Trent’anni da quel maledetto botto in via Mariano D’Amelio, trent’anni dall’eccidio di Paolo Borsellino, Claudio Traina, Agostino Catalano, Emanuela Loi e Walter Li Muli. La mafia uccideva ancora, dopo Giovanni Falcone, il suo erede naturale, l’uomo destinato a prenderne il posto nelle istituzioni e nell’immaginario collettivo. Doppio scacco allo Stato in meno di due mesi, da parte di una mafia che sembrava invincibile, arrogante e prepotente nella sua violenza feroce.
Eppure, oggi, dopo trent’anni il sacrificio di Paolo Borsellino è ancora impresso nelle menti degli italiani onesti, di quella parte di popolazione che non ha dimenticato che cosa significa essere eroi. Di come si può andare incontro a morte certa, con la responsabilità dell’uomo morale. Perché questo era Paolo Borsellino, un uomo giusto che faceva della sua moralità il faro della vita e del lavoro di magistrato.
Ma Borsellino era anche un grande giurista, amante del diritto civile. Dichiarerà di non aver scelto di combattere la mafia per chissà quale motivo, ma che, una volta iniziata questa guerra, ha sentito il dovere morale di continuarla in onore degli amici morti ammazzati da Cosa Nostra. La storia di Borsellino a dispetto della cronaca che lo voleva eterno secondo di Falcone, è una storia da fuoriclasse non solo della magistratura, ma di tutto il paese. Colto, preparato, investigatore di prim’ordine ma anche amante della vita, geloso delle piccole cose che la rendono degna di essere vissuta, ha accettato il suo tragico destino quel 23 maggio 1992 quando il tritolo di Giovanni Brusca uccise Giovanni Falcone. Nella camera ardente egli piangeva l’amico fraterno ma piangeva anche se stesso perché “questo è il destino che ci attende”, come disse ai colleghi venuti a omaggiare Falcone.
E lui quel destino lo ha onorato per 57 giorni al meglio delle sue capacità, inseguendo i killer di Capaci, contro tutto e contro tutti, soprattutto contro i colleghi e il capo della Procura Giammanco, che lo ostacolò in tutti i modi possibili. Ma Paolo, incurante degli ostacoli, va avanti. Lavora tanto, anche di notte, passa pochissimo tempo a casa. La sua è una corsa contro il tempo, lo sa benissimo e lo confida alla moglie Agnese. Tradito dalle istituzioni in cui credeva, non si arrende. Fa quello che gli riesce meglio. Indaga. Sono giorni caotici quelli, il post Capaci ha gettato la politica e la magistratura nella più completa confusione. C’è il presidente della Repubblica da eleggere (il MSI farà proprio il nome di Borsellino in prima votazione), c’è in ballo la Superprocura rimasta orfana del candidato naturale. II ministro Scotti pensa bene di candidare – pubblicamente e senza averlo interpellato – proprio lui, Paolo Borsellino che però si stizzisce. “Non capisce che così mi espongono (alle rappresaglie di Cosa Nostra, ndr)” si sfoga amaramente, ben consapevole che è già esposto, che, in fin dei conti, è già cadavere. Interroga pentiti in Italia e in Germania a caccia di quella traccia, di quell’indizio che lo può portare a chi ha ucciso Giovanni Falcone. Eppure il tempo stringe. La mafia ha già deciso che sarà lui il prossimo e che dovrà essere ucciso in un attentato come o più grosso di Capaci. “C’è bisogno di dare un’altra spinta” dirà Totò Riina ai sodali e Cosa Nostra inizia a preparare quella strage. Se poi lo abbia fatto da sola o per conto terzi (come molto più probabile), ancora le indagini non lo hanno voluto chiarire.
Il clima del 1992 assomiglia molto a quello di quel tragico 1985 quando la mafia prese di petto la Polizia di Stato uccidendo nel giro di una settimana il commissario Beppe Montana e il vicequestore Ninni Cassarà, capo della Squadra mobile di Palermo. Quando Falcone e Borsellino furono trasportati di notte all’Asinara per scrivere, senza rischi, l’ordinanza di rinvio a giudizio per il maxiprocesso. All’epoca una parte di Stato ancora proteggeva i suoi eroi. Nel 1992 no! Borsellino va incontro alla morte annunciata nell’indifferenza e nella connivenza delle istituzioni.
Il 17 luglio arriva a Palermo il tritolo per lui, ma il giudice lo saprà casualmente dal ministro Salvo Andò, in una saletta dell’aeroporto di Fiumicino. Il procuratore capo Giammanco non glielo ha detto, non lo ha avvertito. Il giudice si arrabbia, batte i pugni sul tavolo, il capo minimizza. L’orologio corre veloce. Il questore non ha posto la zona di rimozione davanti alla casa della madre di Borsellino dove lui puntualmente si reca una o più volte a settimana. Davanti alla propria sì, davanti a quella della madre no. Così da lasciare un varco, una possibilità alla mafia, che la coglierà in tutta la sua violenza proprio quel 19 luglio alle 16.58.
E dire che quella domenica per Paolo era giornata di vacanza, la prima dopo tanto tempo. Passata con la famiglia a Villagrazia di Carini, al mare. Dopo un giro in barca e un bagno nell’amato mare, Borsellino pranza e si corica. Ma non dorme, è preoccupato. Molto. Chissà se nella sua mente c’è il film dell’incontro mancato con il ministro Mancino (che lo aveva convocato ma che poi negherà tutto) e quello casuale con un personaggio oscuro, pericoloso, quasi da film di spie, che si complimenta per la collaborazione di un pentito che però doveva rimanere segreta. Ma a Palermo i segreti non esistono. E Borsellino è sconvolto da quell’incontro, fuma, nervoso, le sue Dunhill (ne troveranno tante i figli accanto al letto, quel giorno). Ma oggi è domenica, il lavoro può attendere qualche ora. Deve accompagnare la madre dal cardiologo e quindi da Villagrazia deve tornare nella torrida Palermo. Dopo la visita medica della madre, riprenderà a lavorare da casa. Perciò si alza senza aver dormito, saluta la famiglia, dà un bacio alla moglie forse ignaro che sarà l’ultimo. Le auto blindate sfrecciano sull’autostrada, entrano in città e giungono in via D’Amelio, tanto per cambiare piena di macchine parcheggiate. Il giudice scende dalla propria Fiat Croma blindata lascia la borsa in macchina con dentro l’agenda rossa dove segna tutte le sue riflessioni, ipotesi, perplessità, le piste d’indagine. Proprio quella agenda rossa che verrà sottratta dopo l’attentato e mai ritrovata. Ennesimo mistero oscuro della storia d’Italia.
Gli agenti gli fanno cordone, addestrati e abituati proteggono il “loro giudice”. Tra loro, una giovane ragazza sarda, Emanuela Loi, prima donna nel servizio scorte. L’aria è torrida, soffia un terribile vento caldo di scirocco. Borsellino si accende una sigaretta, l’ennesima, l’ultima. Si avvicina al campanello, suona…. Ed è l’inferno. Una fiat 126 imbottita di tritolo scoppia devastando il corpo del giudice e quello dei cinque agenti della sua scorta. Non c’è scampo. La morte ghermisce veloce senza dar tempo. Di nuovo! Palermo come Beirut! Un palazzo sventrato! Sei vite troncate all’istante, rottami, copertoni bruciati. Scene di guerra in una città in guerra. In un Paese in guerra. Borsellino muore, col sorriso sulle labbra – dirà poi la figlia. Borsellino, muore da eroe!
Oggi ricorre il trentennale, ma da celebrare vi è poco. Le ombre che avvolgono questa strage non sono affatto dissipate. Quel che resta è il velo di ipocrisia istituzionale che per trent’anni ha occultato la verità – con depistaggi vari – riguardo la strage di via D’Amelio. Una strage di Stato.