Non ci si approccia allo studio della complessità della storia intendendola come una serie di eventi isolati, particolari, ma come un insieme di processi politici, sociali ed economici emergenti e interdipendenti. Per questo motivo, la valenza geopolitica della guerra in Ucraina non si limita al comprendere come il passato tentativo di raggiungere una maggiore interdipendenza con la Russia sul piano energetico e militare, al fine di stabilizzare le relazioni tra essa e il mondo Occidentale, sia stato un gravissimo errore che ha esposto il mondo al rischio di un conflitto globale. Si deve andare oltre e avere il coraggio di accettare che questo conflitto, inserito in un processo macrostorico iniziato con la caduta del muro di Berlino, impone un ripensamento strutturale del ruolo dell’Europa nel rinnovato sistema multipolare e multilaterale delle relazioni internazionali.
Una rivoluzione concettuale e politica che non cancella i progressi fatti ma che riscopre le basi della natura del sistema internazionali purtroppo dimenticate. I temi classici del realismo, qui inteso come corrente teorica della scienza politica, come l’interesse nazionale, la deterrenza militare, l’indipendenza energetica, la stabilità finanziaria, vanno necessariamente riscoperti questa volta declinati in chiave di autonomia continentale sia e soprattutto nei confronti della Russia e della Cina, ma anche con riferimento agli Stati Uniti d’America. Pensiamo infatti a cosa potrebbe succedere qualora la presidenza americana fosse affidata ad una personalità politica che, per inadeguatezza o per disegno deliberato, decidesse per una politica isolazionista o, stante l’inevitabile impatto della per una postura molto più aggressiva di quella attuale e svincolata delle istituzioni di diritto costruite in questi decenni per dirimere le controversie internazionali (FMI, OMS, etc). Trump ci ha dato un’idea di quello che potrebbe accadere, ma potrebbe andare anche peggio.
Che cosa potrebbero fare, a quel punto, i deboli stati europei per fermare una nuova crisi? Poco o nulla se non capitolare subendo le decisioni di Washington o resistere cercando sponde verso oriente, ma finendo inevitabilmente per passare da un’area di influenza a un altra cadendo, proverbialmente, dalla padella alla brace. E dunque necessario un salto di qualità che sia coerente con la storia. Non si tratta certamente di abbandonare i già saldati rapporti di amicizia transatlantici ne il percorso di integrazione mondiale, imposto dalla globalizzazione e dell’emergere di problemi globali, quanto piuttosto accettare che questo processo di integrazione avviene per stadi e, lungi dall’essere strutturato orizzontalmente, mettendo cioè tutti i paesi sullo stesso piano, si presenta come intrinsecamente gerarchico e necessita pertanto che gli stati più forti si aggreghino prima di tutto tra loro identificando aree omogenee sotto il profilo culturale e sociale ma soprattutto sotto quello dell’interesse nazionale.
La falsa dicotomia tra NATO e difesa europea, per esempio, va abbandonata definitivamente comprendendo quanto al contrario una forte difesa europea è necessaria per la stessa sopravvivenza del Patto Atlantico. Inoltre, raggiungere l’indipendenza energetica a livello europeo, abbandonando le illusioni del fondamentalismo ambientalista e ripensando la posizione sul nucleare, è la via maestra per risolvere la debolezza del continente ma anche per alleggerire il carico di responsabilità degli Stati Uniti. Siamo arrivati a un bivio. Ci siamo accorti che esiste un interesse nazionale europeo e la proposta di Stati Uniti d’Europa forti e indipendenti non deve dunque spaventare né chi sogna un mondo più integrato né chi vuole preservare le proprie tradizioni. Al contrario è l’unica alternativa all’incognita di un futuro disgregato di instabilità, diffidenza e conflitti su larga scala.
Questa volta o la va o la spacca.