Sinceramente sono stanca di essere educata, quindi ve lo dico in francese, mi avete rotto con queste cose del tipo – ah ma fa i video su TikTok con delle canzoni oscene, è normale che poi le succede questo – oppure – ma certo per come si veste -. Me ne dovrei fregare, ma non lo dico per me, più che altro se andate a scrivere cose del genere a ragazze a cui succedono cose come me, e fanno post come me, potrebbero ammazzarsi. Sapete che significa suicidio? Già sapevo che qualcun altro avrebbe fatto lo scaltro… ma io rimango me stessa e manco se mi pagate cambio, perciò chiudetevi la boccuccia… piuttosto che giudicare una ragazza stuprata”.
Quanta rabbia, quanto dolore, quanta sofferenza emotiva e psicologica per un abominio comportamentale che non dovrebbe esistere, essere, e che paradossalmente ha bisogno di essere “discusso” pubblicamente sui social, perché nel virtuale (possiamo ancora definirlo tale?) c’è spazio anche per discutere di questo, di quanto possa essere “giustificato”, “normale” o “vanto” agli occhi altrui una situazione di tale drammaticità.
Ed è proprio nel pubblico ludibrio che la demagogia ed il populismo prende spazio e forma, assumendo vesti giustizialiste, arrabbiate senza dubbio, ma comunque spinte da pensieri punitivi, che richiamano l’assenza di certi spazi di “diritto”. Ma il problema possiamo focalizzarlo su questo? Esiste un problema di diritto? O meglio è davvero l’asset più importante di questa “discussione”? Bene, per chi conosce dal di dentro le logiche e gli spazi di funzionamento degli applicativi delle leggi di stato, bene si sa del fatto che servano riforme serie, importanti, che mettano in “sicurezza” la percezione del cittadino che non avverte tutela da parte dello stato, e di fondo ne ha davvero poca. Ma vogliamo essere più incisivi in questa riflessione, perché l’aspetto di prevenzione, parola abusata e taciuta al contempo, passa da logiche diverse, ed ovviamente sarebbe invece la più seminale, qualora ci fosse davvero una possibilità in tal senso. Serve visione, e serve che la politica ne abbia, per costruire nel tempo una possibilità di fenotipo diverso rispetto a storie come questa.
Bisogna partire innanzitutto da un presupposto ontologico: assurdo pensare in maniera pregiudizievole che la società sia malata di social, non lo è, la società moderna vive nei social, quel che si muove nello spazio virtuale oggi ha più importanza del reale, e ad oggi, salvo inverosimili episodi “glaciazione” come ai tempi dei dinosauri, il ciclo della storia non appare orientato ad un’interruzione di questo flusso. I ragazzi nascono in uno spazio del genere, per cui il baricentro tra pensiero, azione, senso e morale è completamente condizionato dall’idea di partenza (virtuale/reale): il “peso” di un’azione oggi è del tutto equivalente a quello di una parola su Facebook, e se ci fate caso, il livello di percezione “emotiva” appare sostanzialmente sovrapponibile ai loro occhi, agli occhi delle Generazioni Z o dei Millenials.
Non è dunque un problema di capacità educativa, ne di “ineducazione”, bensì oggi questi sono i prodotti di un funzionamento sociale che si è spostato diametralmente a logiche individualistiche, di soddisfazione di bisogni personali indotti, che muove corde orientate all’idea del benessere analgesico, senza sforzi, senza sofferenze.
Poveri genitori, ad oggi in difficoltà estrema nel riuscire a trovare uno spazio riconosciuto di centralità, surclassati dall’assenza di verticalità nelle relazioni che non consente loro di farli, i genitori (non è forse così anche per gli insegnanti? Bauman docet), e pertanto raccontarsi di genitori incapaci di educare, di figli che non sanno avere “rispetto” degli altri e dello stato, vuol dire rimanere appiattiti su sguardi che in realtà i tecnici sanno bene che sono frutto di logiche sociali, e politiche. Eh si, perché la politica ha delle grandi responsabilità a riguardo, ed è proprio la politica ad avere la chiave di volta del fenotipo che ci troveremo tra 10-15 anni (e che pertanto ci troviamo ora figlia delle non letture di un paio di generazioni orsono), e che il pensiero psicoanalitico può aiutare a “vedere” nelle forme primordiali di rappresentazione.
Si è costruita una dimensione capitalista che impera all’idea che si goda, motivo per cui più il godimento è in qualche modo escluso e sottratto, più incontrovertibile è la necessità ed il comando a godere della merce, ed altrettanto pertanto se questo godimento è coatto o parziale, produce mancanza a “godere”. Ecco perché il pensiero capitalista si dimostra vincente e perdente nello stesso tempo: produce una sorta di continuo godimento interrotto, nello stesso momento in cui, eccitando di continuo il desiderio, fa credere che le persone possano illusoriamente colmare la mancanza ad essere attraverso il consumo coatto di cose.
Ed ecco che, se la base di costrutto della dimensione sociale viene spinta da aziende e sistemi che distillano funzionamenti di bisogni additivi per costruire economia ai danni e sulle spalle di inconsapevoli “consumers”, allo stesso modo ciò che ognuno di noi oggi è agli occhi dell’altro (merce-oggetto) è la base epistemologica sulla quale si può ritenere così distante pensare che questo episodio drammatico di Palermo ne sia una fattispecie del tutto sovrapponibile? Se siamo indotti a consumare, non siamo forse orientati a consumare l’altro? E se il virtuale ed il reale appaiono oggi dimensioni quanto meno equipollenti, con valori sovrapponibili, sarà la base “assurda” sulla quale la mancanza di senso morale ha consentito un agito del genere?
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Ecco perché questa storia ci racconta di necessità importanti di questa società… è un problema di spazi e tempi che non esistono per educare, e la politica ha grandi responsabilità nel non consentire alla vita media di una famiglia di avere dei genitori che possano farli (i genitori) riuscendo a vivere economicamente con normalità.
In psicoanalisi parliamo di attaccamento e mentalizzazione (Bowlby e Fonagy) e noi sappiamo bene che serve un “tempo” per l’attaccamento… chi ha tempo per i suoi figli? Questa società lo concede? Perché senza tempo, senza il tempo di poter stare accanto ai propri figli, a rassicurali, accoglierli, non esiste “attaccamento” e non c’è spazio educativo.
Serve che la politica consenta alle famiglie di potersi ritrovare a casa, di avere spazio economico per non spingere entrambi i genitori a “dover lavorare” senza potersi consentire di “respirare” i propri figli. Oggi la società vive di continue deleghe educative, alle scuole, agli spazi di interesse sportivo e musicale, proprio perché questa diventa una necessità per “collocare” i propri figli mentre si lavora. Costruire orari e tempi di lavoro sostenibili per le famiglie? Permettere con stipendi che sbarchino il lunario di non aver altre necessità poi che stare con i propri figli a casa?
Il Sud e le periferie su questo fanno fatiche da tempo, e hanno bisogni strutturali da tempo.
E lo stesso spazio fisico di comunanza, di relazione e di incontro tra i ragazzi, appare un’esigenza che oggi nessuno più rappresenta: senza luoghi idonei, spazi di confronto alla pari “puliti”, piazze e cortili dove incontrarsi, sarà poi il branco a “prendersi i ragazzi” che differentemente si ritroverebbero soli a casa visto che entrambi i genitori (o il solo genitore, perché ricordiamoci quante famiglie monogenitoriali esistano oggi) non ci sono per necessità di lavoro?
Ecco che allora la politica ha più risposte di quante in realtà si pensa ne debbano avere educatori, psichiatri e analisti…o forse, su queste linee di lettura, dovrebbero poter dialogare per individuare un percorso di prevenzione che porti ad incidere alla base di queste evidenze sociali.
La Buona Destra intende affrontare in questo modo questi processi, e si staglia lontano da ogni demagogia banale, richiamando le altre forze politiche ad un contraddittorio che possa partire dal logos, e grazie a logos possa trovare istanze nuove e voglia di cambiamento che parta da una vision e che non si releghi come in politica da decenni si compie, a correttivi temporanei.