Lucia, Manfredi e Fiammetta non ci saranno. E la loro assenza fa rumore come l’esplosione di quel giorno maledetto di trent’anni fa. Il 19 luglio 1992 il loro padre, il giudice antimafia Paolo Borsellino, insieme agli agenti della sua scorta – Agostino Catalano, Emanuela Loi, Vincenzo Li Muli, Walter Eddie Cosina e Claudio Traina -, furono trucidati da Cosa Nostra nella strage di via D’Amelio a Palermo.
I figli del giudice Borsellino e il fratello Salvatore non parteciperanno alle celebrazioni ufficiali per il trentennale di via D’Amelio. Perché la verità sulla morte del giudice e degli uomini della sua scorta non solo non è stata ancora trovata, ma è stata nascosta anche da parte di alcuni apparati dello Stato che hanno messo in atto il più grande depistaggio della storia d’Italia. Per questo i Borsellino oggi scelgono il silenzio e non partecipano alle iniziative e alle cerimonie ufficiali.
Perché trent’anni fa lo Stato non ha protetto davvero Paolo Borsellino nei 57 giorni che separarono le stragi di Capaci, in cui la mafia il 23 maggio 1992 uccise il giudice Giovanni Falcone e la sua scorta, e di via D’Amelio? Perché non è stata mai davvero cercata la verità sulla morte di Paolo Borsellino? Cosa c’è dietro ai depistaggi? Che fine ha fatto l’agenda rossa del giudice? Domande che risuonano ancora oggi con una eco potente tanto quanto quella dell’esplosione del 19 luglio 1992 a Palermo. Domande che dopo tre decenni restano ancora senza risposta, se pensiamo che solo pochi giorni fa il tribunale di Caltanissetta ha chiuso il processo sul depistaggio accertando le responsabilità ma non punendo i colpevoli. Per Mario Bo e Fabrizio Mattei, due dei tre poliziotti accusati di aver costruito a tavolino il falso pentito Vincenzo Scarantino – che per anni ha depistato le indagini indicando nomi di boss che nulla in realtà c’entravano con via D’Amelio – è intervenuta la prescrizione. Il terzo poliziotto, Michele Ribaudo, è stato invece assolto. E il giudice antimafia e i poliziotti della sua scorta non possono ancora riposare in pace, mentre le loro famiglie restano assetate di giustizia.
“I familiari sentono il dovere di tutelare quei nipoti che non hanno conosciuto Paolo Borsellino e ne hanno sentito parlare solo in relazione alla strage – dice l’avvocato Fabio Trizzino, marito di Lucia Borsellino -. Anni e anni di verità negate rischiano di erodere nei nipoti quella fiducia nello Stato che Paolo Borsellino, anche quando denunciava il ‘covo di vipere’ che si annidava nella procura di Palermo, non ha mai perso. Se succedesse, sarebbe l’ennesimo affronto. Il tempo della verità processuale si è chiuso, ma la verità storica non ha scadenza e per quella continueremo a combattere”.
“Ora chiediamo noi il silenzio. Alle passerelle e alla politica. Perché invece di fare tesoro di ciò che in questi trent’anni è successo, la lotta alla mafia non fa più parte di nessun programma” afferma invece con grande amarezza Salvatore Borsellino, fratello di Paolo. Parole che pesano, e che imbarazzano le istituzioni così come quei “Fuori la mafia dallo Stato” gridati gli studenti che ieri hanno sfilato in corteo sotto il Comune di Palermo.