Il bipolarismo, così come il bipartitismo, con i loro pro e contro, è un sistema di per sé neutro. È fondamentale che, nel pieno rispetto dell’alternanza, alla base ci sia un’idea di società diversa tra i soggetti politici in gioco.
Se, come afferma Calenda, il bipolarismo italiano ha maciullato il Paese e l’ha distrutto, è perché alla base c’è un’unica idea di società statalista, iper burocratica, assistenzialista, e corporativa, che si è sempre opposta al cambiamento e ha sempre frenato il Paese nella sua competitività.
È lo stesso schema su cui si è fondato il patto cattocomunista dell’inizio della Repubblica, che ha determinato una società e uno stato criptosocialista sempre più trasversale nel contesto politico italiano.
La globalizzazione ha messo a nudo le contraddizioni e le negatività di questo contesto, trasformando il bipolarismo casareccio nel bipopulismo, dando vita al partito unico populista sovranista e, di conseguenza, ad un’organizzazione illiberale, dove sopravvivono le vecchie divisioni ideologiche novecentesche.
Come diceva Hayek, la differenza tra fascismo e comunismo è estetica e nei fini che pretendono di perseguire, ma le loro premesse sono le stesse e per questo si autoalimentano.
Certo, è un Paese diviso, ma la vera divisione non è tra destra e sinistra, tra fascisti e antifascisti e via discorrendo, ma tra quel pezzo di società corporativa e conservatrice che va a votare per difendere i suoi mediocri interessi e il pezzo di società che vuole essere competitiva nel contesto globale, che non vota per assoluta mancanza di riferimenti politici credibili e che però consente alla prima di “mangiare”.
Quella credibilità che solo il Liberalismo è in grado di trasmettere per competere nel mercato globale e difendere i valori di libertà, democrazia e stato di diritto, di cui l’Occidente è rappresentante e interprete nello scontro di civiltà in atto.
Il bipolarismo o bipartitismo avrebbe senso se queste diverse e alternative idee di società trovassero pari legittimità di rappresentanza, ma è la seconda ad essere sistematicamente esclusa dal sistema politico.
Essere repubblicani oggi dovrebbe significare non riunire indistintamente queste due idee di società che il bipopulismo ha separato e che equivarrebbe a perpetuare la logica perversa dell’accontentare “tutti” in un continuo riproporsi di mediazioni e compromessi, ma essere rappresentanti e interpreti della società aperta in inevitabile contrapposizione con la società populista sovranista illiberale. Qui sta l’alternanza, qui sta l’alternativa politica.
Essere repubblicani oggi dovrebbe significare non la difesa dell’odierno dettato costituzionale, simbolo del patto cattocomunista su cui è nata la Repubblica e da cui tutto ha avuto inizio e dove il bipopulismo affonda le sue radici, ma proporre una nuova idea di costituzione per una società libera e liberale, che chiude definitivamente con l’ossimoro criptosocialista, fondata sul merito, sulla concorrenza, sulle uguali opportunità, sull’individuo e sull’elementare quanto ineliminabile affermazione della diseguaglianza fatta di diversi desideri e bisogni. Una società libera, anti-totalitaria e quindi non fascista, ma non più prigioniera dell’ipocrisia antifascista.
Per mettere fine al populismo sovranista serve un “Rinascimento Liberale”
Essere repubblicani quindi dovrebbe significare essere i fautori di un partito nuovo liberale, che sappia essere riferimento alla società aperta oggi politicamente esclusa. Quello che lascia allibiti è la tenacia illusoria con cui si cercherebbe di costruire questo nuovo partito, sommando quanto di più politicamente debole esiste, passando da un susseguirsi di sconfitte, rotture, contraddizioni e anche palese incapacità a costruire della così detta classe dirigente attuale ai vari livelli. Terzo Polo ieri, liste più o meno di scopo oggi, niente di più effimero è esistito e esiste oggi. Personalismi? Autoreferenzialità di una classe dirigente molte volte espressione di scissioni? Tutto vero ma c’è di più.
C’è la palese volontà di mantenere congelato questo sistema partitico a garanzia della sopravvivenza politica di ognuno, a prescindere dai ruoli. C’è la palese volontà di non mettersi in gioco, di rischiare, di mettersi a confronto anche con chi la politica attiva non l’ha mai fatta, ma con indubbie capacità frutto della propria esperienza di studio, di lavoro, di socialità. Veramente, l’egoismo di difendere il proprio copione di attore di parte in commedia è più forte degli interessi vitali del Paese, verso cui la retorica politichese non cessa mai di declamare qualcosa.