È davvero avvilente vedere molti intellettuali e politici autoproclamatosi pacifisti riempirsi la bocca della parola pace, al pari di un feticcio svuotato del suo significato più profondo di diritto attivo e reso una forma di soggiogamento. Non c’è in realtà da stupirsi che ciò avvenga. La pace non gode infatti di una chiara definizione, ma è quasi sempre definita dai suoi sbandieratori televisivi in modo negativo, ovvero come la semplice assenza di guerra ad ogni costo, arrivando ad accusare chi non si accontenta di una pace ingiusta di essere un guerrafondaio.
La loro definizione di pace è però un concetto debole, generico, vago e propagandistico che consente la strumentalizzazione di chi la usa per nascondere la propria codardia, irresponsabilità o interesse personale. È dunque giunto il momento di fare dei distinguo, perché non esiste una sola idea di pace, ma ne esistono due che oggi inevitabilmente si scontrano. Da un lato esiste una pace positiva e dall’altro una pace negativa, la cui differenza si fonda sul fatto che la prima è costruita nel consenso mentre la seconda, quella voluta dai sedicenti pacifisti, è subita o imposta dalla cattività.
Johan Galtung, sociologo e matematico statunitense di origine norvegese, fondatore della disciplina accademica dei Peace Studies, fu il primo a capire che non basta l’assenza di violenza per poter parlare di pace. Egli decise pertanto di dedicarsi alla costruzione della vera pace dedicando la sua vita a studiare la guerra come se fosse una malattia, convinto che si potesse curare solo lavorando sulle cause e non mitigandone gli effetti. Per lui la pace negativa, quella che molti erroneamente ergono a valore assoluto, sarebbe solo un periodo di remissione basato su una tregua tra parti che hanno accettato passivamente un compromesso le cui condizioni non sono durature proprio perché non costruite attraverso il consenso bensì sull’umiliazione.
Come affermò anche Immanuel Kant, limitarsi a concepire la pace unicamente come l’assenza di guerra mutila la storia e lede i diritti fondamentali dei popoli, la cui promozione è invece la condizione primaria per la creazione di rapporti pacifici tra stati. L’assenza di corruzione, il buon governo, il diritto alla libertà di espressione, l’equa distribuzione delle risorse, la garanzia del diritto all’istruzione e il rispetto del principio di autodeterminazione dei popoli sono condizioni fondamentali per la pace. Se manca tutto questo allora non può esserci vera pace, ma solo un simulacro. E pace diventa allora sinonimo di schiavitù.
La costruzione della pace positiva necessita tuttavia di un lavoro ancora maggiore; di strumenti istituzionali e giuridici che ne garantiscano la durabilità anche, malauguratamente, tramite il ricorso alla violenza fisica volta ad affermare la giustizia sociale e internazionale. Essa non può mai essere associata con passività e arrendevolezza nei confronti della violenza o dello statu quo. Al contrario, chi vuole davvero la pace è chiamato ad un impegno costante per la promozione di tutti i diritti umani per tutti, della giustizia e della democrazia ad ogni livello. La vera pace non è solo un valore, ma un diritto fondamentale dell’uomo e soprattutto un obiettivo da perseguire con tutti gli strumenti della politica, dell’educazione, della solidarietà, e anche con politiche di difesa militare volte a ristabilire, come in Ucraina, la prevalenza del diritto sull’ingiustizia. Per questo chi vuole la pace oggi non può essere pacifista.