Il 26 luglio di trent’anni fa Mino Martinazzoli, personaggio manzoniano colto e tormentato, sciolse in un’assemblea falsamente unitaria, quanto spaccata, la DC. Io me ne ero, confesso amaramente il mio peccato di omissione, già andato. Non avevo aderito alla Rete del mio ascendente tutor democristiano Leoluca Orlando, ma insieme ad un gruppo di meritevoli professori, di cui ero allievo, avevamo previsto da tempo il crollo del partito Stato. Avevamo tentato una cura palliativa in salsa locale, avevamo fondato un’associazione politica per le amministrative del 1993, devastanti per la DC, le prime con l’elezione diretta del Sindaco. L’associazione si chiamava, senza molta fantasia, Democrazia Comunitaria, con le prime lettere delle due parole allusive, ma grate al passato. Poi uno dei professori venne chiamato dal triste, e roso dentro, Martinazzoli a portare la croce di ultimo commissario della DC palermitana. Io, dopo un impegno di mesi di intenso lavoro politico, di riunioni per un rinnovamento esterno al partito, che avevo votato dal mio primo voto, preferenza a Mattarella, sclerai. Disertai la DC morente, e oggi me ne pento, mea culpa, mea maxima culpa. Non avrei certo impedito lo scioglimento, né la diaspora susseguente al Partito Popolare, nato troppo tardi e fuori corso. Ma inconsciamente ero finito nella corrente di pensiero che avrebbe distrutto la prima Repubblica, non solo la DC.
Il passaggio dalla società del Noi, a quella dell’Io, nel mio caso un io politicamente sopravvivente. La morte della DC, e precedentemente del PCI, non fu causata solo dal crollo del Muro. Ma dall’enorme spinta all’individualismo, che voleva libertà di consumi, più che di pensiero, rinunciando ai doveri sociali. Dalla Milano da bere a quella del mangiare. Tagliarsi la propria personale fetta di torta era l’unica voglia degli italiani. La DC era l’ultimo baluardo del collettivo, del senso comunitario, pur con tutte le storture e le ipocrisie era l’unica colla che teneva insieme un paese frammentato e dispersivo, oltre ad essere la mutanda di vergogne e pudenda, come dice Michele Serra. Alcuni pensano che un Paese che perda il decoro, l’ipocrisia che avvolge e nasconde, come il nostro cafonissimo Paese in questi trent’anni, sia migliore, più veritiero. Questa tesi è provinciale, guarda solo ad allargare il buco della serratura. In un contesto competitivo globale, la postura formale democristiana non esponeva il Paese a figure ridicole o di merda, perché la citata mutanda copriva, ed eravamo più autorevoli. Il mondo globale è così, la forma è sostanza, ed ognuno si lava in casa i panni propri. Noi li abbiamo esposti al mondo, risultando ridicoli.
Moro, Andreotti, Craxi, all’estero non erano ridicoli, davano pure fastidio per autonomia, ed infatti furono fatti fuori con un golpe bianco, che solleticava gli istinti tribali degli italiani. L’ultimo leader autorevole internazionale, guarda caso, è stato Draghi, ultimo direttore generale del tesoro prima della fine della DC. Me lo ricordo bene quel 26 luglio in cui morì la DC, tre giorni prima si era sparato, forse, un colpo di pistola Raoul Gardini, e qualche giorno precedente si era soffocato in carcere Gabriele Cagliari. Era un paese più civile quello? Un Paese di merda senza mutande, a cui è succeduta una Repubblica fallocratica, condita da una pletora immensa di coglioni nominati e non votati, a fare da coorte, non pronta alla morte, del reuccio di turno.
Sono pentito di non aver fatto il Cireneo dell’ultima stazione della Via Crucis democristiana, di non aver bevuto un amaro calice che non mi ero versato. Me ne ero andato in autoesilio, avendo visto e patito falsi rinnovamenti, quelli si ipocriti, per ribellione ad un mondo che si stava autodissolvendo.
Ma oggi, con la personale profezia del prima, e con l’ineluttabile senno del poi, chiedo che sulla mia lapide venga scritto “morì democristiano”. Meglio democristiano che coglione.