Un’estate atipica, durante un anno che si sta svolgendo in maniera altrettanto atipica, ha stravolto in ogni angolo del mondo ritmi e riti talmente consolidati da sembrare immutabili: a questo proposito non fanno eccezione gli Stati Uniti d’America nella calda stagione che precede le elezioni Presidenziali di Novembre, dedicata tradizionalmente alle roboanti convention dei due grandi partiti destinati a contendersi la Casa Bianca.
Le adunate a base di folle oceaniche e festanti, palloncini colorati, sventolanti bandiere a stelle e strisce, inni patriottici e fragorose acclamazioni per i candidati alla Presidenza da parte dei rispettivi sostenitori hanno inevitabilmente lasciato spazio a più sobrie manifestazioni caratterizzate dai collegamenti da casa, come nel caso di Biden, o dalla Casa (Bianca) per Trump, con l’attenzione mediatica che si sarebbe dunque potuta e dovuta concentrare maggiormente sui temi concreti e meno sul contorno coreografico dei due concomitanti eventi, ma ciò non è avvenuto. In particolare per quanto riguarda Donald Trump – oggetto di un quotidiano, incessante bombardamento ad opera della stampa mondiale sin dal giorno in cui, quattro anni fa, diventò ufficialmente il candidato alla Presidenza del Partito Repubblicano – ancora una volta ci si è focalizzati sui gossip personali, veri o presunti che siano, sul suo ciuffo e sul look rivedibile, sui toni accesi, sulle gaffes e sui modi poco diplomatici che contraddistinguono il vulcanico tycoon.
Quasi nessuno ha per esempio rilevato il fatto che Trump abbia dato voce durante la sua presentazione ad un’autentica casalinga americana e non ad una famosa attrice come Eva Longoria, protagonista della convention di Biden, che il ruolo della donna di casa l’ha interpretato solo per una serie televisiva di enorme successo. Questo particolare apparentemente secondario fotografa in uno scatto l’America attuale: Trump, pur essendo un magnate, parla alla pancia del suo Paese come nessun altro negli ultimi anni era stato capace di fare ed è l’emblema di un malessere profondo serpeggiante nella comunità statunitense che non può essere liquidato come un banale esempio di ignoranza e populismo.
È interessante rilevare che, con la sua forte personalità totalmente fuori dagli schemi, l’attuale inquilino della Casa Bianca abbia decisamente spostato l’orizzonte del Partito Repubblicano verso gli strati più umili della società, mentre i Democratici sono diventati ormai il vero punto di riferimento per le élites culturali ed economiche, il che è certificato dall’inesorabile isolamento del radicale Bernie Sanders.
Solo a gennaio, secondo i principali osservatori il presidente uscente sarebbe stato rieletto con certezza, soprattutto in virtù di due punti cardine: il rispetto di tutte le più importanti promesse fatte durante la campagna elettorale, con un protezionismo assoluto nei confronti delle aziende nazionali e una politica internazionale caratterizzata dal non aver aperto nessun nuovo conflitto, al netto dei pittoreschi scontri verbali con la Corea, la Cina e la Russia, ma soprattutto l’avvio di una decisa ripresa dell’economia americana dopo anni di difficoltà e recessione.
Ovviamente l’arrivo inaspettato del Covid ha scombussolato lo scenario globale, facendo vacillare certezze che parevano granitiche ben oltre i pur ampi confini degli Stati Uniti. Il malvezzo di reiterare una campagna di diffamazione mediatica nei confronti dell’attuale amministrazione americana, che anche in Italia trova numerosi ed autorevoli esempi, non conosce invece tregua e assume gradualmente i contorni di una pretestuosa caccia alle streghe, come quando si abbinano le immagini drammatiche dei recenti episodi con protagonista la polizia nel Wisconsin e a Minneapolis a quelle della Casa Bianca: le forze dell’ordine statunitensi usano da tempo il pugno di ferro indistintamente nei confronti di tutti, bianchi e neri, e la colpa in tal senso non è oggi di Trump come non lo era prima di Obama, ma semmai va ricercata nel grave disagio di un Paese in cui la violenza è diventata un tratto distintivo della sua stessa società.
Sempre a questo proposito, va tenuto a mente che una fetta di responsabilità per la repentina diffusione del Corona virus in alcune parti dell’America nei mesi scorsi è da ricercarsi in quegli Stati a maggioranza Democratica che autorizzarono le numerose manifestazioni di piazza a seguito della tragica scomparsa di George Floyd, totalmente comprensibili e condivisibili nel merito ma altrettanto inopportune per il conseguente rischio di assembramenti.
C’è da chiedersi a cosa possa portare stigmatizzare i comportamenti e ingigantire le stravaganze di Trump da parte di una così corposa maggioranza di mezzi di comunicazione internazionali piuttosto che concentrarsi, anche con atteggiamento critico, su aspetti più consistenti. Essendo maliziosi, si potrebbe forse pensare che alla base di questa strategia vi sia una malcelata forma di invidia sociale nei confronti di figure non appartenenti all’establishment capaci di raggiungere vette altissime potendo contare soprattutto sulle proprie forze, carismatiche o economiche che siano.
Trump è un personaggio molto diverso, ma va ricordato che negli anni ’80 due totali outsider furono i protagonisti di un radicale cambiamento che investì gli Stati Uniti, la Gran Bretagna e il corso della storia globale dopo essere stati accolti dai soloni di turno con sarcasmo e diffidenza, nel vano tentativo di ridicolizzare l’ex attore di Hollywood e la brava donna di casa proveniente dalla campagna inglese: sappiamo bene come andò a finire per il mondo occidentale grazie alla guida illuminata di Ronald Reagan e Margaret Thatcher.