Le opzioni di David: perché Israele è costretto a reagire

Francamente stomacato dal continuo cianciare di pseudoesperti di strategie e di arte militare, che il più delle volte non hanno nemmeno fatto il soldato o come arma hanno tenuto in mano il fucile a turaccioli ai baracconi, provo a dare qualche dettaglio tecnico più specifico sulla situazione in cui si trova Israele in questo momento.

La narrazione quotidiana riporta insistentemente una massa di critiche all’operato del premier Netanyahu e su quello dei suoi ministri, fermo restando che dopo questa guerra ci saranno molte teste che cadranno.

Orbene, cominciamo per punti.

La prima regola dell’arte della guerra, dice che chi impone il campo di battaglia all’avversario, è in una posizione di vantaggio.

In questo caso, Hamas ha potuto imporre la scelta del terreno, avendo già potuto contare su di un effetto sorpresa incredibile, con un colpo iniziale diretto soprattutto alla credibilità militare ed alla deterrenza “in being” di Israele, costituita dal “mito dell’invincibilità”, costruito dopo la serie di guerre arabo-israeliane degli ultimi 40 anni.

Qualunque governo e qualunque politico al potere, avrebbe, in questo caso, dovuto dare una risposta adeguata, sollecitata sia da un opinione pubblica inferocita per la perdita di vite umane e la presa di ostaggi, sia dalla necessità geopolitica di far apparire il proprio stato come la potenza regionale che era, prima del 7 ottobre, e non come una tigre di carta.

Imporre al nemico il luogo dello scontro, per Hamas, significa costringere Tsahal a portare le operazioni militari dentro un’area estremamente urbanizzata e circoscritta, sotto gli occhi di tutto il mondo.

Le peggiori condizioni operative in cui una forza armata si debba muovere.

I soliti Sapienti insistono sul fatto che “una serie di operazioni chirurgiche e mirate” sarebbero la soluzione a tuti i mali.
Impossibile.

Nessuna guerra è mai stata vinta solo dall’aria, anche in presenza di uno strapotere assoluto.

La storia insegna che, dalla Ribellione del Rif in Marocco, quando venne usato per la prima volta l’aeroplano come strumento di lotta all’insurrezione, sebbene si possa fortemente limitare il nemico o lo si possa parzialmente annichilire, l’aereo, da solo, non basta.

La 2GM, la guerra di Corea, il Vietnam, la Guerra del Golfo, l’Afghanistan (sovietico e alleato), l’invasione dell’Ucraina e le guerre mediorientali, hanno insegnato che questa lezione è sempre valida, addirittura in un caso, ci è voluta l’arma atomica per piegare un nemico determinato e irriducibile.

Seconda lezione da apprendere: il bombardamento aereo, sia esso sistematico o selettivo, su di un obiettivo urbanizzato, favorisce sempre il difensore e mai l’attaccante (salvo l’uso dell’arma nucleare si intende), perchè si creano macerie.
Le macerie sono perfetti nascondigli per i difensori, possono essere ottime fortificazioni di circostanza, sono ostacoli ideali per il transito dei mezzi di terra (che quindi vanno poi rimossi ma servono altri mezzi idonei).

In questo genere di combattimento, contano le armi controcarro a distanza ravvicinata (come i nuovi tipi di RPG e di ATGM russi e iraniani in mano ad Hamas), i droni ad ala rotante, le trappole esplosive, anche collegate ai cadaveri e ai feriti e le classiche armi da fanteria che danno vantaggio solo se uccidi l’avversario prima che lui uccida te.

Abbiamo visto, dai filmati del 7 ottobre, come nemmeno un Merkava IV, munito di sistema antimissile Trophy, sia immune ad un attacco di un piccolo drone lancia-bombe dall’alto, figuriamoci tra le strade di una cittadina…..

In questo caso, inoltre, la presa in massa di ostaggi, pone in vantaggio il nemico, cioè Hamas, di altre due condizioni, gli ostaggi sono eccellenti moltiplicatori di forze a costo zero, impedendo l’utilizzo massiccio della forza militare in possesso di Israele, e sono eccellenti polizze assicurative in caso di trattative che non comportino il sistemico concetto di “operazioni suicide”.

Hamas, come tutte le organizzazioni paramilitari terroristiche o di guerriglia, pone alla base della sua strategia militare una regola che la storia ci insegna come sia sempre valida: un esercito regolare e organizzato in modo tradizionale cercherà sempre un ingaggio campale contro il proprio avversario, mentre un nemico organizzato come un non-esercito, sfuggirà sempre a tale ingaggio, ponendo in essere una serie di metodologia di combattimento non convenzionale per le quali, se l’esercito tradizionale non si adatta, diventa molto insidioso da contrastare e, statisticamente, con poche probabilità di successo.

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epa10485134 Israeli Prime Minister Benjamin Netanyahu convenes a cabinet meeting at the Prime Minister’s office in Jerusalem, 23 February 2023. EPA/RONEN ZVULUN/POOL

La storia ci ha insegnato che i “i pochi cenciosi contadini con i sandali” (come li chiamava De Gaulle), hanno, a prezzo di perdite immani tra la popolazione (ma era un preciso e cinico calcolo strategico), cacciato sia l’esercito francese che quello americano dall’Indocina.

La storia ha insegnato che i due più potenti eserciti al mondo (più quelli degli alleati), non sono mai riusciti veramente a ridurre a zero il pericolo costituito da una massa tribale di uomini armati di armi leggere ed esplosivi, mescolati tra la popolazione e dissimulati in un territorio montuoso a arido.

In quanto a combattimenti urbani, la storia ha insegnato che Stalingrado, Caen, Ortona, Cassino, Berlino, Aachen, Grozny, Hue, Bassorah, Mariupol e Sarajevo, sono esempi perfetti di come ci si trova a “dover” combattere, quando il nemico in difesa sceglie e impone il campo di battaglia, spesso per palesi e poco avvedute decisioni di chi attacca.

Notare che stiamo parlando di situazioni, tranne forse le battaglie urbane condotte da forze occidentali, dove il valore delle vite umane civili non è mai stato preso in considerazione come importante.

Per Israele è diverso, si tratta di una partita a scacchi dove è costretto a fare la “seconda mossa”, di fronte ad un pubblico mondiale che valuta e condanna ogni piccolo errore (vero o creato ad arte), giocata in uno scenario mediatico dove la vittoria se l’è già assicurata Hamas, dove è materialmente impossibile procedere ad una campagna aerea di attacchi sistematici senza fare vittime civili (e non si parla di qualche danno collaterale) perchè il nemico si è assicurato la presenza in massa sia di ostaggi (e abbiamo già visto il loro utilizzo poc’anzi), sia dei propri stessi compaesani, utili e gratuiti supporti militari di teatro in funzioni di scudi e di “decoys” difensivi.

La presenza di una enorme rete di collegamenti sotterranei, predisposti e realizzati in anni di preparazione e pianificazione strategica, crea le condizioni, amplificate mille e mille volte, già viste nella guerra del Vietnam con il fenomeno dei “Tunnel Rats”, reaprti specializzati americani che, con il solo uso di armi corte e di una torcia, davano la caccia ai vietcong nei tunnel da loro scavati, per poter eliminare la minaccia costituita da attacchi alle spalle e imboscate mortali nelle retrovie.

La soluzione, quasi obbligata, quindi, per Tshahal, consiste nelle sole due opzioni possibili:
-Il combattimento di terra, bonificando ogni singolo metro del territorio nemico.
(aspetto positivo è che il cosiddetto territorio è abbastanza limitato)
-Il supporto aereo limitato all’attacco di obiettivi sensibili, con munizionamento terminale guidato
(aspetto positivo costituito dall’elevata tecnologia in mano ad Israele)

Gli aspetti negativi sono purtroppo tutti gli altri:
-Aver gravemente sottostimato la capacità di pianificazione avversaria
-Aver sovrastimato la propria capacità di deterrenza e di “readiness conditions”
-Dover mettere in conto un elevato numero di perdite di terra e di mezzi danneggiati e distrutti
-Dover porre particolare attenzione al fatto di essere il “cattivo” mediatico agli occhi di buona parte del mondo, a vantaggio del nemico.

Ecco in sintesi perchè, a parere mio, è irrilevante che, al governo, vi siano Netanyahu o Paperino.

E’ una problematica di natura puramente militare, ora, in gioco, che va affrontata, e le vie di uscita sono troppo poche per essere ancora discusse con metodi sociologici o filosofici.

Si deve combattere a terra, all’antica, uomo contro uomo.
Fino a vincere, oppure a essere sconfitti (anche dalle opinioni pubbliche).