Quota100 e reddito di cittadinanza: la “spesa cattiva” che ha fatto male all’Italia

Mancano ancora pochi mesi alla scadenza della legislatura e presto si aprirà ufficialmente la campagna eletorale per le prossime elezioni politiche del 2023. In attesa delle mirabolanti promesse dei partiti, è tempo di bilanci su ciò che è stato fatto e, soprattutto, su cosa non ha funzionato, visto che il Paese arranca più del dovuto dal punto di vista economico. Senza contare che presto terminerà anche la tregua concessa da Bruxelles in ragione della pandemia.

I dati ci dicono che le misure maggiormente costose per l’erario nazionale in questi anni sono state Quota 100 e Reddito di Cittadinanza, vale a dire quelle più populiste e “acchiappavoti”, fortemente volute da Lega e Movimento 5 Stelle. Manco a dirlo. Alla luce dei fatti, e anche al netto di pandemia e guerra, queste misure si sono dimostrate – per rimanere alla distinzione fatta a suo tempo da Mario Draghi – “spesa cattiva” che oggi non possiamo più permetterci il lusso di sostenere, sopratutto perchè si tratta di spesa completamente improduttiva.

Lasciando sullo sfondo Quota 100, su cui magari torneremo più avanti, ci sembra che, alla luce dell’attualità politica sia necessario approfondire il ragionamento sul reddito di cittadinanza, anche sulla base di un recentissimo rapporto della Caritas, fonte senza dubbio qualificata in tema di disagio e povertà dei nuclei familiari italiani. Ebbene, da tale rapporto emergono dati inquietanti che dovrebbero far riflettere attentamente sulla direzione intrapresa e magari invertirla rapidamente, anche a prezzo di scelte imopolari.

La Caritas ci dice sostanzialmente che una famiglia su due fra quelle che astrattamente avrebbero diritto alla misura di sostegno di fatto non la percepisce. Anzi, per la precisione, il 44% fruisce del RdC mentre il 56% ne resta escluso. E fra chi ne fruisce un terzo non ne avrebbe veramente diritto (Falsi Positivi). Percentuale – quella dei falsi positivi – che sale sino al  51% per la Banca d’Italia. Insomma, dati impietosi che certificano una disfatta totale. Sempre sulla base dei dati presi in considerazione, emerge che gli esclusi tendenzialmente risiedono a nord, hanno più figli minori, spesso sono stranieri. Sembra un paradosso escludre chi pare aver maggiormente bisogno di sostegno e invece è la triste realtà di una misura “tagliata con l’accetta” con parametri a scala “piatta” che rendono difficile operare le giuste modulazioni per garantire equità sociale.

Il parametro del patrimonio mobiliare – primo fattore di esclusione dal RdC– ne è la riprova.

Tenendo cioè rigido il parametro del valore dei beni, non si considera che tale valore perde progressivamente efficacia reddittuale al crescere del numero dei componenti della famigilia, con la conseguenza che il tasso di inclusione del RdC si rivela decrescente all’aumentare  del nucleo.

Altro dato inquietante è quello che proviene dalla distribuzione geografica delle famiglie che percepiscono il reddito di cittadinanza. Il Nord vede un 37% dei fruitori della misura; percentuale che quasi raddoppia al Centro, dove i percettori ammontano al 69%, e  diventa esplosiva al Sud (percentuale del 95%). Segno ancora una volta che siamo ben lontani dal  completamento dell’Unità di Italia che deve recare con sé anche una maggiore armonizzazione economica tra le due metà del Paese. Invece, anche sotto questo punto di vista, siamo di fronte al fallimento completo.

La sintesi che si può provare a trarre da questi dati non lascia proprio dormire sonni tranquilli. Lentezze burocratiche, parametri poco chiari dagli esiti sovente paradossalli, alte percentuali di falsi positivi, squlibrio geografico nella distribuzione, mostrano che tutti gil anni spendiamo male gli 8 miliardi di euro che servono per finanziare il RdC e che lo Stato non riesce a controllare con efficacia l’erogazione della misura. In poche parole: sperperi di denaro pubblico!

Una vera e propria Caporetto per il RdC a distanza di 3 anni dalla sua introduzione, che ha fatto gridare allo scandalo più d’uno, inducendo Matteo Renzi a invocare l’abrogazione della misura. Ad avviso della Buona Destra, come già ampiamente detto in altra sede, non è con la demagogia che si combatte una misura demagogica; ciò nondimeno occorre una riflessione seria e profonda che vada nella direzione di una radicale modifica del RdC che sappia far tesoro degli evidenti errori commessi. Il tempo del populsmo deve finire il prima possibile, a maggior ragione in campo economico. Non possiamo più permetterci spese improduttive che hanno spesso l’amaro sapore di mance elettorali, ma occorre creare crescita attraverso gli investimenti senza i quali siamo destinati al disastro.  Ne va del futuro del Paese e dei nostri figli.