Siamo assolutamente consapevoli del bisogno, e del diritto, di una comunità, a sentirsi protetta, ma al tempo stesso riteniamo che si possa e si debba rifuggire da prove muscolari non proprie di uno Stato di diritto. Uno Stato che sia autorevole non ha bisogno di rapporti o prove di forza in cui nessuno è davvero vincitore, visti tra l’altro i dolori, le sofferenze e anche le polemiche che solitamente scelte “forti” si portano dietro.
Siamo convinti che portare una divisa significhi meritarsi il rispetto della società senza bisogno di esibire, o peggio “imporre”, l’uniforme. Chi la indossa deve essere consapevole della sua importanza nella difesa della società e dei suoi valori, ed esserne orgoglioso. E deve onorarla sempre, rispettando per primo le norme di legge. Il rispetto genera rispetto senza necessità di imposizioni. Forze di polizia, forze dell’ordine autorevoli attenuano le paure dei cittadini, che si sentono tutelati, generando senz’altro più consenso e quindi, di riflesso, anche una migliore e consapevole adesione ai dettami normativi da parte di tutti.
Siamo pure convinti che la risposta al crimine non debba necessariamente passare in via esclusiva dal carcere. Al di là della immediata percezione di sicurezza che la reclusione piò suscitare e al di là del pur comprensibile desiderio di vedere “vendicato” in modo coercitivo il torto subìto, è indubbio si tratti di una costosa misura che riempie gli istituti di pena, che non assolve al compito che l’ordinamento vigente le affida, e che genera relazioni assai complesse tra chi nelle carceri soggiorna e chi in esse vi opera. Basti ricordare i recenti fatti del 2020 che hanno riguardato gli istituti carcerari, in alcune città messi a ferro e fuoco: distruzione, fughe, rivolte, ferimenti e in certi casi anche decessi di detenuti. Il paradosso è che tutto ciò ha anche contribuito a generare una forte clima di insicurezza, quando non di sgomento, nella comunità esterna e ci si si è molto interrogati su quanto accaduto, con notevoli scontri di pensiero al riguardo. La soluzione non può nemmeno essere (solo) quella di costruire nuove carceri o ampliare quelle esistenti, richiedendo ciò un enorme sforzo di tipo economico, anche per l’assunzione, la formazione e l’impiego di personale qualificato. Senza contare che la risposta carceraria, pur congegnata nel migliore dei modi, non sempre soddisfa davvero chi è vittima del reato.
Ecco allora che saremmo favorevoli a misure alternative, naturalmente pensandone tipologia e casistica, sia nella fase dell’esecuzione della pena che in quella processuale, come del resto già proposto dal sistema penale e da quello penitenziario italiano. E come statuito dalla nostra Costituzione che all’art. 27 narra chiaramente che le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato. Non si tratta solo di svuotare le carceri ma di dare un senso alla risposta dello Stato nei confronti di chi ha sbagliato, che non è solo quella di punire ma anche, e soprattutto, quella di far in modo che il reato non si ripeta più perché chi lo ha commesso, capito il disvalore della propria condotta, venga accompagnato nel reingresso in comunità.
E’ doveroso quantomeno provarci.
Caterina Zurlo
Responsabile nazionale Dipartimento Sicurezza Buona Destra