Le contraddizioni di una politica di cui rimane solo il populismo sovranista

Calenda, in Europa, ha collocato Azione nell’ALDE/Renew Europe, rivendicando tale scelta come “naturale” a causa della sua cultura liberale che la sostiene.

Il liberalismo non è né una predicazione religiosa né un vestito da indossare a giorni alterni. Il liberalismo significa mettere al centro l’individuo nella sua totalità, non solo dal punto di vista economico, ma anche nel rapporto tra diritti e doveri, bisogni e desideri. Certamente, non è liberalismo paragonare l’individuo alla plebe a cui basta garantire un tozzo di pane, ma questo non è principalmente destra, in quanto questa è o liberale o non è destra.

Al di là di questa breve digressione, la scelta di Calenda di aderire all’ALDE, con cui mi identifico e che motiva la mia adesione ad Azione dal punto di vista di una “Buona Destra”, rivendica anche coerenza nel necessario pragmatismo politico-amministrativo nel contesto nazionale.

Da quest’altra parte, invece, si continua a proporre un’Alleanza tra socialdemocratici, liberali e popolari, che avrebbe senso solo se ci fossero i soggetti politici corrispondenti, ma poiché questa non è la realtà, si ipotizza il cosiddetto “partito della Repubblica”, che altro non è che uno dei tanti PD 2.0, e specificamente nella versione veltroniana del Lingotto. Basta rileggere gli atti. Non è chiaro quale sia il rapporto tra Azione e il partito della Repubblica, ma alla fine questo non è ciò che conta.

Il punto centrale è che la visione e la cultura liberale sono qualcosa di diverso. Ripeto che ciò potrebbe avere senso in una prospettiva di coalizione di governo di legislatura, ma mancano i soggetti. Un’altra contraddizione è continuare a interpretare la realtà politica in termini di destra e sinistra, mentre contemporaneamente si afferma, in nome di un pragmatismo portato all’eccesso, la volontà politica di superare tale frattura novecentesca ormai inutile, ma inevitabilmente la prima annulla la seconda.

La questione fondamentale non è superare il bipolarismo destra/sinistra, ma continua ad essere la mancanza di una proposta alternativa al populismo sovranista imperante nel Paese, di cui l’attuale composizione del Parlamento è una chiara espressione, e che non può essere ridotto a Fratelli d’Italia e/o ai 5 Stelle, ma richiede un’analisi politica e culturale attenta e accurata della storia della prima Repubblica. Insisto nel dire che il populismo sovranista trova le sue radici nel compromesso cattocomunista su cui è nata la repubblica e sancito dall’attuale Costituzione che ha ben poco di liberale, inevitabilmente imposto dal contesto geopolitico dell’epoca.

Un contesto geopolitico che non esiste più, ma che continua a vivere sotto traccia, continuando ad “imporre” la cultura statalista, burocratica, assistenziale che ha reso il nostro Paese tutto tranne che liberale, continuando a soggiogare la società aperta e che implica una visione del contesto globale come “nemico” verso cui occorre difendersi, e non certo coglierne le opportunità fondamentali per la crescita del Paese.

La totale mancanza di un’alternativa al populismo sovranista (non ha più senso continuare a definirlo bipopulismo), che si voglia o no definire un partito liberaldemocratico, ha come conseguenza rendere l’opposizione allo status quo stancamente rituale, in cui il putinismo e la decrescita felice, che immagina che possa esistere una “sana” povertà, continuano ad essere elementi aberranti e deliranti di questa cultura illiberale. Il populismo sovranista è pericolosamente anche questo, è il rifiuto della libertà, della democrazia e dello stato di diritto, in cui il pericolo non è rappresentato e mai sarà rappresentato dal riproporsi delle ideologie nefaste del primo Novecento. Semmai è l’antifascismo chiuso nel suo simulacro che ha bisogno, per sopravvivere, del suo opposto, essendo storicamente incapace di evolversi in anti-totalitarismo. È il Putinismo che incarna la dimensione del potere populista sovranista, e come questo si pone trasversalmente nel contesto destra-sinistra.

Leggi anche: I veri complottisti contro la Meloni

A questo non si può continuare a contrapporre, attraverso la tecnocrazia della competenza abbinata al pragmatismo, ipotetiche soluzioni ai singoli problemi in una logica collaborativa con l’attuale governo, da cui non può mai emergere una visione complessiva del Paese. Ecco dunque un’altra contraddizione: l’alternativa non può esistere se non delinea la sua visione futura del Paese. Una visione di Paese che non può prescindere dallo scontro di civiltà in atto tra liberalismo e illiberalismo, e ridefinire conseguentemente il nuovo patto fondativo della società italiana.

Per questo è fondamentale e non più rinviabile la presa d’atto che va chiusa la fase storica della prima Repubblica, aprire realmente la fase della seconda Repubblica attraverso la riscrittura della Carta Costituzionale tutta in senso liberale. Continuare a considerare l’attuale Costituzione, al di là della definizione sempre più astratta della Costituzione più bella del mondo, vuol dire preservare quel compromesso da cui è scaturita come elemento identitario della società quando essa si è totalmente trasformata e necessita di un nuovo patto fondativo. Il passaggio liberale dalla società fondata sul lavoro, il cui significato era relativo alla fase geopolitica dell’epoca, alla società fondata sul merito, sulle opportunità e sulla centralità dell’individuo, ridefinendo il rapporto tra diritti e doveri, bisogni e desideri, è il passaggio ineludibile senza il quale tutto rimane statico, emergendo il rituale stanco di una politica che si limita a sopravvivere con il piccolo cabotaggio, incapace di pensare e governare i necessari processi di trasformazione. Una forza politica può decidere se continuare a essere marginale, rimanendo ancorata ai vecchi schemi e linguaggi indubbiamente rassicuranti, oppure rischiare, mettersi in gioco e ridefinirsi. Rischiare, mettersi in gioco e ridefinirsi è possibile solo avviando la fase congressuale, non limitata ai soli territori. I congressi sono l’occasione per coinvolgere e confrontarsi con la società, ridefinire l’ambito valoriale e prospettare un’idea di società alla quale chiedere l’adesione e la militanza. I congressi sono il guardarsi l’ombelico se si limitano a ridefinire gli equilibri interni e in questo caso sono totalmente inutili. Azione ha avviato la fase congressuale limitatamente ai territori, con il rischio di sprofondare nel localismo, mancando il riferimento nazionale della visione di una società futura a cui i territori si devono necessariamente agganciare.

È il momento del coraggio e delle sfide, non dell’ennesima occasione mancata.