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Forlani: “Il PNRR? Più coraggio sul Lavoro e ai giovani servono competenze trasversali”

«Il PNRR? Nella parte inerente alle politiche attive del lavoro è vecchio. Vede, l’approccio non è prendere e investire un po’ di soldi. Si tratta di ben altro: è la capacità degli attori, che a vario titolo concorrono a qualificare il sistema della domanda e offerta, di fare in modo che tutto dialoghi bene nel suo insieme così da produrre investimenti adeguati alle persone. Il ritardo italiano è di tipo valoriale, di soldi negli anni se ne sono buttati a palate». A parlare è Natale Forlani, Segretario confederale della Cisl dal 1991 al 1998, poi amministratore delegato di Italia Lavoro dal 2000 al 2010 e Direttore generale della Direzione dell’Immigrazione presso il Ministero del Lavoro e delle politiche sociali dal 2010 al 2012.

draghi PNRR
D: Il Documento di Economia e finanza (Def) non fa riferimenti ad eventuali correttivi al sistema previdenziale. Siamo tutti consapevoli che, con la crisi energetica, l’inflazione e il conflitto in Ucraina, le priorità nell’agenda del governo Draghi sono cambiate, ma i sindacati insistono perché riprenda il confronto sulla previdenza.
 
R: «Beh, sì. Le necessità oggi di intervento sono un po’ diverse, nel senso che l’unico tema rimasto in chiave pensionistica è capire se in uscita da questa fase e dai provvedimenti presi dalla Legge di Bilancio del 2022 si recupera una flessibilità dell’età pensionabile con delle penalizzazioni per gli anni di anticipo sulle prestazioni. Realisticamente, le dico, è l’unico problema rimasto, finché non si troverà una soluzione nei prossimi mesi».

Natale Forlani
D: Lei ha scritto un articolo dal titolo “I giovani under 35 occupati persi dall’Italia”. Un tema di scottante attualità, che spesso viene liquidato con battute del tipo “I ragazzi oggi non vogliono lavorare”. Penso alle recenti esternazioni di Flavio Briatore e dello chef Borghese, convinti in egual misura che i giovani non vogliano faticare perché preferiscono il reddito di cittadinanza, non vogliono impegnarsi nel week end. Ecco, mi piacerebbe andare oltre l’apparenza e scendere alla sostanza.

R: «Il mercato del lavoro non è lineare, dovremmo imparare a leggerlo come un insieme di fenomeni. Non mi piace per niente il dibattito che liquida problemi seri con battute, anche se diciamo così anche le battute possono nascondere dei pezzi di verità. Che ci sia una disoccupazione ‘volontaria’ in Italia è abbastanza certo: ci sono giovani che vengono mantenuti dai loro genitori. Le famiglie nostrane, una parte dico, sono patrimonializzate: i ragazzi studiano, hanno aspettative più alte e c’è dunque un’indisponibilità a fare lavori che comportano fatica, disagio di diversa natura. Parliamo di circa un milione di giovani. Dopodiché, c’è un sottodimensionamento della domanda di media alta qualificazione legata in Italia a tanti fattori: ad esempio, dal fatto che da circa quindici anni c’è un sostanziale blocco delle assunzioni nel pubblico impiego. Non è un vero e proprio blocco, ma diciamo che il turn over nella pa non è in corso da quindici anni, come le dicevo. Nell’insieme, tutto questo comporta una perdita di opportunità occupazionali soprattutto di giovani laureati, che pesa nel sistema economico italiano rapportato ad altri paesi. Un terzo problema è un disallineamento tra la domanda di lavoro e l’offerta di lavoro, cioè ci sono tantissimi mestieri che non trovano le competenze giuste. Questo incide molto sui giovani, principalmente perché le competenze digitali oggi sono molto richieste. Avviene perché c’è un dislivello tra i percorsi scolastici e quelli lavorativi. È il principale buco delle politiche del lavoro in Italia».

Forlani lavorare in Italia

D: È diverso all’estero?

R: «Negli altri Paesi si investe molto su politiche di inserimento, alternanza scuola-lavoro. Ciò’ spiega perché a parità di popolazione al di sotto dei 35 anni rispetto alla crisi del 2008, da dove parte un po’ tutta la crisi del mondo del lavoro in Italia, abbiamo perso circa un milione e mezzo di posti per i più giovani. Abbiamo circa 3 milioni di persone under 35 che non studiano e non lavorano. Un record negativo. E non è di facile risoluzione il problema: come rimettere in pista ragazzi e ragazze che si sono disabituati completamente ad attivarsi per ricercare il lavoro?».

D: Tra gli obiettivi del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza c’è la riforma delle politiche attive del lavoro.  

R: «Guardi, il Pnrr per la parte inerente alle politiche del lavoro non è all’altezza del problema. Molto blando, affronta le questioni che le elencavo prima con un approccio che negli altri Paesi si usava negli Anni Novanta. È vecchio. La parte del lavoro cela il tentativo di risolvere i problemi con le formule che altre nazioni hanno adottato con successo una trentina d’anni fa. Ci si sta avviando da noi, secondo me, in un percorso che rischia sul serio di disperdere i soldi. Vede non è impossibile spendere sei miliardi, anzi, è facilissimo. Oggi il sistema della domanda e dell’offerta richiede semplicemente questo: un aggiornamento di competenze e sistemi. Perché le organizzazioni del lavoro del futuro si basano su risorse umane. Nei prossimi anni il declino demografico della popolazione in età da lavoro si rifletterà anche in una carenza di offerte di lavoro. Che da un lato potrebbe essere sulla carta l’occasione per risolvere un po’ di problemi in termini quantitativi, ma perché questo accada è necessario che il fabbisogno delle imprese trovi nel mercato le disponibilità e le competenze dovute. E anche la voglia, perché qualsiasi percorso lavorativo richiede sacrifici. Aspetto quest’ultimo fondamentale. Noi potremmo avere la condizione nei prossimi anni di risolvere tutti questi problemi, bisogna però che si recuperino i ritardi che abbiamo ed è necessario mobilitare non i centri per l’impiego ma le istituzioni scolastiche. Intervenire costantemente sulle competenze di chi lavora perché non diventino obsolete».

D: Puntare quindi sull’alternanza scuola-lavoro?

R: «Il modello formativo è cambiato completamente. Le professioni hanno una rapida obsolescenza. Le competenze trasversali, come le lingue o la capacità utilizzare tecnologia, hanno preso una grande rilevanza proprio perché siamo nell’epoca dell’intelligenza artificiale. Diventa dunque importante il modo di interagire: non sono le macchine che finalizzano l’obiettivo, ma le persone. L’approccio tra innovazione tecnologia e organizzazione del lavoro delle persone dovrebbe essere un tema di aggiornamento culturale attivo, che invece viene banalizzato. Nella nostra realtà globalizzata questo prova ancora una volta che noi facciamo fatica a capire i fenomeni e così li liquidiamo. L’immediata reazione psicologica è quella di ridurli e di semplificarli, ma è sbagliato. Psicologicamente è comprensibile, però il modo giusto per affrontare i problemi è sempre l’umiltà. La capacità di costruire dialoghi, di cooperare appunto».