È vero che nessuno è insostituibile, che “morto un papa se ne fa un altro”, ma ad ogni frase di ieri del presidente del consiglio Mario Draghi al Meeting di Rimini non si poteva fare a meno di pensare a quel proverbio francese che dice «les meilleures choses ont une fin» (“le cose belle durano poco”). Mentre l’ex numero uno della Bce pronunciava concetti come «L’Italia è un grande paese che ha tutto quel che serve per affrontare le difficoltà», «Protezionismo e isolazionismo non coincidono con il nostro interesse nazionale» o «Tocca ai governi rassicurare i cittadini, con sfide concrete», saltava all’occhio ancora una volta l’enorme divario che separa Draghi da tutti gli altri personaggi che mirano a prendere il suo posto convinti presuntuosamente di poter far meglio e senza di lui. Come scrive Davide Giacalone nel suo editoriale uscito oggi su «La Ragione» «colpisce la sproporzione. Non si tratta di mettere a confronto le personalità o le biografie, ma le parole e la visione del futuro, gli interessi italiani e il modo in cui, nel presente, si difendono». Il premier non si è limitato a fare un bilancio dell’azione del governo che ancora presiede, ma «ha disegnato un progetto, ha esposto un programma; (…) una visione che ha messo in luce la sproporzione con ciascuno e con l’insieme che su quello stesso palco si era esibito». Per la serie mandarlo a casa alla fine è stato facile, rimpiazzarlo forse pure, ma farlo dimenticare impossibile.
Quando con ottimismo Draghi ha esclamato «l’Italia ce la farà anche questa volta», non l’ha detto per dimostrarsi cortese nei confronti degli altri leader politici – non si può proprio pensare che Draghi abbia voluto disegnare un mini arcobaleno come hanno fatto i bambini in piena pandemia per rassicurare gli adulti che sarebbe andato tutto bene – ma perché convinto che la sua eredità sarà raccolta da qualcuno. E non perché lo dice, ma perché lo pretendono gli Italiani. Draghi sa di aver lavorato bene e, checché ne dicano i soliti leoni da tastiera, ha un folto seguito. Tra i giovani che ieri erano a Rimini per un selfie e un saluto non c’erano «i soliti lecchini» di turno, ma persone comuni che ne riconoscevano la competenza, la lungimiranza e l’autorevolezza. Quell’eredità che Calenda e Renzi, insieme, si sono impegnati a difendere con le unghie. Draghi non improvvisa, quando parla a braccio lo si riconosce perché lo tradisce l’emozione (non è un oratore in senso stretto). È un uomo abituato a non affidarsi al caso, a curare tutto nei particolari. Il segreto suo forse è stato uno in questi mesi di governo: non gli è mai importato di piacere e così si è potuto godere il lusso di dire quello che pensava. Ma soprattutto ha agito, valutando i rischi di volta in volta, assumendosi la responsabilità delle proprie scelte, anche quando impopolari. Un pragmatismo (ai limiti dello snobismo per alcuni) reso necessario dai fatti: ad oggi il Paese risulta ancora sbranato da più cani: la pandemia, la crisi energetica e l’inflazione. Fiere che evidentemente non spaventano gli incoscienti che hanno fatto cadere l’esecutivo presieduto dall’italiano che l’estero ci invidia. Ed è al metodo Draghi che guarda il Terzo Polo, che Calenda e Renzi hanno voluto edificare, anche a costo di passare per i soliti ‘antipatici’ di turno.
“L’agenda Draghi non è un sogno, come diceva quello, è una solida realtà. Perché è davvero solida. Di certo molti del centrodestra, non nelle interviste ovviamente, dicono di essere assolutamente convinti che dopo le elezioni Draghi sia la persona migliore per continuare a guidare il Paese. Per ora lo dicono sottovoce”, ha detto a «Repubblica» il leader di Azione, che spera in una maggioranza tenendo «fuori Fratelli d’Italia e M5S». Per lui un’agenda Draghi c’è ed è completare il Pnrr. Più chiaro di così. Perché Calenda ha capito che il premier ha gettato un seme. E sta ai “responsabili” farlo germogliare. Draghi ha parlato a Rimini, ma è come se avesse mandato per tutto il tempo messaggi pure a Bruxelles, dove si recherà il 20 ottobre per trattare il tetto al prezzo del gas. Le sue parole sono riecheggiate fino a Washington: il 19-21 settembre, quattro giorni prima delle elezioni l’economista volerà a New York. E sarà senz’altro un altro viaggio importante per la reputazione del nostro Paese, che deve evitare di diventare il ventre molle dell’Europa, come vorrebbe lo zar Vladimir Putin.
Potremmo dire che a Rimini il premier ha tracciato la rotta – e l’ovazione che gli è stata riservata fa capire che agli Italiani non dispiace affatto – ma anche di più, magari lo si può intendere come il programma per un Draghi bis. Dopo le votazioni chi non vuole seguirla (e sarà libero di farlo) dovrà caricarsi sulle spalle il peso di guastare i traguardi raggiunti. Perché la credibilità non solo è difficile da ottenere, ma è sfida perenne preservarla. Non si può nel 2022 essere sovranisti, filoputiniani, abbandonarsi a quelle spinte autarchiche di chi voleva uscire dall’euro. Proprio perché «l’Italia non è mai stata forte quando voleva fare da sola», ha detto Draghi. «Non ci si può dire europei se non si difende l’Ucraina», ha rimarcato sempre il premier. E le parole che dicono la verità hanno un altro suono, non trovate? «Guidare l’Italia è un onore per cui sono grato al presidente Mattarella, alle forze politiche, agli italiani che mi hanno guidato con affetto. Mi auguro che chiunque avrà il privilegio di guidare il paese sarà ispirato da spirito repubblicano», ha affermato poi il presidente del consiglio. Sì, ma il privilegio è stato tutto nostro, che non eravamo abituati più ad un livello così alto. E ora i leader di partito sono avvisati. È una bella sfida. Proprio perché c’è una buona parte di Italia convintamente europeista, atlantista e democratica che non intende accontentarsi. Non vuole slogan, non si lascia sedurre da promesse in partenza già difficili da mantenere. Insomma, per prendere in prestito le parole de «Il Gattopardo», tra i romanzi che Draghi ama di più, gli elettori non si sentiranno soddisfatti di bere dell’acqua dopo aver gustato del Marsala.