Il sogno europeo di Draghi è il nostro sogno

Dall’addio a Palazzo Chigi è trascorso un anno. Dalla cerimonia della campanella con Giorgia Meloni, Mario Draghi ha deciso di dosare la sua presenza. Il banchiere centrale si è limitato a pochi e selezionati interventi pubblici, come per esempio quello al National Bureau of Economic Research, un’organizzazione no-profit statunitense di ricerca in campo economico-finanziario, o ancor prima la presentazione del libro del vignettista del «Corriere della Sera» Giannelli. L’abbiamo visto ai funerali di Papa Ratzinger, di Berlusconi e della moglie di Romano Prodi. E poi uno scatto rubato all’aeroporto di Fiumicino e qualche indiscrezione sul suo ritorno alla vita di sempre a Città della Pieve, l’amato buen ritiro in campagna, dove l’ex premier si divide tra letture, pranzi in famiglia e lunghe passeggiate. Il potere non l’ha cambiato: Draghi, come accaduto quando ha concluso la sua avventura alla Bce, ha fatto perdere le tracce di sé, avendo capito, a differenza dei nostri politicanti, che anche il silenzio è comunicazione. Una strategia dirompente la sua: quando si viene a sapere di un suo intervento, come quello di ieri sull’«Economist», non si può far a meno di correre a leggere, persuasi all’idea che “Se Draghi ha scelto di parlare, è perché ha qualcosa di importante da dire”. E le attese nemmeno stavolta sono state deluse: l’Europa è fuori strada e nemmeno la riforma proposta dalla Commissione Europea per un nuovo Patto di Stabilità, ammesso che venga approvata dagli Stati membri, servirà a molto.

L’ex premier in un magnifico intervento sul magazine di riferimento per le élites di governo occidentali ha spiegato a chiare lettere che l’Europa ha bisogno di «nuove regole e una maggiore condivisione della sovranità», anche perché il pensiero di «scivolare passivamente nelle vecchie regole fiscali sarebbe il peggior risultato possibile». Le iniziative sospese durante la pandemia a fronte delle nuove urgenze sarebbero infatti inadeguate. Draghi sul «The Economist» rimarca che «l’Europa deve ora affrontare una serie di sfide sovranazionali che richiederanno ingenti investimenti in tempi brevi, tra cui la difesa, la transizione verde e la digitalizzazione».

Per lui allo stato attuale «l’Europa non dispone di una strategia federale per finanziarli, né le politiche nazionali possono assumerne il ruolo, poiché le norme europee in materia di bilancio e aiuti di Stato limitano la capacità dei Paesi di agire in modo indipendente». Bisogna correre ai ripari, il rischio è che l’Europa, infatti, non raggiunga i suoi «obiettivi climatici, non riesca a garantire la sicurezza richiesta dai suoi cittadini e perda la sua base industriale a vantaggio di regioni che si impongono meno vincoli. Per questo motivo, tornare passivamente alle vecchie regole fiscali, sospese durante la pandemia, sarebbe il peggior risultato possibile». Il parallelo con l’America inevitabile: Draghi giudica l’amministrazione Biden più adeguata rispetto ai tempi che corrono, proprio perché Washington ha saputo allineare «la spesa federale, le modifiche normative e gli incentivi fiscali nel perseguimento degli obiettivi nazionali».

Senza giri di parole, Draghi ha fatto capire che ad oggi l’Ue non ha la forza né le armi per portare a compimento quel lungo processo di trasformazione industriale verso la sostenibilità ambientale la digitalizzazione e il rafforzamento della Difesa comune. Lo ripetiamo, occorrono «ingenti investimenti in un breve periodo di tempo», ma per come stanno le cose ora, manca una strategia federale per finanziarli e le politiche nazionali non possono supplire a tale mancanza, considerati i vincoli fiscali e gli aiuti di Stato. Draghi però ha una «ricetta», non ha dubbi: per l’Ue sarà necessario rimettere mano ai Trattati: non dobbiamo aver paura di correre il rischio, non è utopico con le elezioni europee alle porte. Per l’ex premier «le alternative sono altrettanto irrealistiche: quelle strategie che hanno assicurato la prosperità e la sicurezza dell’Europa nel passato – l’affidarsi all’America per la sicurezza, alla Cina per le esportazioni e alla Russia per l’energia – sono diventate insufficienti, incerte o inaccettabili. In questo nuovo mondo, la paralisi è chiaramente insostenibile per i cittadini, e l’opzione radicale dell’Ue ha dato risultati decisamente incerti. Dar forma a un’Unione più stretta si dimostrerà alla fine l’unica via per assicurare ai cittadini europei la sicurezza e la prosperità che desiderano». 

Un nuovo «whatever it takes»? Chi sogna un’Europa forte, agile e competitiva vorrebbe vedere in quest’articolato intervento di Mario Draghi una sua nuova discesa in campo, considerando il rinnovo delle più alte cariche dell’Ue tra qualche mese. Ma è ancora troppo presto per dirlo: vero è che non è la prima volta che l’ex premier rilancia l’idea di una sovranità condivisa. Un progetto ambizioso, audace, reso ancora più complicato oggi dall’ascesa dei partiti sovranisti alle ultime elezioni. Lo sappiamo però, Draghi ci ha abituati: lui ha un debole per le sfide impossibili e chissà che non decida di (ri)mettersi in gioco per il bene comune (e per il proprio prestigio personale).