salario minimo

Fatti non slogan: l’Italia è l’unico Paese dove dal 1990 i salari sono scesi

Da un punto di vista economico in Italia si registra una situazione stagnante: i salari non salgono da oltre trent’anni. Colpa della produttività bloccata, ma non solo. Ed è vero: il digitale potrebbe svolgere un ruolo per sbloccare il quadro allarmante. In Europa, l’Italia e la Grecia hanno i livelli più bassi di produttività e al contempo gli orari di lavoro più lunghi e i salari più bassi. Magari bastasse però rifugiarsi in slogan ad effetto come “Aumentiamo i salari”. L’argomento è alquanto insidioso perché è facile cadere nella propaganda. Tanto per cominciare bisognerebbe chiarire le modalità.

Marco Bentivogli l’ha spiegato chiaramente su “La Repubblica”: “Il primo problema è il ricorso alle medie, che mettono insieme territori, dimensioni aziendali, settori, pubblico e privato. La dinamica salariale europea, segnalata dall’Ocse, per cui dal 1990 a oggi siamo l’unico Paese europeo con un segno negativo (-2,90%), certo è una media. Ma in 30 anni, quanto emerge, è inaccettabile. I nodi di più difficile soluzione sono sempre quelli su cui siamo tutti d’accordo (perché la soluzione, poi, è sempre nelle tasche di altri). Chi è contro l’aumento dei salari? Nessuno. A favorire l’impaludamento del dibattito è proprio la confusione tra causa ed effetto, tra mezzi e fini: il reddito di cittadinanza non è certo causa del basso tasso di occupazione ma neanche un antidoto ai bassi salari. Bisogna fare in modo che sia uno strumento efficace contro la povertà e che quest’ultima non sia una condanna a vita”. Nello specifico: “Il salario minimo può avere un effetto sul lavoro povero, quello non coperto dalla contrattazione collettiva (de iure o de facto) e non deve essere in concorrenza con essa. In ogni caso, aumentare i salari e combattere il lavoro povero sono due azioni serie ma non coincidenti”, ha spiegato il sindacalista. Sicuramente, poi, abbiamo un problema di ampiezza del cuneo fiscale, che è dieci punti sopra la media europea.

“La produttività dipende da ciò che avviene dentro le fabbriche o gli uffici, ma anche dal contesto. Se tutto ciò che c’è attorno al lavoro non funziona, prendersela con il fattore lavoro è singolare. In Italia la produttività del lavoro non cresce per il gap tecnologico e di formazione (…). A questo si aggiunge uno dei mercati del lavoro con le più alte diseguaglianze d’Europa. Crescono gli inattivi e i contratti atipici, soprattutto i ‘part-time obbligatori'”, rimarca Bentivogli. “Il primo obiettivo è generare produttività, e su questo favorire crescita delle imprese e dotarsi di un’infrastruttura di generazione e trasferimento tecnologico simile al Fraunhofer tedesco. E poi rivoluzionare i sistemi di inquadramento professionale e di maggiore qualificazione dei lavoratori. In Italia la professionalità non la si valorizza e men che meno la si paga”, le conclusioni del sindacalista, che ha tracciato il ritratto di un paese, che «ripartisce male la ricchezza che genera».