Gli artisti russi scappano, quelli ucraini resistono

“Quando organizziamo piccoli concerti per gli sfollati che trascorrono le notti di paura nelle stazioni del metrò, mentre cerchiamo di mantenere accesi i nostri dibattiti letterari sulle chat locali e difendiamo monumenti e biblioteche con sacchetti di sabbia, sappiamo bene che la storia sta con noi, siamo in piena continuità con la tradizione della resistenza ucraina”.

Proprio di fronte alle finestre protette dai sacchetti di sabbia del museo della Letteratura, il poeta 28enne Ivan Senin non ha alcuna esitazione nello spiegare all’inviato del Corriere, Lorenzo Cremonesi, le motivazioni che spingono lui e un pugno di altri letterati (compreso il pluripremiato Serhiy Zhadan), artisti ed attori a restare nella Kharkiv assediata per continuare la lotta: “Noi non siamo soli”.

Alcuni suoi versi scritti un mese fa, proprio quando le truppe russe arrivate dalla frontiera, avevano raggiunto la cerchia urbana e dal vialone Taras Shevchenko (il poeta nazionale che nella seconda metà dell’Ottocento contribuì a modernizzare la lingua ucraina) sparavano sull’immensa spianata di Piazza Libertà, sono oggi tra i più letti sui social cittadini. (Recitano: “Nessuno li ha invitati qui a disturbare rumorosi/ chi se ne fotte di tutte le predizioni/ Coloro che oggi aggrediscono le nostre case/ Non saranno mai perdonati per le loro incursioni”).

E così, mentre moltissimi artisti russi scappano via dalla loro patria o prendono le distanza da Putin e dalla sua “operazione speciale”, in Ucraina restano. Resistono. Con orgoglio.

Una storia che sembra quasi ripetersi, a Kharkiv: proprio di fronte al museo prima citato, insistono infatti alcuni pannelli che riassumono la storia turbolenta e ricca della vita intellettuale della città di frontiera per eccellenza. E sono gli stessi pannelli a ricordare l’avvio delle purghe staliniane, la persecuzione delle stelle letterarie di Kharkiv già alla fine degli anni Venti, sino al grande terrore, quando i piccoli proprietari terrieri ucraini preferivano bruciare i raccolti e generare carestia, piuttosto che consegnarli ai Commissari del Popolo. L’Holodomor (la grande fame) tra il 1932 e il 1933 causò milioni di morti (forse sino a quattro).

Sul muro in cemento grigio della «Casa delle Parole», eretta dal regime comunista nel 1928 per ospitare gli intellettuali e artisti della città, una lapide di marmo ha incisi in lettere scure 121 nomi. “Sono quelli dei nostri ospiti illustri. Peccato che la grande maggioranza sia poi morta nei gulag, oppure siano infine stati graziati con la promessa però di restare in silenzio o persino di lavorare come intellettuali organici del comunismo”, spiega Volodimir Borisenko Mikolaievich, 70 anni, nato a Mosca. La sua lingua natale è il russo, come russi sono i suoi autori preferiti e i suoi punti di riferimento culturali. Suo nonno fu decorato “eroe dell’Urss”. Oggi però, per lui, tutto è cambiato. “Guardo il volto dello zar Putin e ci vedo quello del dittatore Stalin. Mi vergogno delle mie origini”.