Claudio Lippi, l’umarell che voleva la tv in bianco e nero

All’erta, compagni della tastiera, ho una novità che rischierà di farvi cadere dalle sedie: Claudio Lippi, l’uomo della “rivoluzione” televisiva, ha caduto la maschera. “Che cosa? Come? Quando?”, state urlando davanti ai vostri schermi. Eh sì, cari miei, come ha ben riassunto l’intramontabile Gianluca Nicoletti sulla Stampa, la realtà ha spiazzato il nostro Lippi, svelando il suo dramma shakespeariano.

Permettetemi di citare Nicoletti direttamente, perché la sua descrizione è così deliziosa che non potrei fare di meglio: “L’hanno portato a Montecitorio per fargli credere che il domani gli appartenesse; lui c’ha creduto, anche troppo, tanto da azzardare lo slancio vitale di porsi come testimonial della supremazia del super virile. Nella speranza di accattivarsi il consenso in quell’aula sorda e grigia, ha sparato ad alzo zero contro l’invasione di gay e gaie nella tv pubblica. Potevano avvertirlo che quelle sono cose che si pensano ma non si dicono.”

Peccato che qualcuno, forse un consigliere amichevole, un coach di comunicazione troppo entusiasta, o chissà, forse l’eco di qualche conversazione da bar, gli abbia fatto credere che sproloquiare sul “declino della cultura” fosse una buona idea. Purtroppo per Lippi, il suo discorso è stato accolto con meno entusiasmo di una borsa di arance marce lanciata in un’aula di lezione universitaria.

E così, da proclamato patriota, il nostro Lippi è caduto come un vero umarell, il tipico pensionato italiano con una propensione ad osservare con criticità i lavori stradali. Come un umarell che sorseggia un caffè mentre critica l’efficienza dei lavori stradali, ha lasciato che il suo ego prevalesse, credendo di rappresentare la voce di un popolo che, a quanto pare, non riconosce nemmeno il suo linguaggio.

Il nostro Lippi, forse, voleva essere il moderno Spartaco di una guerra culturale, ma la verità è che la sua “rivoluzione” ha finito per somigliare più a un giro di valzer stonato. Si è immaginato un visionario, un pugile della Kultura con la K, come vorrebbe un nostalgico dei tempi in cui l’Occidente non tramontava. Ma, ahimè, come osserva Nicoletti, “cosa gliene importa di Spengler a Lippi, da buon umarell si accontenta dei giornali che chiunque può leggere nelle bacheche per strada, quello che conta è ciò che si è fatto nella vita e non i libri che si è letto.”

Ecco, Lippi sembra essere un umarell persino nelle sue ambizioni televisive. Come l’anziano che si ferma a osservare i cantieri, desideroso di tornare ai tempi in cui il suo ruolo era centrale, Lippi sembra sognare una televisione del passato, una tv che oggi, nel nostro mondo multicolore e pluralista, suona come un nostalgico vinile graffiato.

A quanto pare, la rivoluzione del nuovo millennio per Lippi è un ritorno all’era preistorica, quando la televisione era un veicolo di vecchi stereotipi e pregiudizi, un po’ come quei pensionati che si lamentano della velocità di internet o dei giovani che stanno sempre con lo smartphone in mano. Forse, nel suo ideale di “televisore perfetto”, si vedrebbe ancora lì, in una replica di quella scena in cui si lasciava prendere a calci dalla “dolcezza del Cangurotto“, per un pubblico che passava la domenica in famiglia, con pastarelle e bambini accanto.

Ma le nostalgie di Lippi, purtroppo per lui, risuonano vuote in un mondo che ha ormai superato il bianco e nero e ha scoperto il widescreen a colori. Il suo rifiuto di accettare il cambiamento, di comprendere che l’inclusione e la diversità sono i veri motori del progresso, lo ha reso, come dice Nicoletti, un umarell caduto da umarell, piuttosto che un pioniere del nuovo millennio.

E allora, caro Lippi, permettimi un consiglio: forse è arrivato il momento di appendere al chiodo il tuo giubbotto fosforescente e accettare che i tempi sono cambiati. Forse, invece di sognare una vecchia divisa e un ritorno in servizio attivo per la “salvezza della patria“, potresti provare ad ascoltare quello che il mondo di oggi ha da dire. Chissà, potresti scoprire che la diversità non è un’invasione, ma una ricchezza, e che la vera “rivoluzione” è quella dell’apertura e dell’accoglienza. E chi lo sa, magari un giorno potresti addirittura diventare un umarell 2.0, più aggiornato e al passo con i tempi.