La morte del centro deve essere la rinascita del liberalismo

Prendiamo atto che la nostra è, dalla nascita della Repubblica, una democrazia bloccata.

Durante la prima Repubblica lo era perché c’era un partito comunista pagato dall’URSS: il nemico della democrazia, della libertà, dello stato di diritto.
Durante quella che furbescamente chiamiamo seconda Repubblica ma che non è altro che la prosecuzione della prima, lo è in quanto, progressivamente, ha preso corpo il partito unico populista sovranista illiberale articolato in correnti: destra, sinistra, rosso bruno, fascio comunista, gli aggettivi si sprecano, salvo le finalità: spesa pubblica, statalismo, burocrazia assistenzialismo, giustizialismo. La naturale regola dell’alternanza, elemento fondamentale della democrazia, è pura utopia.

Dalla caduta del muro di Berlino in poi la regola dell’alternanza tra destra e sinistra è stata barattata con un’insulsa e stucchevole commedia con attori che parlano lo stesso linguaggio: misure stataliste, elargizioni di sussidi, intromissioni nella vita privata, opposizione al progresso, legiferare per condizionare la vita privata ed economica dei cittadini e delle imprese, il che a portato e porta a contorsioni da invertiti.
L’affermare che le elezioni si vincono al centro è sempre più un eufemismo politichese, quando tutto è stato sempre più ristretto alla semplice mobilitazione delle tifoserie divise dalle insignificanti ideologie novecentesche. Parlare di centro politico è sempre più un discorso vuoto perché comunque riconducibile al partito unico.

Un tempo il “centro politico” era rappresentato dalla Democrazia Cristiana.
La DC si dichiarava equidistante da quelli che chiamava “opposti estremismi”.
Pur restando un partito di centro scelse una alleanza strategica a sinistra, con i socialisti a livello di governo, estesa ai comunisti a livello istituzionale.
Le ragioni della scelta non furono mai di natura tattica, ma strategica, fondate su valutazioni geo-politiche e storico-politiche.

Oggi il “centro” si limita alla semplice dichiarazione di equidistanza ma tale principio si fonda su ragioni tutte tattiche evitando scelte strategiche sul piano del governo e delle riforme istituzionali e, a volte, rinunciando a fare politica, emerge la sindrome del grillo parlante interpretando il ruolo di supponenti commentatori.
In uno scenario politico così fatto occorre uscire dalla logica della testimonianza di una opposizione che non si pone l’obiettivo strategico di costruire il soggetto politico credibile in quanto alternativa al partito unico e questo non può essere l’ennesimo partito moderato di buon senso in stile “centrista” ma un soggetto inequivocabilmente liberale.

Bisogna però avere il coraggio di prendere atto che tale alternativa non può essere generata nell’ambito di un’area politica sostanzialmente costituita da ex PD strutturalmente caratterizzata dai principali vizi della sinistra: liderismo, settarismo, correntismo, gusto per la polemica, culto della personalità, presunzione di superiorità, generando nel tempo guerre intestine e conseguenti fratture e scissione. La storia della sinistra è lastricata di testimonianze in tal senso da cui hanno tratto origine Italia Viva e Azione.

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Il fallimento del Terzo Polo sta unicamente nella loro genesi in quanto antropologicamente ancorati alla storia della sinistra e con esso fallisce anche l’idea che l’alternativa possa derivare dalla cosiddetta sinistra riformista.
Il Paese ha bisogno di una svolta radicale, non ha bisogno solo delle proposte ragionevoli da parte di chi si è auto- certificato “competente” . In questo anno che si sta per concludere è stato toccato con mano che la tecnocrazia della competenza non porta da nessuna parte.

Una svolta radicale non può non partire da un nuovo patto costitutivo rispetto al quale, la Carta costituzionale nata dal consociativismo cattocomunista dimostra tutta la sua inattualità nella sua interezza.
Qui sta tutta la fragilità della proposta del fronte repubblicano a difesa della prima parte della Costituzione. Un nuovo patto fondativo nel quale l’ispirazione liberale prevalga sulle pulsioni populiste, sovraniste e fascistoide che si intrecciano nelle logiche del partito unico. La costruzione del partito liberaldemocratico, del partito che non c’è perché nel quadro politico italiano non sussiste nessun embrione ad esso in qualche modo riconducibile, impone, senza ipocrisie, una leadership coraggiosa, nuova e fuori dagli schemi convenzionali, continuare a ostinarsi nel seguire le piccinerie tatticistiche e rancorose degli attuali protagonisti che si auto-attribuiscono la rappresentanza esclusiva dell’area alternativa al partito unico è del tutto inutile, inefficace e in definitiva autolesionista. La vicenda tragicomica della lista unica alle elezioni europee è lì a dimostrarci il vuoto che ci circonda.

Tutto ciò non può non avere delle implicazioni verso di noi come Buona Destra. Dando per aquisito la nostra collocazione dentro Azione, questo non ci impedisce di ritagliarci un nostro spazio più politico che va oltre l’essere un’area culturale. L’adesione di Azione all’Alde non può essere vista solo in un ottica europea dentro il gruppo Renew Europe ma deve avere delle ricadute organizzative interne al partito nella costituzione della corrente liberale.

È fin troppo palese l’approssimazione e le contraddizioni con cui Calenda ha gestito tale adesione in chiave antirenziana (Azione era nel PDE con Italia Viva) ma tale passo è stato compiuto, sta a noi renderlo irreversibile radicando nella cultura politica del partito il Liberalismo come l’elemento identitario fondante, archiviando quell’idea bislacca di pensare ad Azione come il PD veltroniano del lingotto. Questo è il passaggio chiave per fare diventare Azione l’embrione del partito che non c’è. Diversamente non c’è logica politica.