Si consuma in aula l’ennesima debacle di Giorgia Meloni che vede affossato alla Camera il suo disegno di legge per una riforma in senso presidenziale dello Stato.
È passato con 236 sì ieri l’emendamento del Movimento 5 Stelle che decapita la proposta Meloni privandola dei primi 4 articoli. Donna Giorgia oltre che l’opposizione del centrosinistra, tradizionalmente contrario al presidenzialismo, ha dovuto sopportare pure l’indiretto tradimento dei suoi alleati del centrodestra (dis)unito, visto che sul voto finale hanno pesato le assenze di 26 deputati del Carroccio e 16 di Forza Italia.
E se nel suo intervento la leader di Fratelli d’Italia aveva espressamente affermato che “la vera posta in gioco oggi è stabilire chi debba davvero detenere la sovranità in Italia, se il popolo o il palazzo con i suoi intrighi e sotterfugi”, è stata servita ben bene. Non si sa se siano state assenze casuali o un preciso segnale, se sia stata fatalità o abbiano avuto luogo i temuti “intrighi e sotterfugi”: il fatto è che il DDL costituzionale non è passato e il progetto presidenziale della Meloni almeno per un po’ torna in soffitta.
Buona notizia la bocciatura? In parte sì in parte no. Infatti – e questa è la parte sì – il testo Meloni presentava notevoli punti critici che forse avrebbero meritato un approfondimento in più, ma è certo che quella persa – e questa è la parte “o della risposta – è una battaglia storica della destra italiana che coglie un punto importante, serio e sensato che rischia di essere bypassato nuovamente per chissà quanto tempo ancora. Il sistema attuale, cioè la forma di governo parlamentare con bicameralismo uguale e perfetto (cioè quel meccanismo per il quale una legge deve essere approvata nel medesimo testo da ambedue i rami del Parlamento) non regge più. Se aveva un senso all’indomani della dittatura fascista quando la paura di un presidente forte poteva rievocare i sogni autoritari appena trascorsi, oggi si rivela un fattore di intollerabile rallentamento burocratico. I tempi lunghi del percorso parlamentare generano un rallentamento dell’attività legislativa e dell’attuazione del programma di governo per superare il quale l’esecutivo ricorre sovente all’abuso della decretazione d’urgenza o della delega legislativa. Ciò significa, di fatto, spostare almeno in una prima fase, la potestà legislativa in capo al Governo e a scapito del Parlamento chiamato o a ratificare successivamente (nel decreto legge) o a preliminarmente indicarne solo la cornice generale di riferimento.
Allora, se tale deve essere il nuovo assetto dei poteri, tanto vale certificarlo con una riforma in senso presidenziale (o semipresidenziale) e consentire che i cittadini eleggano il proprio presidente, il quale è responsabile, nel bene o nel male, della direzione politica che dà al Paese. La legittimazione popolare del capo dello Steto e il potere di nomina e revoca dei ministri consentono, infatti, il pieno esplicarsi dell’indirizzo politico, la stabilità del Governo e l’impossibilità di ricatti da parte dei partiti di maggioranza, come avviene adesso. La storia italiana, anche solo volendosi limitare alla Seconda Repubblica, è piena di Governi sostenuti da compagini eterogenee sotto perenne ricatto di un Turigliatto qualsiasi. L’estrema instabilità di sistema, come è facile intuire, determina l’inaffidabilità istituzionale del nostro Paese all’estero e l’impossibilità di portare avanti programmi di riforma che, oggi più che mai, fanno sentire la loro urgente necessità.
E, allora, forse varrebbe la pena davvero accettare la sfida del cambiamento e dell’aggiornamento della nostra Costituzione a un mutato contesto storico e sociale, in cui la politica debba tornare a decidere e ad assumersi le proprie piene responsabilità circa la direzione che dà al Paese. L’alibi delle maggioranze divise, dei parlamentari che sotto lo scudo del divieto di mandato imperativo transitano da una parte all’altra dell’emiciclo, non può più reggere. Il Paese ha bisogno di altro. Come la pandemia ha dimostrato chiaramente, un Governo che non decide non risolve i problemi o, come nel caso di Conte, è costretto ad alchimie legislative – il DPCM – di dubbia costituzionalità.
L’incombente fine della legislatura non è il momento adatto per riforme di questo genere e ciò spiega bene come quella della Meloni sia stata l’ennesima boutade propagandistica fatta a spese del Paese, ma è altrettanto vero che l’esigenza sollevata è reale e concreta.
Forse, una buona soluzione di compromesso fra i parlamentaristi e i presidenzialisti, potrebbe essere il modello francese che prevede un semipresidenzialismo a doppio turno. Il corpo elettorale elegge il presidente sulla base di un primo turno in cui possono partecipare i vari candidati, salvo accedere al ballottaggio solo i due maggiormente votati in prima tornata.
Vedremo se il nuovo Parlamento saprà accettare la sfida del cambiamento che, francamente, non può più essere rimandata.