Manca qualche settimana ad un anno di insediamento, ma possiamo tracciare un primo bilancio sul governo Meloni. Il leader di Azione Carlo Calenda al Forum Ambrosetti di Cernobbio ha detto che Meloni è entrata a Palazzo Chigi sulla soglia dell’ufficio che era di Draghi vestita da Meloni e si è cambiata mettendo il vestito da Draghi. Ma è davvero così? Leggendo su «La Stampa» l’editoriale di Giovanni Orsina, noto politologo e storico italiano, l’impressione è che l’esecutivo che vede a guida la leader del FdI sia di scarsa visione, un bignè ripieno di ambiguità e di bandierine identitarie da piantare.
“Il governo Meloni è un governo pragmatico radicato nella tradizione della destra italiana, le cui linee di controllo interne sono sempre più accentrate su un piccolo nucleo di persone strettamente legate alla Presidente del Consiglio. Dedica il 95% delle proprie energie ad affrontare sfide più o meno emergenziali con provvedimenti che per il 95% sono definiti dal perimetro dei vincoli esterni, e il restante 5% a curare alcuni dossier identitari. Fatica, per insufficiente forza politica e culturale, a proiettarsi oltre il breve periodo e a dominare le battaglie ideologiche della nostra epoca, rispetto alle quali si colloca in una posizione volutamente ambigua”, questa la definizione di Orsina. Il che la dice lunga sulla consistenza politica e culturale della destra italiana. Lo spazio politico, diciamo chiaramente, è alquanto angusto (così è stato in estate e così, ahinoi, sarà in autunno): “I flussi migratori sono avviluppati in una rete di norme giuridiche sovranazionali, la finanza pubblica è alla mercé della congiuntura economica, delle decisioni della Banca Centrale Europea, della revisione del Patto di stabilità e crescita”.
E il governo Meloni se ne è reso conto, ha preso atto di questa realtà e “si è pragmaticamente dedicato a sfornare decisioni in buona misura precondizionate su urgenze anch’esse precondizionate”. Ed è un doloroso risveglio per un governo che avrebbe voluto ripristinare la sovranità nazionale. Anzi, per chiamare le cose con il loro nome, è una vera tragedia. “Che appartiene però alla tragedia ben più vasta e profonda dell’appassire della dimensione politica nel suo complesso. Non per caso le opposizioni versano in condizioni ben peggiori della maggioranza e sono ancora lontane dal proporsi come un’alternativa plausibile. Anche il grande moto di rivolta contro la crisi del politico che ha segnato gli ultimi dieci anni e che abbiamo chiamato populismo ha perduto la propria spinta propulsiva, almeno in Italia”, rimarca Orsina. Ed è chiaro che tali elementi, combinati insieme, non fanno che accrescere negli elettori il disamore nei confronti della politica e ad incrementare il tasso di astensionismo.
Da qui una considerazione di Orsina che merita parecchia attenzione: “La destra è arrivata al governo afflitta da un’antica e ben nota debolezza di cultura e classe dirigente. L’insufficienza del suo ceto di governo è testimoniata, in fondo, dalla stessa presidente del Consiglio. L’evidente riflesso difensivo di Meloni, il suo sforzo di accentrare il più possibile il controllo dei dossier nelle mani di un piccolo gruppo di fedelissimi, il fatto che col tempo non soltanto non abbia allargato la plancia di comando, ma la stia anzi restringendo: tutto questo dimostra che è la prima a non fidarsi delle seconde file del suo mondo – figurarsi dei mondi limitrofi. La cultura di destra nell’Italia repubblicana è sempre stata debole e minoritaria. Figurarsi il sottosettore di quella cultura che faceva politicamente capo al Movimento sociale italiano. Ma non possiamo limitare il discorso alla Penisola”. Vale un po’ ovunque, in realtà.
E se queste sono le premesse, è evidente come il gabinetto Meloni “non possa avere la forza, culturale e perciò anche politica, per disegnare e realizzare progetti di ampio respiro, né, con ogni probabilità, per portare a compimento riforme politicamente o finanziariamente onerose: la costituzione, la giustizia, il fisco”. Morale della favola? Per Orsina questo esecutivo sembra destinato a conservare l’imprinting del suo primo anno di vita. Gli si può dar torto? Decisamente no.