Non appropriamoci del “mito Falcone” ma facciamo rivivere Giovanni oggi e sempre

Faceva caldo quella sera. Nonostante l’ora, l’afa romana si faceva sentire anche negli uffici del Ministero dell’Interno. Giovanni era sereno, aveva riordinato la propria scrivania con una maniacale ossessività che non ricordava di aver mai avuto a Palermo, dove il suo tavolo era sempre pieno di carte, fascicoli e appunti e l’ufficio oscurato da una coltre di fumo denso di sigaretta.

Ma quel venerdì di primavera inoltrata il tempo sembrava immobile e l’atmosfera sembrava quasi banale. Un normale ufficio che chiudeva alla vigilia di un week end di maggio. Giovanni salutò Liliana Milella con un breve “ci vediamo lunedì” che lasciò nella donna un inspiegabile brivido che le corse lungo tutta la schiena. Non avrebbe saputo dire il perché, si limitò a guardare rapidamente l’ufficio del direttore degli Affari penali, e lo trovò di un ordine macabro e inquietante. Sensazioni, non avrebbe saputo spiegarne il senso, come quando il corpo ti comunica qualcosa che la mente ancora non conosce e lascia scorrere una vuota eco di paura priva di contorni e per questo ancora più spaventosa. E purtroppo, quel corpo, quelle sensazioni, avevano ragione, perché Giovanni non sarebbe tornato a lavorare quel lunedì.

Eppure era sereno. Finalmente dopo mesi di super lavoro si era concesso un week end di vacanza. Il primo dopo tanti passati a lavorare. Avrebbe finalmente portato la sua Francesca a Favignana, a vedere la mattanza dei tonni. Spettacolo bellissimo e macabro al tempo stesso, vera e propria tradizione siciliana che si sarebbe celebrata proprio domenica 24 maggio. Ma, quel che aspettava il giudice palermitano era ben altra mattanza.

Il pericolo era concreto, reale e tangibile. Il maxiprocesso aveva retto alla prova del nove. Il 30 gennaio del 1992 la Suprema Corte di Cassazione aveva confermato le condanne irrogate a boss e picciotti. E, finalmente, con il metodo della “rotazione” ideato proprio da Falcone, il maxi non era finito alla sezione di Corrado Carnevale, il giudice “ammazza-sentenze” che con la scusa di cavilli tecnici aveva nel tempo annullato tante condanne ai mafiosi. Ma questa volta no. Questa volta il maxiprocesso aveva retto.

Giovanni ne era felice, ma non nascondeva il pericolo. “Adesso può succedere di tutto” aveva detto pochi giorni dopo la sentenza della Cassazione e, infatti, la reazione terribile, brutale e feroce di Cosa Nostra non si era fatta attendere. Nel marzo del ‘92 sul lungomare di Mondello la mafia aveva regolato i conti con Salvo Lima, uomo politico potente, plenipotenziario di Giulio Andreotti in Sicilia e in odore di mafia. L’onorevole Lima non era riuscito ad aggiustare il maxiprocesso violando le promesse fatte alla mafia e Totò Riina si era vendicato. Purtroppo non sarebbe finita lì.

No, purtroppo Giovanni Falcone non sarebbe tornato al suo lavoro il lunedì. Purtroppo Giovanni Falcone e Francesca Morvillo non avrebbero visto la mattanza di Favignana. Purtroppo la vita di Falcone e della moglie stava per finire.

Alle 17.58 di quel sabato 23 maggio 1992, nel tratto di autostrada che dall’aeroporto di Punta Raisi va a Palermo all’altezza dello svincolo di Capaci, 100 kg di tritolo procurati da Michelangelo Rampulla, sistemati con pignola dovizia dai corleonesi di Totò Riina e fatti brillare da Giovanni Brusca detto U’ Puorc, posero fine alla vita di Giovanni Falcone, Francesca Morvillo e dei tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Vito Schifani e Rocco Dicillo.

La prima vettura blindata a saltare fu proprio la Quarto Savona 15 che apriva il corteo di scorta di Falcone. I tre agenti, con la mente e il corpo concentrati a individuare pericoli fuori, non potevano immaginare che il mostro mortale fosse sotto di loro, pronto ad aprire le fauci di cemento e inghiottire le loro giovani vite, scaraventando la vettura a chilometri di distanza senza lasciare intatta nessuna parte del loro corpo. Non si sono accorti di niente. Giovani coraggiosi devoti al loro giudice: sono morti così, prendendosi in pieno il tritolo destinato a Giovanni per un gioco bizzarro del destino. Falcone pochi metri prima del botto tolse le chiavi dal cruscotto per darle alla moglie, visto che insieme a quelle della macchina ci sono le chiavi di casa. Lui, concentrato sul lavoro, come sempre, sovrappensiero, sfila il tutto e la macchina rallenta improvvisamente e bruscamente. E quando U’Puorc schiaccia il pulsante della morte, non è la macchina di Falcone a finire nelle fauci del mostro, ma quella dei tre agenti della sua scorta.

Tuttavia, dopo il boato e l’esplosione un pezzo di autostrada si solleva in verticale come se qualcuno avesse costruito un grattacielo in pochi secondi: la Croma bianca del giudice ci va a sbattere violentemente in un urto mortale che non lascia scampo né a Giovanni né a Francesca. Si sarebbero salvati se avessero indossato le cinture di sicurezza? C’è chi dice di sì. Il destino è davvero beffardo: una cintura di sicurezza tra la vita e la morte. Una cintura di sicurezza fra l’Italia onesta e la barbarie mafiosa. Quella cintura non c’era, il destino si compie e chiude il conto che il giudice aveva aperto con Cosa Nostra. Giovanni e Francesca si sarebbero sicuramente salvati se si fossero seduti dietro dove, infatti, si trova l’autista Giuseppe Costanza, che sopravvive quasi illeso. Il destino è beffardo: Falcone “voleva sempre guidare lui la blindata” e questo gli costerà la vita.

Palermo ore 17:58, l’”attentatuni” ha avuto appena luogo. Gli agenti di scorta della terza vettura si aggirano, armi in mano, sconvolti tra i rottami delle auto e i resti dei colleghi. Il mondo si ferma. La mafia sembra invincibile e lo sembrerà anche il 19 di luglio, quando un’autobomba farà saltare in aria Paolo Borsellino e i cinque agenti della sua scorta in via D’Amelio a Palermo. Lo sembrerà in quel biennio esplosivo, quando le bombe scoppieranno a Firenze, Roma e Milano seminando morte e terrore su tutto lo stivale.

Ma dalle ore 17:58 di quel caldo 23 maggio palermitano la mafia ha segnato la sua sconfitta, anche se non lo sa ancora. Da quel momento tragico si svilupperà una coscienza nuova nei siciliani e negli italiani tutti. Una comunità più consapevole che sceglie da che parte stare. Con lo Stato contro la mafia. Purtroppo non durerà tanto, ma in quegli anni sembrerà davvero che quel sacrificio non sia stato vano.

Falcone muore in ospedale, Francesca anche, non prima di aver chiesto dove era il suo Giovanni. Nessuna speranza. Troppe lesioni, troppi traumi interni. Non poteva sopravvivere, anche se ci abbiamo sperato tutti. Buio. Fine. Game over.

E, subito, appena morto, parte la caccia all’eredità professionale e morale di Falcone. E chi se ne vuole impossessare per primo è proprio chi in vita lo ha ostacolato, umiliato e vilipeso. Tanti, troppi – e continueranno per anni – si ergeranno ad autoelettisi eredi di Giovanni Falcone. Quegli stessi che gli preferirono Antonino Meli alla guida dell’Ufficio Istruzione, quegli stessi che gli preferirono Domenico Sica alla guida dell’Alto Commissariato per la lotta alla mafia, quegli stessi che lo accusarono di essersi messo da solo la bomba all’Addaura nel 1989 per agevolare la sua nomina a Procuratore Aggiunto di Palermo. Quelli che lo accusarono di “tenere le carte nei cassetti” e che oggi continuano a fare politica e ad amministrare la città. Quegli stessi che lo costrinsero ad andarsene a Roma a dirigere l’Ufficio degli Affari Penali  del Ministero. E da lì Falcone riuscì ad essere ancor più incisivo, efficace e determinato a condurre la lotta contro la mafia. Ideò la DIA, il 41 bis, e la Superprocura, proprio da lì, da Via Arenula a Roma. Proprio da quell’ufficio che quel venerdì Falcone lasciò ordinato, forse presagendo un destino infausto e volendo lasciare tutto in regola.

Ebbene, sbagliano quelli che tirano Falcone per la giacchetta da morto. Quell’eredità non è loro. Non è dei magistrati, non è dei politici. Quell’eredità è di tutti noi, dei giovani nati dopo quel funesto 1992. Perché Falcone ci ha insegnato non solo un metodo di indagine, ci ha insegnato che si può usare il diritto per vincere contro il kalashnikov. Che lo Stato non deve abdicare ai propri principi democratici e legalitari per vincere una guerra di emergenza, Questo era Giovanni Falcone, un magistrato, un giudice che conosceva il diritto e lo usava per combattere una guerra che doveva essere di tutti noi. E tutti noi lo abbiamo lasciato solo.

Ecco perchè è un eroe. Non per i successi. Non per il maxiprocesso, non per Buscetta. E’ un eroe per i fallimenti, per la resistenza, per l’abnegazione, per il valore morale di cui è intriso il suo lavoro di giurista e servitore dello Stato. Questo dovremmo ricordare in questo trentennale. Non appropriamoci indebitamente del “mito Falcone”, ma facciamo vivere Giovanni oggi, domani e sempre.