I giovani cinesi protestano, scappano dal regime e non dimenticano Tienanmen

Così come i giovani russi nati dopo gli anni Duemila rinnegano la Zeta, ormai emblema della barbara invasione di Putin ai danni dell’Ucraina, anche le nuove generazioni cinesi cercano vie di fuga. In senso letterale. E quanto accaduto domenica notte alla Peking University (Beida, come la chiamano i cinesi) lo dimostra in maniera lampante e sorprendente, persino: gli studenti dell’Ateneo, quello in cui studiano i figli dell’élite si sono ribellati. Sì, proprio così: in più di duecento domenica notte si sono radunati davanti al dormitorio di uno dei campus per protestare contro le misure anti-Covid che costringono gli studenti a stare segregati dentro l’università.

L’Ateneo aveva eretto un muro per isolarli ancora di più e, loro, alla fine lo hanno buttato giù, mentre il direttore con un megafono cercava di calmarli. Un episodio di grande valenza simbolica, perché la Peking è da sempre luogo sensibile nella vita culturale e politica della capitale: proprio da qui sono partite le proteste del 1989 che portarono a Tienanmen. Fra tre settimane, tra l’altro, ricorre l’anniversario di quella strage che il Governo chiama “incidente”. Ma il patto non scritto Partito-popolazione scricchiola e si evince anche dal posto anonimo di uno dei ragazzi della Peking, che recita: “Oggi abbiamo visto la tradizione della protesta studentesca risorger dalla sue ceneri”.

L’aria, insomma, è pesante e a confermarlo intervengono i numeri dei cinesi che pensano di scappare riportati da Repubblica oggi. “Dove conviene andare all’estero?”: +2455%. “Qual è il Paese migliore per emigrare?”: +1294%. Tra fine marzo e metà aprile la curva delle ricerche online relative all’argomento “emigrazione” ha fatto un balzo vertiginoso.
Il 3 aprile il Partito annuncia che “bisogna attenersi rigorosamente alla politica zero-Covid”. Quel giorno su WeChat le discussioni sul tema aumentano del 440%: 50 milioni di ricerche e condivisioni, un utente su 20. Due settimane dopo sono 72 milioni. Per sfuggire all’occhio lungo della censura, su Weibo si contano quasi 80mila post con un carattere che significa “umido”, ma traslitterato si scrive “rùn”, correre. Con le ricerche che aumentano, l’argomento per il Partito è diventato sensibile. Gli strumenti di analisi gestiti dai colossi dell’Internet mandarino non sono più disponibili da metà aprile; ma la sensazione è che il fermento studentesco, e non solo studentesco, stavolta difficilmente potrà essere silenziato.

E’ sempre Repubblica, oggi, a raccontare le testimonianze di cinesi pronti a fuggire.

Ailin ha 30 anni e vive a Shanghai. Sta provando a trasferirsi a Singapore, dove la sua azienda ha una sede. «Avevo pensato di andarmene già alla fine dell’anno scorso, ma non mi ero data tempistiche precise. Poi però ho preso il Covid e ho vissuto la situazione di Shanghai in prima persona: il modo in cui il Paese gestisce la pandemia e tratta la gente ha fatto crescere la voglia di andar via. Non voglio vivere in un Paese in cui vengo portata a forza in una struttura solo perché sono malata. Mancano le libertà di base. Non mi sento al sicuro qui», racconta. Non è la sola. «Molti amici ci stanno pensando. Però andarsene non è un’opzione per tutti. Alcuni hanno bambini. Il governo sta iniziando a limitare gli spostamenti: e se in futuro decidesse di chiudere completamente la porta? Dobbiamo andarcene».

Per chi pensa di partire l’ostacolo maggiore è però il passaporto. Dall’inizio della pandemia a molti cinesi non è stato mai rinnovato. Il rilascio è limitato molto spesso solo per motivi di studio o lavoro. E il governo ha appena ribadito che le uscite “non essenziali” verranno “limitate in modo rigoroso”, per evitare che le persone, di ritorno, portino il virus a casa. «Non sono più solo gli stranieri, ma gli stessi cinesi che non accettano quarantene e lockdown. Non si riesce più a programmare la vita», racconta un manager italiano da oltre dieci anni a Pechino. «Tra chi vuole andar via c’è anche gente che lavora per le società statali. Ma sono i giovani i più arrabbiati. Erano abituati a essere, tra virgolette, liberi. Andare in America, a Hong Kong o in Australia. Ora non ce la fanno. E non lo accettano ».
Chi se n’è andato «al momento giusto » è Xiaofeng, 56 anni, imprenditore, che con la moglie nell’inverno del 2020 ha lasciato Pechino per Valencia. «Altrimenti come alcuni amici, le cui aziende sono in bancarotta o sull’orlo della chiusura, mi sarei ridotto anche io a prendere antidepressivi già da molto tempo», racconta. «La situazione politica non era buona già da anni. L’ideologia ha sempre la priorità e tutto è al servizio della politica, quindi non è più importante se il controllo della pandemia è conforme alla scienza o meno. Se un giorno le porte del nostro Paese si dovessero chiudere e dovessi scegliere dove stare non avrei dubbi: fuori dalla Cina».