L’Italia riparte se capiamo che il mercato del lavoro non sarà più lo stesso

Il mondo del lavoro sta scontando gli effetti di una crisi sistemica che si trascina ormai da tanti, troppi decenni, e che ha trovato con la Pandemia la valvola di esplosione di dinamiche drammatiche giacenti da tempo. I ritardi e le incapacità vengono da lontano e si ripercuotono su tutte le categorie coinvolte, dai lavoratori, agli imprenditori, ai politici e ai sindacati, sempre più incapaci di rappresentare il lavoratore e sempre più, al contrario, alfieri di un conservatorismo novecentesco da cui non riescono a distaccarsi.

Oggi non esistono più classi e, con buona pace di Marx e di una certa sinistra, l’imprenditore non è il padrone cattivo che sfrutta e il lavoratore non è il proletario defraudato della propria forza-lavoro. Occorre emanciparsi da un modello conflittuale, ma anche da una sterile concertazione che non può che ragionare sull’emergenza, sul contingente e quindi priva di quella necessaria visione strategica di cui invece questo paese avrebbe tanto bisogno. Se prima tutti i protagonisti in campo non si siedono virtualmente a un tavolo per farsi una laica analisi di coscienza, ogni intervento di qualunque governo – anche quello dei migliori – non potrà che essere parziale e insoddisfacente.

Da una parte la classe imprenditoriale viene descritta come molto disarticolata, tendenzialmente fraudolenta (del fisco) e incapace di far fronte unico rispetto a esigenze micro e macro economiche comuni, dal piccolo artigiano al commerciante alla grande azienda. E’ certamente indubbio che il datore di lavoro debba ripensare se stesso, assumersi gli oneri e le responsabilità che si connaturano al suo ruolo sociale smettendo di trincerarsi dietro lo slogan “io consento a tanti di lavorare” per invocare esenzioni rispetto ai doveri nei confronti della comunità. E ci si riferisce all’evasione fiscale, ma anche all’abuso di contratti capestro, a paghe da fame, sfiducia negli enti di controllo, scarsa programmazione aziendale. Spesso viene chiesto un ruolo più partecipe, più intelligentemente selettivo, al “capo”, soprattutto in ambito del lavoro impiegatizio, dove il lavoratore ha la sensazione di essere uno fra tanti e che il merito, le qualità e le attitudini personali non vengano debitamente valorizzate.

Se quindi l’imprenditore deve necessariamente maturare una nuova percezione di sé mettendo in campo azioni ad essa coerenti, dall’altro occorre un generale ripensamento anche di che cosa è diventato il “lavoratore dipendente”. In particolare, ed è bene esser chiari su questo punto, sarebbe ora che qualcuno dicesse con forza che è finito il tempo della difesa del lavoratore a oltranza. Questo vale anche nelle corti di giustizia dove ancora esiste uno sbilanciamento a favore del lavoratore-dipendente in giudizio, sul vecchio presupposto della “parte contrattuale debole”, che oggi, per motivi che non è questa la sede di indagare, non corrisponde più a verità.

La domanda è: Possiamo davvero tollerare che in un colloquio di lavoro, la prima cosa che viene chiesta (anzi imposta!) dal candidato, è di avere il week end libero? O il contratto indeterminato hic et nunc? O un monte ore di straordinario stabilito a priori? O, del tutto all’opposto, possiamo accettare che i giovani non vogliano saperne di avere orari fissi pretendendo di autogestire il proprio tempo-lavoro, del tutto indifferenti agli obiettivi aziendali, alle strategie e a tutto ciò di cui l’impresa ha bisogno?
Noi crediamo di no. Che non solo non sia possibile né sostenibile, ma che non sia neanche giusto, educativo e dignitoso.
Il lavoro è dignità dell’essere umano ma al tempo stesso è un dovere sociale nei confronti della comunità in cui si vive. E certo non può né deve diventare strumento di privilegio o peggio ancora di ricatto, secondo lo schema per il quale o vengono accettate le suddette richieste oppure si rinuncia al lavoro magari migrando verso il “nero” o verso comodi sussidi di Stato.
Quando arriverà il momento in cui anche il lavoratore che accetta di lavorare in nero venga sanzionato al pari del datore di lavoro. Non si comprende come mai in questa distorsione della realtà, il secondo è uno sfruttatore senza scrupoli, mentre il primo è solo una vittima. La realtà è ben lontana. Spesso si tratta di un vero e proprio concorso di colpa, in cui tuttavia, solo una parte riceve lo stigma morale e la sanzione giuridica.

Invero, è proprio la cultura del lavoro che va rifondata, attraverso una assunzione di responsabilità del lavoratore verso l’azienda e verso la società nel suo complesso. In una dinamica virtuosa di complementarità fra dipendente e datore di lavoro, il primo dovrebbe progressivamente essere messo in grado di conoscere gli obiettivi aziendali e farsene interprete “pro quota”; maturare nel tempo quel senso di appartenenza a una comunità dal cui ben funzionare derivano onori e oneri per tutti. Occorre recuperare una cultura gerarchia – sì, esatto, gerarchica – del lavoro, in cui l’ultimo arrivato dovrebbe essere culturalmente tenuto al rispetto verso il superiore, il quale a propria volta dovrebbe sentire il dovere morale di aiutare l’inserimento e la progressiva acquisizione di sempre più competenze da parte del novizio. Tutto ciò manca completamente e questa distorta visione dell’eguaglianza, assieme ad altri fattori contribuisce al disastro in cui versa il mondo del lavoro.

Sarebbe quindi riduttivo pensare che il problema sia solo il reddito di cittadinanza che pure è uno strumento da rivedere radicalmente, o solo la paga oraria. Il vero nodo è sistemico e coinvolge la cultura del lavoro, la rivisitazione integrale dei contratti, l’aggiornamento di essi con una società che cambia continuamente e che fa emergere nuove esigenze e nuovi obblighi di regolamentazione. Si pensi alla necessità di modificare la NASPI, o ai contratti stagionali, ecc. la cui applicazione oggi dà luogo a fenomeni di intollerabile abuso.
Frutto di tali ritardi e inadempienze pubbliche, è la tolleranza verso fenomeni abnormi, ad esempio, di certificazioni mediche inviate a pochi giorni dall’assunzione, magari tramite i social network, la formazione – elemento essenziale all’interno della vita aziendale – vissuta non come occasione di arricchimento professionale, ma come inutile perdita di tempo da chi ritiene di già tutto sapere.

Su questo la politica è molto indietro, e l’Italia rispetto ai paesi europei stenta a svecchiare il sistema, complice il peso delle corporazioni poco inclini a perdere i propri privilegi.
Perché lo Stato con le sue articolazioni, non effettua i dovuti controlli? Perché si limita ad attività meramente formali con l’evidente finalità di sanzionare piuttosto che di coadiuvare l’impresa in una progressiva crescita virtuosa nell’interesse di tutti. D’altra parte, la coperta lunga della responsabilità oggettiva dell’imprenditore copre e sacrifica qualunque ipotesi di cambiamento nei diversi ambiti in cui azienda e istituzione si interfacciano. L’imprenditore considerato capro espiatorio per ogni cosa è un comodo alibi per non innescare processi di reale miglioramento all’interno della vita dell’azienda. Grande scandalo destò l’ipotesi del ministro Brunetta circa i controlli programmati, proprio perché scontiamo una cultura repressiva nei confronti dell’imprenditore. L’importante è pescarlo con le man nella marmellata. Viceversa, noi pensiamo che una collaborazione fra istituzioni pubbliche e imprese vada nella direzione giusta di un miglioramento collettivo, dove ciò che conta non è punire l’imprenditore, ma aiutarlo a superare le difficoltà che generano inadempienze nel miglior interesse della comunità aziendale. Poi, è chiaro, che se vi è recidiva nell’inerzia, o peggio ancora, illecito – amministrativo o penale – nonostante un percorso di cooperazione, allora è giusto che scatti la repressione e la punizione.
Ma senza un’assunzione di responsabilità da parte delle istituzioni nello snellimento delle procedure, nella deburocratizzazione del sistema, è evidente che non si può imputare al datore di lavoro ogni più piccola cosa. Ad impossibilia nemo tenetur dicevano i latini e avevano ragione, magari pensando a cosa sarebbe diventata l’Italia di lì a un paio di millenni; una babele di regole, di protocolli e di procedure spesso in contrasto tra loro che generano un caos intollerabile. Insomma, “volevo solo fare la pizza” come recita il titolo un gustoso pamphlet di qualche anno fa.

E’ evidente che questa serie di disfunzioni che abbiam provato sinteticamente a tratteggiare, si riflette nel suo complesso sul sistema Italia, rimasto fermo a decenni fa, anche con il proprio sistema di welfare evidentemente da mutare radicalmente.
Il sistema costa. Le risorse non ci sono e le tutele precedenti si fanno sempre più insostenibili.
Gli attuali lavoratori stanno pagando un welfare state in favore di chi non lavora più, e nell’attuale inversione della proporzione fra inoccupati e occupati, ben si comprende che tutto ciò – dagli ammortizzatori sociali al sistema pensionistico – non può durare a lungo. Ma in Italia, quando si parla di politiche sociali, si parla solo di pensioni. Una riflessione andrà prima o poi aperta su tutto l’impianto esistente a partire da una razionalizzazione della spesa pubblica che urge in tempi assai brevi anche a costo di scelte impopolari.

Certo ci vuole coraggio, e di coraggio non se ne vede. Non lo ha alcuna forza politica attualmente presente in Parlamento, forse perché i partiti son troppo impegnati a salvaguardare i privilegi del proprio elettorato di riferimento per poter pensare al futuro del Paese. E’ bene dirlo! Aggiungasi, senza voler scadere nel populismo demagogico, il fatto che molti parlamentari non possano contare al loro attivo alcun giorno di lavoro, non è circostanza da sottovalutare. Con quale la legittimazione e con quale la competenza pratica e concreta discettano sullo scibile umano? Non è dato sapere.
E, mentre da una parte imprese e dipendenti sono impegnati in questa guerra fra (sempre più) poveri, qualcun altro ingrassa sulle macerie di un paese che ha perso la bussola.
Ecco perché è necessaria la politica. L’unica legittimata a decisioni di lungo periodo purchè se ne abbia la vision. E tutto qui il nodo. Ed è tutto qui quel che manca.
Senza questa visione strategica, tutto diventa contingente. Tutto diventa discutibile, anche il Job Act, che con tutti i suoi limiti, ha avuto il merito di tentare di svecchiare un sistema stantio e asfittico.
E giù guerre ideologiche dei duri e puri della politica e del sindacato.
Già, il Sindacato. Altro fattore di rallentamento intollerabile del Paese.
Nella loro pervicace tutela dei privilegi di casta, non si accorgono che sono i lavoratori sulle cui spalle grava il doppio onere di mantenere se stessi e le loro famiglie in condizioni di vita dignitose e di a garantire i servizi pubblici essenziali anche in favore dei nullafacenti irresponsabili. Si sono forse dimenticati, CGIL, CISL e UIL, che sono gli stipendi e gli utili che pagano le pensioni, le malattie, i redditi di cittadinanza, ma anche i servizi pubblici come la sanità, l’istruzione, e il welfare?
E perché innanzi a tutto ciò, le Associazioni di Categoria rinunciano a fare battaglie campali in nome del progresso economico del paese e la dignità sociale che ne consegue, preferendo tacere e salvaguardare tutti i loro iscritti.

Ecco perché serve una visione strategica che non si arresti all’introduzione del salario minimo o all’abolizione del Reddito di Cittadinanza, misure su cui si può discutere certe, ma che rimangono confinate nel campo del “contingente”. Insomma perché vogliamo continuare a curare una febbre quando il malato rischia la vita?