Quando le donne sono costrette a colludere con l’universo maschile violento

di Noemi Sanna

La violenza sulle donne, sempre di grande attualità, è certamnte il risultato di una mentalità aggressiva e bellicosa, tipica del predatore che insegue la preda, basata sulla convinzione che la differenza tra i sessi sia una questione di potere. Anche quando non assume connotazioni drammatiche il rapporto tra uomo e donna sembra pemanere un rapporto di forza basato sulla relazione gerarchica tra il dominio maschile e la sudditanza femminile. Pregiudizio tuttora presente in molte società in cui la cultura maschile dominante esercita forti pressioni psicologiche e sociali per trattenere le donne in stato di subalternità che non raramente implica anche situazioni francamente vittimologiche. Conosciamo le tante storie di donne costrette da assurde imposizioni sociali a nascondersi dietro una umiliante copertura che occulta il loro volto e costringe la loro stessa identità a non essere. Sappiamo di donne tenute lontane dai luoghi sacri perché indegne in quanto ritenute sprovviste di anima e quindi impure. O, ancora, le tante donne costrette a lavori umili e usuranti che glistessi uomini rifiutano, come succede in certe tribù africane che considerano il genere femminile inferiore di rango agli stessi animali domestici, ritenuti più utili perché fornitori di cibo alla comunità. Per non dimenticare altre forme di violenza come lo sfruttamento della prostituzione, la violenza sessuale, gli stupri etnici, la tratta in schiavitù, l’aborto selettivo, fino al drammatico fenomeno del femminicidio che rendono la violenza sulle donne un evento universalmente diffuso.

Molte forme di violenza tuttavia, soprattutto in alcune società nemmeno tanto distanti dalle nostre, avvengono anche in ragione di una sorta di passiva accettazione da parte delle stesse donne. Ne sono esempio le crudeli pratiche di mutilazione genitale, contrabbandate come consuetudini igieniche o di iniziazione, come la clitoridectomia o l’infibulazione. Sulla base dei pochi dati disponibili si stima che, a livello mondiale, tra i 100 e i 132 milioni di ragazze abbiano subito mutilazioni genitali. Ogni anno si calcola che circa altri 2 milioni di ragazze subiranno una qualche forma di mutilazione. In base a quanto è dato sapere vengono praticate in una trentina di paesi africani, in alcuni paesi dell’Asia occidentale e in alcune comunità minoritarie di altri paesi asiatici. Sono presenti anche nel contesto di alcune comunità di immigrati in Europa, nord America, Australia e Nuova Zelanda. Secondo l’OMS sono da attribuire a queste pratiche circa la metà dei 500.000 decessi di donne che si verificano nel terzo mondo durante la gravidanza e il parto, e circa 4 milioni dei decessi di neonati. Nella cultura occidentale questo tipo di pratica è assimilata al concetto giuridico di lesione grave/gravissima ad alto impatto sul piano del danno sia immediato che a lungo termine, nonché penalmente perseguibili. Non è così nelle culture in cui è praticata, ove, al contrario, assume un’alta pregnanza simbolica e di controllo sociale.

Per quanto possa sembrare incredibile sono proprio le donne adulte, e non gli uomini, che recidono il clitoride (clitoridectomia) alle bambine o cuciono le piccole labbra della vagina (infibulazione) privando queste creature dei piaceri di una sessualità creativa e impedendo loro di esercitare la scelta del partner nella più grande libertà e creatività affettiva e sessuale. Saranno poi queste stesse bambine che, una volta diventate adulte, deturperanno, e non solo nel corpo, altre giovani donne che, a loro volta, renderanno vittime altre donne. In tal modo viene perpetratanel tempo una pratica misogina, atroce e disumana imposta dalla cieca osservanza di una cultura che impiega la violenza per esercitare il totale controllo sull’altro sesso. Una cultura maschilista che ha costruito un Corpus di censure sociali e di controllo che non solo impedisce alle donne di ribellarsi, ma le rende conniventi e responsabili in prima persona delle ingiurie, violente e atroci, portate alla loro stessa natura di donna attraverso pratiche trasmesse di generazione in generazione dalle donne sulle donne.

L’adesione apparentemente incondizionata da parte di un gruppo (le donne) ai precetti propri del gruppo dominante (gli uomini) sino a divenire il tramite degli abusi che quei precetti prescrivono contro loro stesse, sembra paradossale, ma si basa su meccanismi psicologici funzionali alla loro sopravvivenza in un mondo ostile. Si possono riconoscere il meccanismo della identificazione all’aggressore (se divento come il mio nemico ne ho meno paura) o il mimetismo sociale (se mostro di somigliare al mio nemicosono protetta dalla sua aggressione). Ma esiste un’altra categoria psicopatologica che questi esempi possono evocare: la così detta personalità del come se tipica di chi costruisce la propria identità sulla pressoché esclusiva identificazione a modelli esterni ad elevata suggestionabilità e rispetto ai quali si pone in un atteggiamento di totale passività. Sono personalità che convalidano la loro stessa esistenza su questo tipo di identificazione passiva e imitativa, totalmente priva di autonomia e di auto determinazione. Suggestionabilità, passività, inautenticità, anaffettività sono le loro caratteristiche. Si comportano come fossero robot ubidienti ma senza anima e trasformano la loro vita nella parodia di una vita altrui. Questo meccanismo, tipico degli adepti delle sette, diventa, ahimè, costume in alcune sottoculture violente.

Le dinamiche descritte si riferiscono a situazioni estreme, distanti dalla nostra cultura, proprie di contesti violenti in cui vigono relazioni intragruppali basate su rapporti di forza e potere molto asimmetrici e sperequativi che definiscono vincoli di forte dominanza. Ma anche in contesti sociali più equilibrati, come nella nostra società mediterranea, non è difficile riscontrare nelle donne atteggiamenti di accettazione e tolleranza nei confronti di consuetudini che sono, in realtà, espressione di aspetti deteriori della cultura patriarcale. Ne consegue che le donne, pur senza arrivare a forme di connivenze evidenti come quelle precedentemente descritte, tuttavia continuano ad accreditare gli uomini come “gruppo dominante” e si privano da sole della necessaria forza contrattuale indispensabile a impedire gli abusi che possono derivare loro da quel gruppo reso dominante dalla loro stessa accondiscendenza.