pochi furono gli ebrei politicamente conservatori che si lasciarono ingannare dal fascismo e dal nazismo, partecipando entusiasticamente a quegli stessi regimi che sono pochi anni dopo non esistarono a sterminarli e si fecero colpevoli dellamorte di più di sei milioni di ebrei nella Shoah, l’Olocausto.
Oggi la storia sembra ripetersi e l’estrema destra ha riacquistatopiano piano il suo fascino in un’Europa indebolita dalla crisi economica e sociale aggravata dalla pandemia di COVID-19. Questa volta però è tempo di dire basta e assumersi la responsabilità di fermarla prima che sia troppo tardi. Senza odio o rancore, ma con risolutezza. La Senatrice Liliana Segre, sopravvissuta ai campi di sterminio nazisti, oggi ci ha indicato la via: non c’è perdono e non c’è dimenticanza. Accogliamo dunque, ebrei e non ebrei, il suo invito e, con le parole delcelebre poeta isreaeliano Yitzhak Lamdan, affermiamo entusiasticamente שנית מצדה לא תיפול che “mai più Masada cadrà”.
L’inganno del sovranismo, che non è la tutela della sovranità
di Andrea Molle
Diciamolo chiaramente e una volta per tutte: il sovranismo non dovrebbe esistere, nè come concetto nè come prassi politica. È solo una truffa semantica, orchestrata a fini elettorarli, che fa leva sugli istinti tribali più rozzi di un popolo esasperato dalla gelosia e, soprattutto, spaventato del senso di crescente irrilevanza. Un popolo che per disperazione si affida acriticamente a concetti semplici e rassicuranti, ma del tutto effimeri, come l’autarchia.
Ad esistere è invece il concetto politico-giuridico di sovranità che, al pari dell’interesse nazionale, svolge un ruolo fondamentale nell’ambito delle moderne relazioni internazionali. La sovranità sancisce infatti l’indipendenza giuridica e politica di uno stato rispetto agli altri. Essa consiste in un principio che si afferma nell’era moderna in contrapposizione alla concezione organicista della politica medievale, basata sulla frantumazione del potere ai diversi livelli della gerarchia feudale subordinata al potere temporale della Chiesa.
La sovranità, va detto, non è concessa da nessuno ma viene ad essere unicamente riconosciuta. Prima di tutto, essa adempie alla basilare funzione politica di legittimare il monopolio della forza fisica che lo Stato esercita sia su una popolazione e su un territorio sia nell’ambito delle dispute internazionali al fine di tutelare il proprio interesse nazionale. E tuttavia, proprio in base all’interesse nazionale cui è idealmente subordinato, il principio di sovranità non esclude che lo Stato possa e debba decidere, di concerto con altri Stati, di limitare lo spazio della propria azione legittima delegando alcune competenze ad organizzazioni sovranazionali, ovvero trasferire loro elementi di sovranità tramite trattati o leggi proprio per tutelare quegli interessi che sono condivisi da altri.
La truffa di chi si definisce sovranista, in assoluta malafede, è quella di presentare invece la sovranità come un dogma immutabile, un gioco a somma zero, un concetto apparentemente senza limiti, ma che paradossalmente viene definito in modo estremamente banale e cioè come il rifiuto a prescindere di ogni tipo di limitazione sovranazionale.
Il sovranista si pone dunque in contrapposizione alla ormai ovvia esistenza di interessi nazionali condivisi che necessitano dell’azione congiunta degli stati, tramite le organizzazioni internazionali, in un mondo sempre più caratterizzato da problemi globali. Va detto che la promessa sovranista, quella del ritorno ad una mitologica età dell’oro fatta di ricchezza e potere, è estremamente allettante nella sua banalità e rozzezza. Ma il limite di questa autarchia e della sovranità esasperata che essa implica, dovrebbe essere evidente a tutti quando si tratta di affrontare problemi complessi quali, ad esempio, l’immigrazione, la politica energetica, le grandi crisi etno-religiose.
Al pari del credo pseudo-religioso liberale della “mano invisibile”, il sovranismo si dice convinto che dalla somma degli egoismi nazionali possa sorgere il benessere della comunità internazionale. Ma a chi studia la storia è chiaro che dall’egoismo nazionale, da non confondere con il nazionalismo, possono solo derivare disuguaglianze e conflitti. Il sovranismo è dunque un paradosso politico proprio perchè si colloca in antitesi con ciò che dice di perseguire, l’interesse nazionale e il benessere dei popoli, ostacolando ogni tipo di progresso e soluzione alle grandi sfide globali.