Chi era presente ieri al Museo del Prado a Madrid giura di aver visto un Mario Draghi stanco, assorto nei suoi pensieri. Stanza dopo stanza, ha passato in rassegna Las Meninas di Diego Velazquez, Il Giardino delle Delizie di Hieronymous Bosch, Le Tre Grazie di Pieter Paul Rubens, solo per citarne alcuni. Lo sguardo era rivolto a quei capolavori esposti – del resto l’arte ha sempre avuto un posto di rilievo nella vita di Draghi. Durante i suoi viaggi di lavoro, costantemente si è ritagliato dei momenti per visitare mostre. Quando aveva lo studio a Via Nazionale, non si lasciava sfuggire alcuna esposizione ai musei vicini. Passione coltivata nel tempo non solo grazie alla sorella Andreina, affermata storica dell’arte, ma anche all’amico, l’economista Pentti Kouri – ma la sua mente era altrove. Forse già a Roma, al Consiglio dei ministri indicato da tutti come decisivo per il destino del governo.
E la foto scattata al Museo ispanico progettato dall’architetto Juan de Villanueva, che ritrae il presidente del consiglio seduto su una panca al telefono mentre gli altri godono di dipinti e sculture ne sarebbe la prova. Che stesse parlando con Conte o con il suo ufficio stampa per dettare un comunicato urgente per smentire la voce che lo dipinge come una specie di Salomè bramosa della testa dell’avvocato del popolo, importa poco. A guardarne il negativo ci si può scorgere altro: certifica la fioritura di Draghi, da banchiere a politico. Da “premier della necessità ad argine del futuro contro l’irresponsabilità populista”, come scrive Claudio Cerasa in un bellissimo editoriale uscito su «Il Foglio». Una prima avvisaglia la si era avuta qualche giorno fa quando Draghi al G7 aveva detto fermo: «La crisi energetica non deve produrre un ritorno al populismo». Malattia della democrazia quest’ultima che lui conosce bene, benissimo. E mentre era seduto lì, al Museo del Prado, deciso a partire per Roma, rinunciando a partecipare alla cena euro-atlantica organizzata dal premier Sanchez, deve aver riavvolto il nastro. Gli saranno venute in mente tutte quelle volte in cui da premier si è trovato a tu per tu contro i populisti. Ad esempio quando ha dimostrato di sostenere la resistenza ucraina. Ma anche prima di salire a Palazzo Chigi.
È una lotta la sua che va avanti praticamente da una vita. Perché Draghi sia pur di riflesso è sempre stata la catch-all word che ingloba tutto ciò è nemico al populista. Super Mario è controindicato al populista perché attira come una calamita tutta una serie di cliché. Non convince anche per il suo aplomb, per quel pragmatismo che lo rende ai più freddo, distaccato. Suo malgrado l’etichetta di banchiere gli è rimasta appiccicata addosso e il populista continua a vederlo come il toro guarda alla tovaglia rossa. Risultato? Sottrarne i meriti quando ci sono (e ci sono) e dargli un potere spropositato. Anche in queste ultime ore si attribuisce a Draghi la colpa dell’implosione del M5s. E Conte ha soffiato sul fuoco: «Per il rispetto che ho delle istituzioni e del tuo ruolo non ti avrei attaccato pubblicamente mentre eri impegnato al vertice Nato. Ma se è vero che hai chiesto a Grillo la mia testa è una cosa gravissima, non per l’attacco personale a me da parte di un premier tecnico, ma perché in ballo c’è il corretto funzionamento delle istituzioni democratiche», avrebbe detto al telefono l’avvocato del popolo a Draghi, che ha cercato subito un chiarimento.
Ha confermato le conversazioni con Grillo, ma ha smentito categoricamente di aver mai chiesto al fondatore di togliere di mezzo il leader del M5S. «A che gioco state giocando? Se ci volete fuori dal governo me lo dovete dire, chiaro e tondo», avrebbe detto sempre Conte al suo precedessore. Proprio perché il sospetto dell’ex premier è che Draghi sia il deus ex machina anche dello strappo di Luigi Di Maio. La teoria della cospirazione, di cui è prigioniero il populista, che vede nemici e complotti ovunque. E non è finita: come ricorda Monica Guerzoni su «Il Corriere della Sera» Conte è furioso anche per «la norma sull’inceneritore nel decreto Aiuti, che stanziava 14 miliardi per i cittadini con misure volute da noi», ed è arrabbiato per «lo stop al Superbonus». Non sono che opinioni, voci. Un fatto solo è certo: per la sortita di Conte, Sánchez ha ricevuto tutti gli invitati, tranne Draghi. A rappresentare l’Italia è stato il ministro della Difesa Guerini. Il premier era troppo impegnato a cercare di salvare dalla crisi il suo governo. E non c’ha pensato un attimo a far ritorno a casa, proprio perché quello che gli sta a cuore sono le sorti del Paese.
«L’acquisizione di credibilità è un processo lungo e laborioso. Conservarla è una sfida perenne. Per contro, si può perderla molto in fretta, e la storia dimostra che per riconquistarla si paga un prezzo economico e sociale enorme», le sue riflessioni durante un incontro quand’era alla guida della Bce. Parole che valgono ancora oggi, anzi assumono contorni ancora più definiti. È quello di oggi un Draghi ultrapolitico, che nei mesi ha dato prova di essere una risposta netta al populismo. Ricordate l’obbligo del Green Pass sul lavoro? Come ha saputo tenere la barra dritta? Non sono mancate le difficoltà dal febbraio del 2021, quando giurò a Palazzo Chigi. Le giravolte di Salvini da un lato, i capricci di Conte dall’altro, facce di una stessa medaglia. Draghi è riuscito con successo finora a far capire le urgenze del nostro Paese; non ha mai taciuto la linea da seguire. Chi sta con lui non può permettersi colpi di testa populisti. Draghi più politico di un anno fa, sicuramente sì, ma ci si dovrebbe tenere alla larga dal termine «metamorfosi», perché l’ex numero uno della Bce ha sempre cercato di frenare l’ondata populista. Coloro che invece si son visti costretti alla trasformazione per sopravvivere sono stati i nostri partiti: e qualcuno sta cambiando pelle ancora adesso. Ne vedremo delle belle nei prossimi mesi.