“Falcone e Borsellino consegnati alla mafia, mio padre abbandonato dai colleghi”

Tra pochi giorni ricorrerà il trentennale della strage di Capaci, in cui morirono il giudice Giovanni Falcone, la moglie Francesca Morvillo, e i tre agenti di scorta, Antonio Montinaro, Rocco Di Cillo e Vito Schifani. Iniziava la strategia stragista di Cosa Nostra in quello che sarebbe diventato il biennio di sangue 92-93 che avrebbe messo in ginocchio lo Stato. Infatti, di lì a 56 giorni la furia omicida della mafia avrebbe travolto anche il giudice Paolo Borsellino, collega di Falcone, ucciso da un’autobomba in via D’Amelio il 19 luglio. E poi gli ordigni di Roma, Firenze, Milano.

Fiammetta Borsellino, figlia de magistrato ucciso in via d’Amelio, in un’intervista a Repubblica, torna oggi, alla vigilia del trentennale di Capaci, con rassegnata amarezza su quella stagione e sugli eventi che hanno preceduto l’estate di sangue palermitana, ricordando come vi siano ancora tanti punti oscuri su quel periodo e su quelle stragi. Dai mandanti esterni ai depistaggi di Stato che hanno impedito di andare fino in fondo, fino all’agenda rossa di suo padre, Paolo Borsellino, mai ritrovata.
Ma quello che umilia la ricerca ‘della verità è – secondo Fiammetta – non aver avuto il coraggio di indagare in quel Palazzo dei Veleni che era la Procura di Palermo dell’epoca, dove si annidavano le vipere (citazione di Paolo Borsellino) che avrebbero facilitato e agevolato Cosa Nostra nel compito di eliminare i due magistrati simbolo della lotta alla mafia.

Tanto osannati da morti, quando ostacolati in vita. La storia di Giovanni Falcone e Paolo Borsellino all’interno della Procura di Palermo e, in generale nei rapporti con i colleghi giudici, meriterebbe un libro e Fiammetta questo lo sa bene. Come ebbe a dire Antonino Caponnetto, Giovanni Falcone iniziò a morire nel 1988 quando il CSM gli preferì Antonino Meli nella corsa al vertice dell’Ufficio Istruzione di Palermo. E da lì, la magica stagione della lotta alla mafia, la stagione de “la gente fa il tifo per noi” entrò in grave declino per responsabilità unica e sola dei colleghi di Falcone e Borsellino.

Dal Giuda che votò contro Falcone, in quella plenaria del CSM rimasta drammaticamente celebre, al fango del “Corvo di Palermo”, fino al voto contrario sulla Superprocura ideata dallo stesso Falcone, sbarcato a Roma per dirigere gli Affari Penali del Ministero di Grazia e Giustizia, passando per la polemica (poi ricomposta) di Leonardo Sciascia nei confronti di Borsellino. E ancora, Falcone costretto a giustificarsi a seguito delle infamanti accuse di Leoluca Orlando di “tenere le carte nei cassetti”, a difendersi dal Procuratore Capo di Palermo Pietro Giammanco che gli preferiva altri e meno esperti di lui, spezzettando le inchieste in farraginosi meccanismi che ne impedivano la riuscita. Lo stesso Giammanco che negò a Borsellino, fino alla mattina di quel tragico 19 Luglio 1992 la titolarità dell’inchiesta su Mafia e Appalti per inspiegabili ragioni di “competenza territoriale”. Quella “Mafia e Appalti” che oggi, dopo la fine ingloriosa del processo per la Trattativa Stato-Mafia, pare essere la più credibile ipotesi investigativa per spiegare, almeno in parte, le stragi di Capaci e Via D’Amelio. Ipotesi ormai bruciata, visto che l’informativa del ROS da cui tutto partì, è ormai divenuta pubblica e chi doveva nascondere qualcosa, ha avuto trent’anni per poterlo fare.

Insomma, la magistratura non fu mai tenera con Falcone e Borsellino, cercò di ostacolarli in tutti i modi, leciti e meno leciti. E su questo – ha ragione Fiammetta – ancora una cappa di oscuro silenzio copre la verità fumosa e indicibile di uno Stato complice che probabilmente mai risponderà delle proprie azioni. Forse a tutto questo pensa Fiammetta Borsellino quando parla di chi ha aiutato la mafia nel suo compito di morte. O forse si riferisce ai depistaggi successivi alle stragi, a quell’abbaglio clamoroso che è il caso Scarantino, che ha fatto perdere anni preziosi per la ricerca di una verità che nessuno pare voler cercare realmente, come se il tempo potesse annacquare il dolore delle famiglie. Chissà! 

Sembrano tempi lontani eppure la storia recente d’Italia, i drammi della magistratura, i rapporti conflittuali con la politica nascono proprio da lì, da quella stagione. Da quei tragici momenti in cui la “convergenza di interessi” isolarono Falcone e Borsellino e ne consentirono l’esecuzione. Lo sapeva Falcone che non avrebbe vissuto a lungo e lo sapeva Borsellino, soprattutto dopo l’eccidio di Capaci, che i giorni erano contati. Lo sapevano perché avevano capito che quando si entra in un gioco troppo grande e si rimane isolati, si muore. Era successo nel 1985 al Commissario Ninni Cassarà, e sarebbe successo nel ‘92 della “Palermo come Beirut”.

A questo forse pensa Fiammetta mentre dal balcone della sua casa in centro a Palermo guarda la città, così diversa oggi eppure sempre così misteriosa. Fa male al cuore la sua rassegnata pacificazione quando lamenta la solitudine a Marsala, quando nessun magistrato le ha rivolto la parola durante la cerimonia di intitolazione di una via cittadina a Emanuela Loi, primo agente di scorta donna uccisa in Via d’Amelio. Tempi lontani, voci ormai flebili quelle di chi non si è rassegnato al silenzio omertoso delle istituzioni, ipocrite nel ricordare ogni anno le stragi, e al contempo tenaci nel nascondere le verità che vi si celano dietro.