di Kishore Bombaci
Solo che si provi semplicemente a digitare su “Google” le parole “infortuni sul lavoro” e si faccia una ricerca su “notizie”, emerge un elenco sterminato di episodi spesso molto gravi e sovente mortali. Solo ieri, ben 6 in varie parti d’Italia e in vari comparti e settori produttivi. I dai sono impressionanti. Da inizio anno già 680 morti.
Questa vera e propria emergenza nazionale, che giustamente è stata chiamata “crimine di pace” ormai è divenuta quotidianità cronachistica che quasi non scandalizza o non sconvolge più, come dovrebbe. Luana, Giuseppe e Saverio e tanti altri che si sono alzati una mattina per andare a lavoro e non hanno fatto più ritorno a casa, lasciando spesso coniugi e figli anche piccoli. Questa strage silenziosa deve essere fermata.
Non importa l’età, la provenienza, il colore della pelle: si tratta sempre e comunque di persone, esseri umani, che nel compiere il proprio lavoro trovano la morte o si infortunano gravemente. Non v’è dubbio che rispetto ad altri paesi, il nostro sconti una cultura della prevenzione carente sia nel mondo delle imprese che nel mondo del lavoro.
Da tempo, troppo tempo, si invocava un tavolo che coinvolgesse le istituzioni e le parti sociali affinchè tutte assieme, in un’ottica collaborativa si potesse por freno al fenomeno e si individuassero delle soluzioni il più possibile condivise.
In questi giorni, finalmente si è verificato un incontro che ha visto la partecipazione del Governo e dei sindacati sul tema (assente Confindustria, la quale comunque ha dimostrato di essere assai sensibile sul tema, attraverso proposte serie e concrete che potrebbero essere prese a base di uno sviluppo futuro). Che cosa ne è uscito? Qualcosa di indubbiamente importante, anche se non ancora sufficiente! Finalmente si va nella direzione di una revisione del dettato normativo che risale ormai al 2008 (il T.U. n. 81) che ha certamente bisogno di un tagliando. Il T.U. sebbene abbia avuto il grandissimo pregio di raccogliere in una unica fonte, normative prima disperse, si sta dimostrando non completamente adeguato sia sotto il profilo della sanzione, sia. Soprattutto, sotto quello della prevenzione.
Se guardiamo tuttavia che cosa è emerso dal confronto Governo-Sindacati, non vi è dubbio che prevale ancora – negli interventi ipotizzati – una logica prevalentemente sanzionatoria che da sola non è, ad avviso di chi scrive, sufficiente a fermare il fenomeno “infortunio sul lavoro”.
Fra tali interventi si distinguono l’incremento dei controlli e l’assunzione di nuovo personale ispettivo, nonché la banca dati delle sanzioni in modo tale da intervenire con tempestività per le imprese inadempienti e al contempo premiare quelle virtuose; e ancora, bene la abolizione della c.d. recidiva per procedere alla sospensione e blocco dell’azienda. Sicuramente interventi importanti e doverosi.
C’è un però!
E questo però è piuttosto grande e importante. Se si insiste in una logica soltanto punitiva per le aziende senza al contempo fornire queste di strumentazione giuridica e tecnico-operativa per farvi fronte, si finge di affrontare un problema ma non lo si risolve.
In altre parole, nella vigenza dell’attuale dettato normativo e anche alla luce di quanto emerge dall’incontro Governo-Sindacati, non viene in alcun modo toccato il tema della divisione delle responsabilità all’interno dell’organigramma aziendale e lo stato dell’arte è tale che al datore di lavoro rimane ancora imputata ogni responsabilità. Le nuove misure, quindi, si tradurrano in un ulteriore onere a suo carico con aggravio di responsabilità senza però che nulla venga fatto al fine di garantire effettivamente che lo stesso datore di lavoro possa adempiere al proprio compito.
E’ vero che manca ancora una completa cultura aziendale sulla sicurezza del lavoro, e che molte siano le colpe storiche della classe imprenditoriale, ma è anche vero che l’idea che sia sufficiente il profilo sanzionatorio per contenere il fenomeno è tanto utopistica quanto infondata. L’aspetto cioè soltanto deterrente della punizione non aiuterà a mio avviso quella cultura della sicurezza che deve necessariamente vedere solidali i datori di lavoro, i lavoratori e le loro rappresentanze nonché le figure terze di natura tecnica che partecipano “in parte qua” al processo produttivo. Già oggi l’impostazione sanzionatoria ha obbligato i datori di lavoro al solo fine di ridurre e limitare le responsabilità, a una serie di adempimenti amministrativi e burocratici tanto imponenti quanto, evidentemente, inutili; senza però mettere nelle condizioni questi ultimi di sapere effettivamente che cosa facevano e quindi di rendersi parte attiva nel processo “sicurezza sul lavoro”.
Affinché la prevenzione sia effettiva è necessario pensare alla sicurezza sul lavoro come a un sistema integrato di competenze specialistiche e quindi di responsabilità, attraverso la valorizzazione effettiva di figure tecniche che siano altamente formate (penso agli RSPP e agli ASPP) che siano in grado di effettivamente coadiuvare l’imprenditore nella predisposizione di un assetto operativo in grado di salvaguardare la salute fisica e psicologica del lavoratore. Figure oggi quantomai sottovalutate anche sotto il profilo della responsabilità giuridica. La prassi ha fatto sì che tale figura (RSPP) coincida formalmente con il datore di lavoro (anche se poi questo deve necessariamente avvalersi di una figura professionale terza, del tutto irresponsabile), il quale niente sa di sicurezza né di tutto il complesso delle competenze che necessitano per garantirla.
Ecco, una prima modifica potrebbe forse essere quella di istituire un RSPP terzo per legge (quindi non coincidente con il datore di lavoro) e che costui sia chiamato a rispondere per i mancati adempimenti aziendali in ambito di prevenzione e protezione, per quanto di competenza. Ciò, non solo dopo l’infausto evento, ma mediante una verifica costante di tali adempimenti in una sinergia continua con gli organi di vigilanza.
Altro punto fondamentale, potrebbe essere quello di semplificare le procedure per la vigilanza attraverso meccanismi di collaborazione preventivi tra l’Azienda e la gli Organi di Ispezione e Controllo. Meccanismi, cioè di “report” aziendali e indicazioni specifiche dei suddetti organi su cosa fare ed entro quando farlo. Tutto questo “ex ante”, al fine di avere un monitoraggio continuo delle aziende (non solo dal punto di vista delle sanzioni irrogate) e di poter intervenire quindi tempestivamente nei processi produttivi a fini preventivi.
Senza un tali interventi finalizzati a implementare una costante collaborazione tra aziende e comunità. che rendano la protezione dei lavoratori “endemica” alla vita produttiva, i morti e gli infortuni saranno sempre in numero troppo rilevante, e la sola “punizione” per l’imprenditore si dimostrerà sempre coperta troppo corta e comunque intervento “ex post”. Occorre –e lo ripeto – passare da una visione della sicurezza nei luoghi di lavoro incentrata sulla sola visione special-punitiva a una orientata anche e soprattutto verso la prevenzione, in accordo con una visione liberale del lavoro per il quale lo Stato non è punitore, ma collaboratore e coordinatore della comunità. Si tratta di un modello di natura partecipativa che consente a tutti i soggetti coinvolti – imprenditori, lavoratori, rappresentanze- di lavorare in modo cooperativo avendo obiettivi comuni e concordati.
Il patto sociale evocato dal Premier Draghi in Confindustria e le risorse del PNRR con le importanti e pesanti ricadute economiche sul piano nazionale e locale potrebbero garantire ossigeno economico atto a finanziare anche interventi di questo tipo e sono un occasione che non può andar sprecata per nessuno degli attori in gioco.