Cervelli in fuga, la Treccani recita: “Fenomeno di emigrazione (brain drain) di personale tecnico-scientifico, ad alta qualificazione professionale, verso Paesi in cui vigono migliori condizioni di lavoro e maggiori remunerazioni”. Con l’espressione “cervelli in fuga” si definisce un fenomeno migratorio che porta personale qualificato ad emigrare verso altri paesi, che possano, almeno in linea teorica, garantire un futuro migliore. In pratica non c’è nulla di diverso da un qualunque altro fenomeno migratorio, in cui le persone si spostano verso altri paesi che possano garantire un miglioramento. Un fenomeno che si propaga dalla notte dei tempi e che, anche se ci dimentichiamo, ha sempre coinvolto sia l’Italia che altre grandi nazioni come Germania, Francia, Giappone. Quindi dov’è il problema? Come in tutti i fenomeni che possano ricondursi ad equilibri dinamici, il vero problema è il “saldo”, cioè la differenza tra uscite ed entrate, che: nel peggiore dei casi dovrebbe essere vicino allo 0 (esce tanta gente quanta ne entra), nel migliore dei casi dovrebbe essere positivo (entra più gente di quella che esce), ma che in Italia è negativo, soprattutto se si guarda a livello di competenze: ad ogni “cervello in fuga” non corrisponde nessun “cervello di rientro”. Questo è il vero dramma, non la fuga dei cervelli, ma il fatto che non ci siano cervelli in ingresso, né italiani né tanto meno stranieri!
Entrando più nello specifico ci sono sicuramente due punti da chiarire: il primo è che ormai in Italia si parla di cervelli in fuga riferendosi a una categoria generazionale (persone tra i 20 e i 40 circa), invece di categorie sociali (persone con istruzione/competenze elevate), cosa abbastanza stupida in quanto è normale che persone più giovani sono più “ben disposte” ad emigrare rispetto a persone anziane. Se si definisse la fuga dei cervelli come fenomeno generazionale, comunque, la situazione sarebbe ancora più drammatica: un paese che perde una generazione e non riesce a rimpiazzarla con altrettante persone in entrata è destinato a soccombere. Siccome però non ho dati effettivi su questo fenomeno che rientra in discorso di emigrazione/immigrazione molto più ampio, in questo articolo farò riferimento al fenomeno dei “cervelli in fuga” come l’uscita dal territorio nazionale di figure ad alta professionalità (ingegneri, scienziati, medici, economisti).
Per queste persone, però il fenomeno emigratorio deve essere analizzato cambiano il punto di partenza: l’emigrazione non si è legata esclusivamente ad un miglioramento della qualità della vita, ma, al desiderio/necessità di “mettersi in gioco” al di fuori della propria comfort zone per poter migliorare e/o aumentare le proprie conoscenze e capacità. Che questo avvenga emigrando in paesi che ne migliorano la qualità della vita è esclusivamente la conseguenza di scelte politiche effettuate da quei paesi. Non è comunque scontato che il miglioramento avvenga in quanto il migrante, comunque, si troverà, almeno all’inizio, a scontrarsi con una cultura che non è sua (shock culturale). Se è chiaro questo punto, cioè che si emigra per migliorare le proprie capacità prima che per migliorare il proprio status, dovrebbe essere conseguente l’idea che una volta acquisite le nuove competenze l’emigrato possa o voglia rientrare per trasmettere queste nuove conoscenze alla propria nazione d’origine in un processo meritocratico che lo premi. Questo è stato, ed è ancora oggi, la chiave di volta che ha permesso a grandi potenze industriali, quali Germania e Giappone (che ancora hanno un’emigrazione di personale qualificato più alta dell’Italia), di progredire tecnologicamente e diventare leader mondiale, ma è anche la strada che hanno intrapreso vari “paesi emergenti” come Cina, India.
In quest’ottica risulta chiaro quindi che il vero problema non è la fuga dei cervelli, ma il fatto che questi non rientrino, trovando nel paese adottivo situazione sociali/economiche che permettano all’individuo di superare anche i momenti avversi che si trova a vivere. Concludendo, la fuga dei cervelli è un problema, ed è un problema complesso, soprattutto perché lo guardiamo dal lato sbagliato. È un non problema invece se riusciamo a cambiare visione, in quanto il vero problema è la scarsissima capacità dell’Italia di attratte giovani professionisti, menti brillanti che possano svilupparsi nel nostro paese. Se capiamo questo allora dobbiamo impegnarci a cambiare le politiche di attrazione e non provare a bloccare un fenomeno che non può e non deve essere bloccato. È proprio su questo nuovo concetto che qualunque forza politica che sappia guardare al futuro e che ci tenga realmente al paese dovrebbe concentrare i propri sforzi.