politiche giovanili

Gli incentivi diamoli alle imprese che investono sui giovani e non li fanno scappare

I dati riportati in un recente rapporto del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali sono di quelli da far tremare i polsi e sconvolgere ogni più consolidata credenza e convinzione. In Toscana 136 mila lavoratori (soprattutto giovani fra 20 e a 40 anni ) rinunciano al posto fisso a tempo indeterminato per andare a fare altro, spesso all’estero.

Rispetto al 2020, il 2021, in Toscana si è vista crescere del 22,5% la percentuale di dimissioni volontarie soprattutto tra i giovanissimi fino al punto di essere la prima Regione nel centro-Italia, seguita da Emilia Romagna, Umbria, Marche e, infine, Lazio. Il dato, tuttavia, non è confinato soltanto in questa frazione dello Stivale ma coinvolge un po’ tutto il paese, soprattutto al Nord (si pensi che il record, da questo punto di vista, lo fa segnare il Veneto con il 30% ). Il motivo per il quale ciò avviene dovrebbe essere oggetto di approfondita riflessione e coinvolge in modo prepotente la stessa concezione delle politiche per il lavoro non solo nelle dinamiche contrattualistiche ma finanche sociologiche. Perché da un lato abbiamo imprese che chiudono, un mercato del lavoro ingessato e un tasso di disoccupazione giovanile preoccupante. Dall’altro si registra una costante domanda di lavoro, soprattutto di maestranze qualificate, che rimane sostanzialmente inevasa. Un dato apparentemente contraddittorio che apre lo spazio a scenari non proprio rassicuranti.

Mentre la politica rimane incastrata nel contingente dividendosi su Reddito di Cittadinanza, o sul salario minimo, la visione prospettica di una società che ha smesso di scommettere sui giovani non pare interessare granché alla classe dirigente. Da tempo sosteniamo che uno dei problemi più grandi non è l’immigrazione, ma l’emigrazione di cervelli e di manovalanza verso l’estero dove evidentemente le condizioni di lavoro sono migliori e le opportunità per una crescita personale e professionale funge da stimolo molto più seduttivo rispetto a quanto avviene in Italia. E, purtroppo, i dati emersi dal rapporto ministeriale, confermano la fondatezza delle nostre preoccupazioni.

Come già da queste colonne abbiamo avuto modo di specificare, occorre ripensare in modo radicale al Lavoro, ai rapporti tra le parti sociali e svecchiare un sistema che non può più reggere a lungo. Sicuramente lo shock della pandemia ha colpito il settore privato determinando a catena una serie di problematiche economiche e produttive che hanno riverberato i propri effetti anche sulle dinamiche occupazionali, sugli ammortizzatori sociali e, quindi, sulle opportunità che il sistema-Italia è in grado di offrire alle cosiddette nuove leve. Dall’altro lato non va dimenticato – come ha avuto modo di sottolineare una importante imprenditrice veneta – il mutamento delle esigenze dei giovani i quali non sono abituati all’idea di sacrificarsi per il lavoro, a fare squadra con le aziende in vista di obiettivi comuni.

Inoltre, l’aumento tendenziale del tasso di istruzione delle nuove generazioni fa sorgere legittime aspettative in termini economici e di prospettive di carriera che non sempre il mercato è in grado di assorbire e soddisfare. Il caso, ormai di scuola, del laureato che viene impiegato nel call center a poche centinaia di euro al mese e con turni di lavoro massacranti, ci racconta di un problema effettivo e di una realtà fortemente squilibrata.

Il problema non è certo la voglia e la maggiore occasione di imparare le lingue – come sostiene il Sindcato Toscano CGIL, nella persona del Segretario Regionale Angelini – ma il fatto che l’Italia è un Paese ancora troppo indietro rispetto alla media europea per tasso di sviluppo e crescita, con un sistema ancora imbolsito in antichi privilegi corporativi (forse anche il Sindacato dovrebbe aprire una riflessione interna su ciò) che soffoca ogni legittima aspirazione e aspettativa di chi ha studiato per anni e adesso vorrebbe trarre il frutto dei sacrifici fatti. E, con un sistema produttivo in grave sofferenza, forse sarebbe il caso di predisporre serie e corpose misure di incentivazione alle aziende che decidono di investire sui giovani e non li lasciano scappare all’estero.