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Il sistema giudiziario vulnus permanente per la nostra democrazia

Si continua giustamente a sottolineare che il fallimento dell’ultimo referendum è da imputare ai partiti, ad un modo di fare politica sempre più distante dalla gente. Come evidenzia però Angelo Panebianco, nel suo ultimo editoriale “I diritti nel Limbo”, bisognerebbe porre l’accento anche su un’altra questione: anche se ci fosse stata una vera campagna referendaria e dunque una informazione diffusa, la percentuale di votanti sarebbe stata molto più alta ma il quorum non sarebbe stato ugualmente raggiunto. I fautori del no assieme agli astensionisti avrebbero reso vano comunque il referendum. Proprio perché come diceva Totò “è la somma che fa il totale”.

Ad ogni modo “il fallimento non elimina il problema, la malattia di cui soffre il sistema giudiziario”, rimarca Panebianco. “Il funzionamento del sistema giustizia ci dice ciò che c’è da sapere sulla qualità di una democrazia. I diritti del cittadino diventano carta straccia quando, da un lato, chiunque abbia un diritto leso, non trovi, con la massima rapidità possibile, un giudice, penale
o civile, che gli renda giustizia”, spiega il politologo. Riferendosi alla giustizia penale, Panebianco ha dichiarato poi che “un cittadino indagato o inquisito conserva intatti i suoi diritti costituzionali solo a certe condizioni: se ci sono garanzie contro gli arresti ingiustificati, tutela del suo diritto a non essere trattato da colpevole prima che intervenga una sentenza definitiva e, per conseguenza, un equilibro fra i poteri dell’accusa e quelli della difesa, e un giudice sicuramente terzo, non per buona volontà ma per necessità. Per ragioni che affondano nella nostra storia il sistema giustizia è un vulnus permanente per la democrazia italiana. Per l’inefficienza sistemica e per i suoi tratti autoritari. L’inefficienza è testimoniata dalla lunghezza dei procedimenti”.

Il discorso si fa più complesso se si guarda ai tratti autoritari: “Pubblici ministeri i cui eventuali comportamenti scorretti, lesivi dei diritti del cittadino, non sono sanzionati (…), irresponsabilità di chi si dice sottomesso solo alla legge (ma, in realtà, alla «interpretazione» della legge sua e dei suoi colleghi), arbitrarietà nelle scelte di quali inchieste fare o non fare, (…), principio di non colpevolezza travolto nella pratica mediante la carcerazione preventiva”. Proprio perché come spiega Panebianco esistono svariati modi di fare un uso autoritario della giustizia.

“L’Italia repubblicana non ha mai avuto un sistema di giustizia coerente con i principi democratici. È passata da uno squilibrio all’altro. In età democristiana vigeva il predominio della politica (dei partiti di governo) sull’attività giudiziaria. Nell’età post-democristiana si è affermata una radicale autonomizzazione del corpo giudiziario che, non accompagnata da meccanismi di limitazione del potere dei singoli magistrati, ossia da adeguati contrappesi, si è risolta nella affermazione di un potere corporativo che intimidisce la politica e che, quando rispetta i diritti del cittadino, lo fa solo per il buon cuore del singolo magistrato o per il suo rispetto «spontaneo» (non imposto dall’esterno) dell’etica professionale”, osserva il saggista. “Aspirazioni a riportare il nostro ordinamento giudiziario nell’alveo dei principi della democrazia liberale ci sono”, evidenzia Panebianco, ma resta comunque difficile disfarsi delle “tare originali”. Si va da un’accettazione di una concezione populistico-autoritaria dei compiti della giustizia alla ricorrente tentazione dei partiti di assecondare l’azione delle procure quando colpiscono il rivale politico di turno.

Nella battute conclusive Panebianco elogia quanto fatto dalla nostra Guardasigilli, tuttavia solo in parte: “La riforma Cartabia è una buona cosa. Forse migliorerà, per aspetti non trascurabili, il funzionamento della giustizia, correggendo alcune delle più plateali disfunzioni. Ma l’assetto illiberale del sistema giustizia non potrà essere davvero intaccato. Forse lo sarà un giorno (magari fra qualche generazione) quando nuove circostanze obbligheranno la classe politica a rimettere mano ai fondamenti della Repubblica, a riscrivere le regole della convivenza civile”.