La mamma di Luana un anno dopo: “E’ un’altra guerra che continua a fare vittime”

È uscita per andare a lavorare il 3 maggio di un anno fa e a casa non è più tornata. Nella fabbrica tessile dove lavorava, a Montemurlo in provincia di Prato, è stata letteralmente inghiottita dai rulli di un orditoio a cui erano state tolti i dispositivi di sicurezza per aumentare la produzione. Luana D’Orazio aveva 22 anni e un bimbo di cinque, Alessio, ed è morta così, in un incidente sul lavoro un anno fa. Un incidente sul lavoro che si sarebbe potuto evitare se dalla ditta in cui era impiegata come apprendista avesse rispettato tutte le regole sulla sicurezza.

“I lavoratori dovrebbero scendere in piazza e urlare, non c’è da festeggiare. Non è accettabile che una madre, un padre o un figlio escano al mattino senza sapere se rivedranno i propri cari alla sera”. Sono piene di dolore le parole di Emma Marrazzo, la mamma di Luana, che oggi cresce il nipotino privato della mamma. “In questa casa prima c’era allegria – racconta a Repubblica -, c’era vita. Ora mi aggrappo solo ad Alessio, al suo buonumore di bambino. Appena ha imparato a tenere in mano la penna, il primo nome che ha scritto è stato quello della madre”.

“Le morti sul lavoro sono un’altra guerra – sentenzia Emma Marrazzo -, un massacro quotidiano che fa tre vittime al giorno, di cui non si parla abbastanza. In questo anno ho raccontato Luana nelle scuole: forse la sua storia ha risvegliato un po’ di attenzione sul tema. Ma ancora non basta, ogni giorno altre vittime. Questo è il momento di non mollare, di investire risorse. Ed è compito della politica farlo. Le risorse servono, perché serve personale da inviare nelle ditte, per aumentare i controlli. Controlli più frequenti nelle aziende, che siano a sorpresa, e che spulcino ogni dettaglio. Troppo spesso queste verifiche vengono fatte saltuariamente e quasi annunciate: così valgono a poco. Dovrebbero mettere me telecamere nelle fabbriche, così saprei cosa è successo a mia figlia. Se avesse saputo che il suo orditoio era stato manomesso, come afferma la procura di Prato, sarebbe corsa a denunciare. Quella saracinesca doveva rimanere abbassata, peccato che a lei nessuno lo abbia mai detto. Ci vorrebbe anche più trasparenza nei contratti, quello di mia figlia diceva cose diverse dalla realtà dei fatti: Luana era inquadrata con una mansione assai diversa da quella per la quale di fatto era impiegata”.

Per la morte di Luana sono indagati la titolare dell’azienda e il marito responsabile della sicurezza: avrebbero consapevolmente rimosso i blocchi di protezione all’orditoio su cui lavorava Luana per avere una maggiore resa nella produzione, procurandone però così indirettamente l’orribile morte. “La titolare chiede di potermi venire a trovare, risposi di sì, poi non si è fatta più sentire – continua la mamma della vittima -. Capisco che debba difendersi, ma avrei voluto che ammettesse di aver sbagliato, che chiedesse scusa. Nessuno mi ha mai chiesto scusa. Per il futuro mi auguro che nessun genitore debba sopportare ciò che sto passando io. Che il lavoro sia davvero sicuro. Niente mi ridarà mia figlia, ma forse se potessi dire che dopo la sua morte qualcosa è cambiato soffrirei di meno”.

Oltre alla titolare dell’azienda dove è morta Luana, neanche i colleghi della giovane si sono fatti mai vivi con Emma. Tranne una, Anda Morena, che a seguito dell’”abbraccio mortale” (definizione usata dalla procura di Prato) dell’orditoio che ha ucciso ma mamma ventiduenne si è licenziata. @C’è una scena che ricorderò sempre – racconta la donna -. Era il giorno del funerale, io accanto alla mamma e ai familiari di Luana, gli altri colleghi tutti intorno alla titolare della ditta. Lì ho capito che eravamo diversi e che ci separava un mondo. Mi sono sentita profondamente sola”.

“Era l’immagine della felicità, con un sorriso splendente e contagioso – ricorda ancora Anda, caduta in forte depressione dopo la morte di Luana -. Pochi giorni dopo l’incidente ho provato a rientrare a lavoro, ma non ce l’ho fatta. Ogni volta rivivevo quel momento e alla fine mi sono licenziata. Ancora oggi fatico a elaborare e ogni giorno è una battaglia. Eri lì quel giorno, sono entrata, ci siamo scambiati un saluto e sono andata in bagno. Poco dopo l’ho sentita dire qualcosa come ‘Oh, oh’. Mi si è gelato il sangue, il tempo di uscire e ho visto lei nell’orditoio, i colleghi e i tecnici intorno. Qualcuno già parlava della saracinesca abbassata”.

Una tragedia che si poteva e si doveva evitarE. Ma su cui si è anche alzato un muro di omertà. “Non c’è mai stato un bel clima in azienda, almeno per quanto mi riguarda, ma dopo l’incidente è diventato insostenibile e ho deciso di lasciare – conclude -. Non ci sono state intimidazioni, sia chiaro, ma ho avvertito ostilità per come mi sono subito schierata. E la scena del funerale, i colleghi accanto alla titolare come a farle muro, e io dall’altra parte con la mamma di Luana, mi ha segnato. Era appena morta una ragazza, madre di un bambino, sentivo che c’era solo una parte in cui potevo stare”. La parte giusta.