Se c’è una cosa che c’ha insegnato questa emergenza coronavirus è che in Italia esiste una diarchia che paralizza l’azione amministrativa e blocca lo sviluppo.
Lo Stato centrale e le Regioni. Quelle a statuto ordinario compiono quest’anno mezzo secolo: videro la luce nel 1970, e nelle intenzioni del legislatore avrebbero dovuto portare a compimento la composizione dello stato repubblicano. Ma le riforme che negli anni le hanno interessate, specie quella del titolo quinto della Costituzione avvenuta nel 2001, ci hanno consegnato potentissimi microstati all’interno dello stato stesso, con autonomia decisionale e senza più il controllo sulle disposizioni normative.
“Dopo mezzo secolo di vita si può essere soddisfatti dell’introduzione delle Regioni?” si chiede Sabino Cassese in un articolo uscito ieri. La risposta negativa sembra scontata. E per rendersene conto basta guardare la sempre più scarsa adesione degli elettori alle consultazioni per il rinnovo dei consigli regionali e per l’elezione, diretta, dei presidenti. In 30 anni la partecipazione elettorale è scesa di 20 punti: vota per le regionali la metà dell’elettorato avente diritto, che invece aumenta quando le consultazioni riguardano il rinnovo del Parlamento. Il che vuol dire che si guarda con maggiore distacco al centro di potere che idealmente dovrebbe essere quello più vicino, percepito invece come alieno e distante.
E poi l’antagonismo tra Regioni e Stato centrale ha fatto il resto, riproponendo ai cittadini-elettori lo schema poco amato delle divisioni politiche. Acuite dalla distanza, sempre più abissale e sempre più marcata dai governi regionali, tra nord e sud.
“Ogni Regione si comporta come un potentato locale – scrive ancora Cassese-, dimenticando che l’articolo 5 della Costituzione, prima di riconoscere e promuovere le autonomie, dispone che la Repubblica è ‘una e indivisibile’. La cooperazione nel riequilibrio dei divari, che ci si aspettava inizialmente, non c’è stata. Le Regioni si sono comportate come parti di una confederazione rissosa, non come componenti di un organismo unitario, quello che la Costituzione chiama Repubblica”.
Fino a che andremo avanti a colpi di decreti e ordinanze, di disposizioni autonome e ricorsi al Tar, l’Italia resterà sempre un Paese involuto e senza una visione nuova di partecipazione al potere pubblico.