Il problema è la produttività aziendale, non il salario minimo

Sono sempre più convinto che la questione del salario minimo non sia altro che una “bandierina” buona al massimo per “lavarsi”, con un buon strato di ipocrisia, la propria coscienza.

Il CNEL, uno dei tanti enti inutili dell’Italia statalista, burocratica e corporativa, per l’occasione rispolverato, è stato chiamato in causa con il dire “almeno fanno qualcosa”. Oggi non si può criticare se ha espresso un parere contrario.

In un Paese in cui quasi tutti i lavoratori dipendenti sono inquadrati secondo contratti collettivi nazionali, che già comprendono i minimi salariali, il salario minimo ci fa poco e nulla. Poi ci sono quelli estranei a quei contratti, ma qui la faccenda si fa numericamente ristretta, considerato che molti fra loro guadagnano ben più dell’ipotetico minimo.

Rimane il problema dei bassi salari, ma questo riguarda la produttività che da lustri e lustri è pressoché zero, e quindi più che di salario minimo bisognerebbe parlare di produttività aziendale, ma qui il silenzio è assordante.

La retorica chiama in causa il lavoro nero, per sua natura in evasione fiscale e contributiva, ma questa non è faccenda che possa essere affrontata con il salario minimo; anzi, essendo un Paese con differenti tenori di vita territoriali, c’è il forte rischio che in realtà, con un più basso tenore di vita, vada ad incrementarlo essendo una misura rigida e uguale per tutta Italia.

Piuttosto occorrerebbe spostare risorse dalla spesa inutile, ma renditizia dal punto di vista del consenso, e usare la leva fiscale per agevolare l’emersione, ma anche qui tutto tace.

La retorica chiama in causa anche la povertà. Anche qui il salario minimo c’entra poco e nulla. La povertà si combatte con la crescita, favorendo gli investimenti, sburocratizzando le procedure, riformando la giustizia civile per dare sentenze certe e rapide ai contenziosi, abolendo gli inutili centri per l’impiego e facendo sviluppare le agenzie private. Non è tollerabile che un Paese abbia quasi un milione e mezzo di posti di lavoro non coperti per mancanza di una rete informativa che metta in comunicazione domanda e offerta, più che a causa di bassi salari, con la concorrenza abbattendo i monopoli ma soprattutto attraverso una scuola meritocratica e selettiva sia per gli studenti, sia per il corpo insegnante, sia per le dirigenze. Una scuola che riesca a stimolare nei giovani l’autosufficienza, l’autostima, la creatività.

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Ma ci sono anche contratti collettivi con un minimo molto basso, e qui interviene l’articolo 39 della Costituzione, il quale stabilisce che quei contratti sono validi se stipulati da sindacati registrati. Leggiamolo (i numeri si riferiscono ai commi): 1. L’organizzazione sindacale è libera. 2. Ai sindacati non può essere imposto altro obbligo se non la loro registrazione presso uffici locali o centrali, secondo le norme di legge. 3. È condizione per la registrazione che gli statuti dei sindacati sanciscano un ordinamento interno a base democratica. 4. I sindacati registrati hanno personalità giuridica. Possono, rappresentati unitariamente in proporzione ai loro iscritti, stipulare contratti collettivi di lavoro con efficacia obbligatoria per tutti gli appartenenti alle categorie alle quali il contratto si riferisce>>.

Tale articolo non è mai stato applicato, non è mai stato stabilito cosa sia uno statuto a base democratica, sicché ha preso corpo solo il primo comma. Con il che tutto resta per aria proprio perché la Costituzione è rimasta lettera morta. È singolare che non lo si faccia osservare e che a reclamare la legge siano i sindacati che stipulano i contratti.

Il ragionamento ci porta a una conclusione contestualmente logica ma infinitamente lontana: il salario minimo sta a una visione di società fondata su crescita, merito e opportunità come una goccia nel mare.