Prima di fare il governo di destra, Giorgia Meloni deve trovare l’unità della destra. Sempre che esista, perché al momento parrebbe di no.
Per capire la distanza che la separa dagli “alleati”, e non solo su nomi e posizioni nel nascente esecutivo, non serve del resto una scienza particolare.
Basta guardare non solo il tentativo, iniziato in campagna elettorale e perpetrato anche dal 25 settembre in poi, della leader di Fratelli d’Italia di prendere le distanze da un estremismo che in realtà è connaturato con la stessa essenza del suo partito (la sudditanza a Orban docet). Non solo quel distensivo “serve l’impegno di tutti”, come ad accodarsi al discorso del presidente Sergio Mattarella. Ma anche il dialogo, serrato, con Mario Draghi e con i suoi, che potrebbe portare all’inserimento di qualche tecnico di riferimento dell’ex governatore della BCE nella squadra di governo di IoSonoGiorgia. “Serve per tranquillizzare i mercati e la UE”, dirà qualcuno. Certo. Ma serva anche a limitare le pretese di FI e Lega e ad agevolare non solo il passaggio di consegne, ma anche per non portare l’Italia dritta nel baratro in uno dei momenti più difficili della sua storia. Non è un caso che su sponda FDI già si parli di “tecnici di area” per indorare la pillola.
Da parte loro, gli alleati(ni) Silvio e Matteo non ci stanno. Provano ad alzare la voce, seppur i numeri li abbiano premiati poco. Salvini ha formalmente ottenuto dalla direzione del partito carta bianca per spuntare ministeri di peso nella trattativa con la Meloni, ma nella lista del Capitano non c’è il nome di Giancarlo Giorgetti, a dimostrazione del caos che regna tra le fazioni del Carroccio, senza considerare la quasi impossibile corsa per il Viminale. Sul fronte FI, cresce l’irritazione di Berlusconi per il no alla Ronzulli alla Salute.
La destra, insomma, ha vinto le elezioni, trainata da FDI. Ma non rappresenta un blocco politico unitario e compatto, e questo per il governo del Paese sarà un problema enorme.