Bucha come Srebrenica: la “denazificazione” è solo la maschera del genocidio

Hanno fatto da scudo a Kiev all’inizio dell’invasione, salvandola dal genocidio perpetrato dai russi, sorte terribile che sarebbe toccata anche alla capitale se il coraggio ucraino non avesse ricacciato indietro quelli che combattono sotto l’insegna della maledetta Z. Irpin, Vorzel, Bucha, Hostomel, piccole località tra laghi e pini che un tempo ospitavano la villeggiatura degli ucraini in cerca di quiete a pochi passi da Kiev e che erano diventati la casa di quanti erano stati stati cacciati dai russi dalle aree di Donetsk e Luhansk, hanno pagato il prezzo più alto della folle guerra di Putin. Perché su coloro che erano rimasti lì al momento dell’arrivo dell’esercito russo si è abbattuta la furia cieca del reparto 51460 della 64° brigata di fanteria motorizzata della Federazione Russa, poi persino premiata dall’autarca del Cremlino per “merito”. Premiati per un genocidio.

Bucha, simbolo di uno dei punti più bassi toccati dell’umanità, come Srebrenica. Quando i “boia siberiani” dell’unità 51460, guidati dal comandante Omurbekov Azatbek Asanbekovich, sono arrivati c’erano circa 3500 dei 50mila abitanti della cittadina, secondo le stime del sindaco Anatoliy Fedoruk, rimasto anche lui a Bucha durante l’occupazione e salvatosi dalla cattura solo per la lealtà della sua gente, che non lo ha tradito. Quanto accaduto a Bucha, teatro di un massacro che ricorda appunto quello slavo di Srebrenica, svela la verità sulla “denazificazione” di cui Putin si riempie la bocca: gli uomini di Omurbekov Azatbek Asanbekovich – aiutati a fare macelleria di civili dai ceceni di Hussein Mezhidov, comandante del battaglione Sud della Rosgvardia, e di Anzor Bisaev, entrambi esperti di “pulizia” del territorio – hanno ucciso, torturato, schiacciati con i carri armati, violentato e seviziato centinaia di ucraini indifesi. Alcuni sono stati usati come bersagli mobili per i mirini dei fucili dei “boia siberiani” e dei “ceceni”, divertiti dalla loro stessa crudeltà nell’uccidere inermi disperati in fuga. Altri sono stati legati e poi fucilati, famiglie intere cancellate da colpi d’arma da fuoco. A Borodyanka i condomini che non hanno fatto in tempo a fuggire dai palazzi bombardati sono morti bruciati vivi per gli attacchi dei russi con i i razzi multipli Smerch e Uragan. Corpi lasciati giorni e giorni in strada, impedendone la sepoltura nelle fosse comuni scavate sotto minaccia da poveri cristi consapevole che avrebbero fatto la stessa fine dei morti ammazzati. In alcuni casi la “denazificazione” è consistita nel tirare un lanciagranate direttamente dentro l’automobile di madri, padri, figli e nonni che tentavano di scappare. O semplicemente di uscire dai rifugi – dove non avevano corrente, acqua e viveri – per procurarsi del cibo.

L’orrore lo raccontano i testimoni, come ricorda oggi La Stampa. I sopravvissuti. Almeno nel corpo ma non nell’anima. Perché quello che hanno visto e vissuto è qualcosa di troppo doloroso da sopportare. I “denazificatori” hanno violentato per giorni e giorni donne e bambini, madri e figli, madri sotto gli occhi dei figli e figli sotto gli occhi delle madri. “Così non partorirete più nazisti ucraini!” dicevano i “boia siberiani” e i mercenari ceceni, certi dell’impunità di Putin anche di fronte alle loro peggiori atrocità. Nessuna punizione, nessun giudizio, ma onorificenze e medaglie per gli assassini della nuova Srebrenica.