di Arianne Ghersi
In seguito ai recenti attentati, i paesi coinvolti hanno “sfoderato” idee decisamente poco realizzabili.
Il cancelliere austriaco Kurz, nei giorni seguenti all’attacco, ha dichiarato l’intenzione di promulgare una legge che contrasti efficacemente quello che lui stesso ha definito “Islam politico”. La notizia, purtroppo, non è stata corredata da una bozza della proposta di legge, ma ciò che è trapelato è chiaro: si vuole impedire il finanziamento a cellule presenti sul territorio, sarebbe possibile imporre il braccialetto elettronico a soggetti considerati “a rischio”, si ipotizza il prolungamento di pene detentive ove necessario, si contempla la chiusura di associazioni/luoghi di culto sospetti, si vorrebbe istituire una sorta di albo degli imam, si richiede la creazioni di reparti specializzati nella lotta al terrorismo.
Macron, invece, ha dato disposizioni per cui la polizia ha e avrà la possibilità di far irruzione in settantasei moschee presenti sul territorio francese su ordine diretto del ministro dell’interno. Si stima che una dozzina di esse potrebbero essere chiuse.
Letto ciò, potremmo forse tirare un sospiro di sollievo in quanto l’Italia, avendo purtroppo molta esperienza con il terrorismo eversivo, ha già comparti specializzati delle forze dell’ordine e militari che garantiscono a noi cittadini di svolgere le nostre vite con regolarità. Quello che dovrebbe invece preoccuparci sarebbe l’eventualità di vietare la politicizzazione della religione (dato che alcune forze di destra hanno manifestato una condivisione ideologica con quanto stabilito da Francia e Austria) e se ciò fosse “giusto” come attuare le politiche stabilite all’interno del territorio italiano.
Per comprendere meglio il fenomeno è fondamentale portare ad esempio il caso del buddismo (Soka Gakkai): in Italia è considerata una delle tante religioni presenti e professate sul territorio, in Francia e in altri Paesi europei sino a qualche anno fa era considerata una setta sospetta. Il problema dirimente, quindi, è già stabilire tra i paesi dell’area Schengen i criteri secondo i quali le religioni siano “consentite”.
Per quanto concerne i finanziamenti illeciti, non trovo logica giuridica nella creazione di una fattispecie di reato ad hoc nei confronti del terrorismo islamico: la Guardia di Finanza è già in possesso degli strumenti per contrastare gli scambi fraudolenti di denaro, la lotta ai capitali delle cosche mafiose è realtà nota e quotidiana e tali procedure sono probabilmente estendibili ad altre situazioni di reato.
I braccialetti elettronici sono già una chimera dato che le autorità giudiziarie ne denunciano già da anni la carenza e, se a ciò sommiamo una maggiorazione delle pene, le valutazioni delle condotte ostative nei tribunali potrebbero portare ad ulteriori rallentamenti della nostra giustizia, già per questo tristemente nota.
Per quanto concerne la creazione di un “albo” degli imam, l’attuazione si rende complessa. Semplicemente consultando l’Enciclopedia Treccani troviamo questa definizione: “Colui che dirige la preghiera rituale in comune, ufficio che può essere tenuto da qualsiasi musulmano conoscitore del rituale e non implica alcun concetto di ordini sacri.” Forse chi è delegato ad occuparsi dei rapporti con le autorità religiose dimentica che l’islam è peculiare proprio perché non è caratterizzato da una gerarchizzazione simile a quella cattolica e, se ogni credente che ne è in grado può dirigere la preghiera, vuol dire che chiunque lo faccia legittimato dal proprio credo potrebbe ritrovarsi ad infrangere la legge dello stato in cui si trova.
Un ulteriore dato da non sottovalutare è la “nebulosa” distinzione che si potrebbe provare a fare tra luogo di culto/associazione/sala di preghiera. Al contrario di quanto avviene nel cattolicesimo, l’islam ha meno “bisogno” di un luogo fisico e ciò è confermato dal precetto secondo cui è necessario compiere le abluzioni prima della preghiera: pensando a luoghi desertici, probabilmente già all’epoca del profeta Mohammad si era posto il problema di avere sufficienti scorte d’acqua e, in ragione di ciò, il dogma consente di sostituirla con la sabbia. Una religione che consente ai propri fedeli di pregare quasi in qualsiasi luogo, con la richiesta di farlo rivolti verso La Mecca, è davvero “controllabile” da una realtà statale e burocratica? Il sospetto legittimo risiede nella convinzione che, chi ha intenti illeciti, si limiterebbe semplicemente a smettere di radunarsi in un luogo stabilmente deputato.
La creazione di una legge che vieti la politicizzazione della religione si rende evidentemente impossibile anche ragionando su due luoghi molto conosciuti: il Vaticano ha codici normativi propri, non ha aderito ai patti riguardanti la libera circolazione e ha accordi stringenti con lo stato italiano per la tutela delle numerosissime chiese disseminate in tutta la nazione; la Grande Moschea di Roma (o meglio Centro islamico culturale d’Italia) è legalmente un’associazione, è stata costituita a partire dalle rappresentanze diplomatiche in Italia di diversi stati e, fino al 2016, Rayed Khalid A. Krimly (ambasciatore dell’Arabia Saudita in Italia) vi presiedeva le riunioni del board.
Nel caso le poco lungimiranti idee francesi e austriache fossero adottate in Italia, come si pensa di applicarle? La nostra nazione, seppur laica, ha una storia legata profondamente alla fede e, in ragione di possibili atti terroristici, dovremmo a tal punto snaturarci?