L’Italia s’interroga, l’Italia s’indigna. È la stessa Italia che ogni anno si ritrova a commemorare le sue ferite, le sue tragedie, le sue figure eroiche. E in questa Italia, una divisione politica ha osato oscurare la memoria del giudice Paolo Borsellino, vittima della strage di via D’Amelio. Una commistione indecente tra ideologia e il dovere morale di commemorare una lotta senza quartiere alla mafia.
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E questa non è un’eccezione. Si è visto durante il 25 aprile, il 4 novembre e il 2 giugno. Le ricorrenze nazionali, anziché essere giorni di commemorazione, di riflessione, diventano palcoscenici per le rivalità politiche, per una sorta di “guerra fredda” ideologica. Una distorsione insopportabile della memoria collettiva.
Se la guerra alla mafia diventa un campo di battaglia tra destra e sinistra, allora abbiamo perso il senso della missione. Se non possiamo unirci contro un nemico comune come la criminalità organizzata, siamo divisi persino nell’indignazione. Quando la preservazione della legalità e la lotta alla mafia vengono annacquate da schermaglie politiche, allora abbiamo davvero perso la bussola.
L’Italia ha bisogno di un rinnovato impegno, non di retorica vuota. Se la strage di via D’Amelio diventa una questione politica e non una commemorazione dell’orribile prezzo pagato per la lotta alla criminalità organizzata, allora stiamo perdendo di vista il vero obiettivo.
Non si può permettere che la memoria di Borsellino, la memoria di tutti coloro che hanno dato la vita per lottare contro la mafia, diventi uno strumento di contrapposizione politica. È ora che la politica italiana metta da parte le differenze e torni a un impegno comune contro l’ombra della criminalità organizzata. Le vittime della mafia meritano di più. L’Italia merita di più. Il ricordo non deve essere strumentalizzato, deve servire a unire, a far riflettere, a spingerci a fare di più e meglio. Le celebrazioni storiche non devono essere terreno di scontro politico, ma momento di unione nel nome di valori universali e indivisibili.