La fronda contro lo sciopero dei magistrati si allarga sempre di più

Il progetto di una corporazione compatta e unita nella protesta contro la riforma Cartabia sta lentamente ma inesorabilmente franando sotto i colpi dei vari distinguo provenienti da magistrati assai autorevoli che prendono le distanze – seppur poco coraggiosamente – dallo sciopero indetto dall’ANM per il 16 maggio.

Oggi a prendere posizione contro la serrata, è Eduardo Savarese, magistrato studioso e professore universitario alla Federico II di Napoli, dalle colonne de Il Riformista. L’occasione è gradita non tanto per ripetere le argomentazioni a favore o contro la Riforma né quelle – dal nostro punto vista – radicalmente contrarie all’iniziativa dell’ANM, quanto piuttosto per riflettere sul senso e sulla direzione che l’Associazione sta prendendo da qualche decennio a questa parte.
Il punto di partenza inevitabile per Savarese è il periodo berlusconiano quando al grido borrelliano “Resistere, Resistere, Resistere come sull’invalicabile linea del Piave” la magistratura italiana si trovò compatta nel combattere le riforme proposte dagli allora ministri della Giustizia sia di centrodestra che, poi, di centrosinistra (Castelli e Mastella su tutti), condite di qualche provvedimento ad personam o contra personam a seconda dei casi. In quel contesto, l’ANM ebbe gioco facile a presentarsi come sindacato di interessi corporativi fondato sull’unità associativa. Ciò che decideva, trovava il consenso unanime della base e un silenzio tombale su ogni iniziativa proposta. Questa unità associativa nel tempo è divenuto un dogma, uguale a se stesso per definizione, che fa scattare una sorta di riflesso condizionato nella magistratura ogni volta che si parla di riforme. Se – sempre secondo Savarese – quelle di allora erano effettivamente un pericolo per lo Stato di Diritto (giudizio sul quale ci permettiamo di avanzare più di una riserva), sicuramente non lo è la Riforma Cartabia, bollata dal magistrato tutt’al più come sostanzialmente inutile. Eppure che sia un attentato alla indipendenza delle toghe o una riforma priva di reale impatto sulla Giustizia italiana, il riflesso pavloviano della casta è sempre il medesimo. Alzata di scudi a prescindere, e “lotta dura senza paura”. In questo modo e negli ultimi trent’anni, l’ANM da organismo associativo rappresentativo di un potere dello Stato che dialoga con gli altri poteri, si è trasformato in un vero e proprio partito politico ratione materiae, del tutto impermeabile a ciò che avviene al di fuori della corporazione.

Ma da allora (governi Berlusconi-Prodi) a ora, molto è cambiato e c’è stato un certo caso Palamara che ha evidenziato che non nessuno è vergine in questa triste vicenda tutta italiana. La magistratura, lungi dall’essere un corpo solo, moralmente specchiato e “cavalier senza paura” contro i vari nemici (la criminalità organizzata, la corruzione, la politica e la finanza sporca ecc.), ha mostrato crepe che difficilmente potranno essere riassorbite, soprattutto agli occhi di una opinione pubblica drogata per decenni dal mito del magistrato eroe per definizione.
C’è stato l’Hotel Champagne, metafora di un sistema marcio in cui politica e toghe (mi si perdoni la inevitabile generalizzazione, ma si fa per intendersi) si comportavano come i ladri di Pisa: litigavano di giorno e si mettevano d’accordo di notte. E su questo ha ragione Savarese. La riforma Cartabia tange appena quegli oscuri meccanismi che probabilmente continueranno in forma diversa adattandosi ai tempi. Ma il mito delle poche mele marce in un corpo sano, è definitivamente saltato. Oggi la magistratura dovrebbe fare una profonda analisi interna e contribuire a sviscerare i mali che la affliggono collaborando – alla luce del sole, stavolta – con la politica e mostrando di aver raggiunto quella maturità istituzionale che porta a farsi parte attiva di un inevitabile cambiamento.

Il mito dell’unità associativa è un ostacolo. L’ANM che di quell’assetto di interessi e poteri è supremo garante deve fare i conti con il fatto che radica la propria legittimazione in quegli stessi meccanismi di acquisizione del consenso che tanti danni han portato alla magistratura e agli organi che ne rappresentano il funzionamento istituzionale, in primis il CSM. Il tutto, guarda caso, con gravi ripercussioni proprio su quella indipendenza del giudice che invece è valore costituzionale da preservare. Non si tratta qui di indipendenza nei confronti della politica, che nessuno vuole mettere in discussione e che comunque sarebbe facilmente tutelabile in caso di invasione di campo; si tratta di una indipendenza diversa molto più importante, la cui violazione è più subdola e quindi più pericolosa. Quella del singolo giudice rispetto alla magistratura in sé, ai suoi capi, agli organi direttivi allo stesso Consilio Superiore. Questo è il vero tema. E finora nessuno ne parla.
Purtroppo il “coraggio” di Savarese qui si ferma (e probabilmente non potrebbe essere diversamente), non riuscendo ad andare oltre il nanismo giudiziario (né con Cartabia né con ANM), ma è un segnale importante, che finalmente spezza l’unità dogmatica della categoria.