C’è una straordinaria rivoluzione in corso nel mondo del lavoro. Rivoluzione di cui la politica per prima non ha ancora colto la reale portata. È l’affermazione dello smart working e dei nuovi modelli di lavoro ibrido, incredibile ondata della great resignation che nessuno vede – o finge di non vedere – ma per la quale basterebbe leggere i numeri forniti dall’ INPS: in un hanno un milione e centotrentatremila persone hanno lasciato il lavoro.
I nuovi equilibri tra occupazione e vita privata sono ormai un elemento trasversale tra generazioni.
Le grandi e medie aziende stanno perseguendo nuove strategie di engagement e valorizzazione dei dipendenti nel segno della sostenibilità. Tutto questo sta definitivamente mandando in soffitta il modello fordista, ridisegnando le modalità di lavoro e il valore stesso dell’occupazione. Sullo sfondo infine la possibilità di realizzare un’economia della partecipazione, che offra ai lavoratori la possibilità di un coinvolgimento molto più profondo rispetto ai destini della propria azienda. Fenomeni diversi ma con un punto in comune: la liberalizzazione del lavoro dai vincoli, dalle barriere, dai pesi economici e sociali che lo hanno caratterizzato fino ad oggi.
Nessun sogno ad occhi aperti. È il nuovo trend che nel giro di pochi anni sarà sempre più visibile, e con esso una nuova coscienza del lavoro che si sta formando a partire dalle nuove generazioni. La fine del sogno dei nostalgici del ‘900. Quelli che desiderano il ritorno del posto fisso per la vita, delle antiche garanzie assistenzialiste dello Stato, delle gabbie dell’egualitarismo che diventano culle su cui adagiarsi.
Lo stesso salario minimo definito per legge è sempre più una cosa “minima”, sempre più impercettibile rispetto a ciò che è già tra noi, dentro le nostre vite. Lo stesso richiamo della Costituzione di quella società fondata sul lavoro – al di là che è scomparso il contesto geo-politico da cui scaturì quel principio – è sempre più un richiamo perso nella notte dei tempi, insignificante.
Se la Costituzione è la carta fondamentale che costituisce l’identità di un popolo, di una nazione, essa, nell’era che si sta aprendo del lavoro libero senza vincoli e barriere, deve affermare il principio, inamovibilmente liberale, che ogni individuo ha il diritto e il dovere verso se stesso di ricercare la propria realizzazione e in definitiva la propria felicità in una società fondata sul merito, sulle opportunità. Lavoro e società, nella loro stretta interazione, in conseguenza di un’evoluzione tecnologica ineluttabile, cambieranno il prossimo futuro come stanno già cominciando a cambiare il presente.
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Essere liberali significa garantire, per quanto è possibile, l’aiuto alla crescita della felicità delle persone.
In questo senso la risposta liberale deve farsi carico della creazione ed il rafforzamento dei supporti sociali che aiutano a superare economicamente e socialmente i momenti di transizione attraverso la riqualificazione dei lavoratori. Come liberali non è concepibile abbandonare lavoratori superati dai tempi e dalle tecnologie. Questo a maggior ragione per una Buona Destra, una destra liberale che ha il compito di affermare la libertà in ogni sua forma, in primis la libertà economica che dovrebbe essere il sogno di ogni industriale onesto.
È questo che ci distingue dalla destra sociale, che è proprio quella che attua misure stataliste, e cioè opposte alla libertà: elargisce sussidi, si intromette nella vita privata, impone un’ideologia, si oppone al progresso e lo fa tramite leggi che regolamentano la vita privata ed economica dei cittadini, oltre che il lavoro delle imprese.
La destra sociale non è una destra attenta al popolo: è una sinistra populista che compra voti attraverso la spesa pubblica. Questo non è aiutare “le famiglie meno ricche”, ma è comprarle assoggettandone l’esistenza alle decisioni di spesa pubblica. Un governo di destra liberale non dovrebbe accontentare nessuno: dovrebbe rimuovere gli ostacoli, garantire la sicurezza e il rispetto dei contratti, e lasciare libere le persone di muoversi, lavorare, risparmiare, e procreare.
Chi crede che l’unica destra possibile sia quella che oggi è al governo immagina una destra statalista che opera tramite l’interventismo statale: una roba da capitalismo clientelare che è l’esatto opposto del liberalismo.
Se è questo che ci distingue da questa destra populista sovranista, che rappresenta il nostro DNA, a maggior ragione dobbiamo iniziare a ragionare su come si sta dentro Azione, il messaggio culturale che vogliamo imprimere al suo interno, cosa vuol dire darsi l’obbiettivo di rappresentare un’area culturale liberale.
Troppo spesso si traduce il tutto ad un appiattimento acritico rispetto alle posizioni del partito e principalmente al Calenda pensiero. A sempre meno senso politico vincolare la propria esistenza alla analoga esistenza della destra sociale, parte attiva insieme alla sinistra della degenerazione bipopulista del Paese.