L’irrompere del male: quella generazione di confine, tra Tondelli e Guilbert

Quando finalmente si era nel pieno di una festa per un’emancipazione duramente conquistata, ecco che nel cuore pulsante dell’Occidente si insinua un virus misterioso. Questo dannato virus sembra aver un carattere propriamente reazionario. Sì, perché all’inizio, iniziò la sua diffusione in ambienti progressisti e gay. Proprio quando si celebrava un vivere i diritti in modo condiviso, ecco l’irrompere di una malattia che si palesa come l’effetto di una punizione. Si può morir d’amore? Sì, si può e si deve!

Per farla breve, visto che ahinoi, siamo in tema, la malattia ebbe l’effetto di comprimere i diritti, quei diritti alla libera espressione del proprio essere. Avendo iniziato a diffondersi negli ambienti omosessuali e liberal di New York e di Manhattan, l’impatto sull’immaginario collettivo fu come uno schianto. Un’intera generazione fu letteralmente decimata e il male colpi le intelligenze migliori, le menti più avanzate.

Numerosi sono i film sul tema. Alcuni molto famosi, altri, ancora più intensi, furono produzioni di nicchia ma ancora oggi, dopo quarant’anni, potentemente evocativi e carichi di adesione. Oggi vogliamo limitarci a segnalare qualche romanzo, tra l’enorme produzione sul tema, che vale la pena ricordare. C’è una vastissima narrativa. Qui ci limitiamo a una prima puntata.

Di certo occorre ricordare Pier Vittorio Tondelli. Il suo Camere Separate segna, in Italia, il momento più alto della letteratura contemporanea. Dentro c’è il Roland Barthes di Frammenti di un discorso amoroso. Ma ci sono anche echi di Ingeborg Bachmann de Il trentesimo anno. Strutturato come una partitura musicale il romanzo si compone in tre “movimenti” in cui al tema principale della perdita dell’amore, della perdita dell’ideale, si intrecciano, attraverso la digressione e il flash-back, altri temi narrativi, che con ritmi, tempi, coloriture sempre variati danno luogo a un discorso spesso vibrante, a tratti disteso in un “cantabile” pieno di respiro, a tratti sapido nei toni lirici e commossi.

I temi che si intrecciano nascono tutti dagli archetipi fondamentali del vivere. Un uomo accompagna il feretro del suo compagno dall’America all’Italia in aereo. Ma tenendosi distante. Molto distante dalla “vera” famiglia del suo amato. Fu il suo ultimo romanzo. Il più cosmopolita dei nostri autori scomparve dopo poco.,A lui abbiamo dedicato un piccolo ricordo proprio su queste pagine.

Quindi eccoci entrare nel racconto specifico e crudo della malattia. Nella sua narrazione più spietata. Quella che fa i conti con il disfacimento materiale del corpo. Il male dell’amore. Descritto impietosamente da Hervé Guilbert. Filosofo, scrittore e giornalista parigino. Coetaneo di Tondelli. Nella nascita nel 1955 e nella morte, avvenuta nel 1991. Guilbert, autore di ben diciotto volumi di narrativa, dedicò all’Aids una trilogia. Una cronaca in tre atti. Lettera all’amico che non mi ha salvato la vita, Citomegalovirus e Le regole della pietà.

Il suo rapido costituirsi a mito per una generazione, l’enorme fascino della sua persona, se da una parte hanno dato ai suoi libri una risonanza eccezionale, dall’altra possono indurre nell’equivoco che sia stato solo nella “testimonianza” il suo valore e non come invece è stato nel suo talento di scrittore. Ne Le regole della pietà la scrittura accoglie, seleziona, controlla e restituisce al lettore gli effetti della malattia sull’uomo e soprattutto sullo scrittore stesso, l’osservazione oggettiva del lento percorso della morte dentro la sua persona.

Ma si badi bene, nessun pietismo, nessuna autocommiserazione si insinuano nel resoconto di una coscienza forte e dotata che osserva e ci restituisce un pezzo di realtà. Là, ai confini della morte, dove si seguono i “protocolli” dei medicinali, dell’analisi del sangue, degli esami terribili e continui, dove si sperimentano farmaci preziosi e introvabili e si incontrano medici amorevoli ma anche ciarlatani. Pur di provare ancora il desiderio di lottare, pur di provare ancora la voglia di scrivere. E attraverso di essa la voglia di essere vivi per essere liberi.

Forma diaristica. Essenziale. Ecco un paio di righi. “L’Aids mi ha fatto fare un viaggio nel tempo, come nei racconti che leggevo da bambino. Per via del mio corpo, scarnificato e indebolito come quello di un vecchio, mi sento proiettato, senza che il mondo si muova così in fretta intorno a me, nell’anno 2050. Nel 1990 ho novantacinque anni, mentre sono nato nel 1955. Sono uno scarabeo girato sul suo guscio che si dimena per rimettersi sulle zampe senza riuscirci…”.

In Citomegalovirus va giù duro. Il virus aggredisce gli occhi dello scrittore. Sarà questione di mesi o di giorni? Intorno, l’orrore di una camera d’ospedale. Il ricovero. Piccoli e grandi segni di incuria, i rapporti con le infermiere da negoziare attentamente, le distrazioni o i veri e propri errori del personale medico. E poi la flebo, le urla dalla stanza accanto, le notti insonni, la paura, senza dubbio.

Ma una paura che mobilita tutte le energie del malato; ed è come se, impegnandosi ostinatamente nelle piccole lotte quotidiane, di una malattia che procede lenta (a differenza del Covid) e inesorabile, per ottenere un’asta per la flebo che non sia difettosa, un tavolinetto che non si ribalti, una federa che non sia di carta… egli esorcizzi la malattia. La morte. Si scopre allora che, come la presenza degli amici o le complicità inattese, persino le antipatie o i veri e propri conflitti contribuiscono a mantenere il legame con la vita. Per tutto questo, e per il suo modo di guardarsi e di continuare a guardare il mondo, Hervé Guilbert fa parte degli scrittori che hanno “fatto del bene”. Malgrado tutto il male…