L’affaire Davigo nel trentennale di Mani Pulite apre a un’ampia riflessione della giustizia

di Kishore Bombaci

Il contrappasso dantesco per il quale il dottor Piercamillo Davigo, proprio nello stesso giorno in cui si celebra il trentennale dell’inchiesta Mani Pulite, viene rinviato a giudizio per “rivelazione di segreti d’ufficio” apre le porte a una doverosa riflessione su cosa è stata la giustizia e quali sono le conseguenze che ancora oggi scontiamo.

Premesso che speriamo vivamente che Davigo ne esca assolto con formula piena, qualcosa occorre pur dirla, essendo la vicenda in sé piuttosto grave. Secondo l’ipotesi accusatoria Davigo avrebbe direttamente rivelato a David Ermini (vicepresidente del CSM), a Giovanni Salvi (procuratore generale di Cassazione) e a Nicola Morra (presidente della Commissione Antimafia) il contenuto dei verbali di Piero Amara sulla presunta esistenza di una superloggia “massonica” nota con il nome di “Ungheria”, nella quale alcuni  magistrati, professionisti, imprenditori e ufficiali di forze di polizia si incontravano per decidere e pilotare le nomine di magistrati al CSM e aggiustare indagini e processi. Accuse gravissime che dovevano trovare sbocco investigativo e che ancora non risultano né confermate né smentite. Inoltre, a seguito del pensionamento per ragioni di età del dottor Davigo, la segretaria dello stesso avrebbe – sempre secondo l’ipotesi accusatoria – consegnato i verbali di Amara alle redazioni di Repubblica e del Fatto Quotidiano, che però non li pubblicarono.

Insomma, fatti piuttosto gravi che, se dimostrati, getterebbero una inquietante ombra (l’ennesima) sul mondo giustizia. Anche perché emergerebbero delle motivazioni di natura personale (contrasti con il dottor Sebastiano Ardita, parte civile nel processo) e perché  la divulgazione dei suddetti verbali potrebbe avere conseguenze devastanti sulle indagini stesse relative alla Loggia Ungheria. Vedremo, come si suol dire la magistratura farà il suo dovere in sede processuale (già per il pm Storari è stata richiesta condanna a 6 mesi con il rito abbreviato) e, come detto auspichiamo la piena innocenza di Davigo. E’ tuttavia paradossale il destino riservato all’ex pm di Mani Pulite, generalmente noto per essere un “duro”  nei confronti di indagati e imputati e che oggi si trova ad aspirare legittimamente a quelle stesse garanzie e a quegli stessi diritti individuali che il suo allora capo Francesco Saverio Borrelli – in una intervista a Micromega nel 1995 – ebbe a definire legittimamente comprimibili in caso di emergenza.

Questa vicenda quindi apre le porte a un dibattito su cos’è la giustizia oggi e quanta importanza ha avuto l’indagine di Mani Pulite con i suoi portati processuali (ad esempio l’uso della carcerazione preventiva, oggi custodia cautelare) e socio-psicologici. Perché il portato storico di quel periodo ha prodotto i suoi frutti a trent’anni di distanza, attraverso la voce di un partito che  è prima forza parlamentare e socio di maggioranza nei Governi che si sono succeduti dal 2018 ad oggi, e che di quella cultura è figlio. La frase attribuita a Davigo per il quale “non esistono innocenti ma solo colpevoli per i quali è mancata la prova”, è antenata, nemmeno troppo lontana, del pensiero (sic) dell’ex Ministro Bonafede per il quale “tanto in galera non ci finiscono gli innocenti” ed esprime uno specifico modo di intendere la giustizia come una manichea lotta fra il bene e il male (categorie stabilite a prescindere, ovviamente da chi si è autoeletto a forza del bene), dove non c’è spazio per nient’altro.

Una specie di cartone animato dove dovrebbe essere facile prendere posizione. L’idea che la persecuzione del crimine possa essere condotta a scapito, laddove necessaria, dei diritti e delle garanzie individuali è qualcosa di profondamente sbagliato in uno stato di diritto democratico e che si è rivelato nel tempo inefficace, tanto che gli stessi protagonisti di allora lamentano una corruzione molto più marcata oggi che nel 1992. Eppure, nell’immaginario collettivo si è  radicata l’idea per la quale il magistrato che indaga  sul politico è buono a prescindere, soprattutto se sovraesposto mediaticamente; quasi come un novello San Giorgio che per liberare la sua “dama Giustizia” combatte senza sosta il Drago. Che poi il Drago sia innocente, o, per dirla con la Costituzione, presuntivamente non colpevole, è dettaglio  trascurabile. Quello che importa è vendere un prodotto semplificato che non porti a porsi delle domande.

A ciò si aggiunge quello che Luigi Di Gregorio nel suo penetrante saggio “Demopatia” chiama il fattore M, ossia la saldatura fra magistratura e (certi) media. Scompare la distinzione fra indagato-imputato e condannato. Perciò, un vecchio avviso di garanzia reso pubblico equivale a una condanna morale e politica, ampiamente enfatizzata dai media, i quali, tuttavia, in caso di assoluzione, sono assai restii a dare medesimo risalto. Siamo all’antitesi della prestigiosa storia giuridica di questo paese.

La Giustizia è una cosa seria. Il sistema ha certo bisogno di importanti riforme nell’interesse di tutti e per questo come Buona Destra non si può che essere contrari alla logica semplicistica con la quale da trent’anni a questa parte viene presentato il tema anche nel dibattito pubblico. Davigo ha tutta la nostra umana vicinanza con la certezza che saprà discolparsi con specifiche prove di innocenza, e non solo per mancanza di prove di colpevolezza.